Rivista Anarchica Online
La Fabbrika occupata
di Cristina Valenti
Si è svolta a Bologna, dal
28 giugno al 18 luglio, la sesta sessione internazionale dell'ISTA
(International School of Theatre Anthropology) dal titolo "Università
del teatro eurasiano: tecniche della rappresentazione e della
storiografia". Tra le organizzatrici dell'intenso programma, la nostra
collaboratrice Cristina Valenti. Ecco il suo resoconto
"Il viaggio nella Terra del
Rimorso è ora terminato: un viaggio che volle essere
comprensione storica di un paesaggio umano, e che sperimentò
come problema entrambi i termini del rapporto, i visitati e i
visitatori, la terra percorsa e i suoi non occasionali pellegrini".
Con questa fra di Ernesto De Martino si
apre Lo straniero che danza, il libro che racconta i viaggi
teatrali dell'Odin Teatret nelle montagne della Barbagia, in
Sardegna, in Puglia, fra il '72 e il '77: quando nacque e si sviluppò
l'esperienza del "baratto", l'uso del teatro come tramite
per uno scambio culturale e antropologico, "come giravano e si
scambiavano, nelle isole della Nuova Guinea, collane e bracciali di
conchiglie, mwali e soulava" scriveva Eugenio Barba da
Carpignano Salentino, nel 1974. Da una parte lo spettacolo dell'Odin,
le danze, i numeri acrobatici, le clowneries, le parate teatrali con
trampoli, maschere, tamburi, sbandieratori e nastri filanti,
dall'altra parte le canzoni della Grecia ritrovate dai giovani di
Calimera, i balli popolari e la pizzica pizzica, l'armonica a bocca,
la chitarra e il tamburello dei pastori e dei contadini sardi e
pugliesi.
La frase di Eduardo De Martino avrebbe
potuto concludere il Dialogo Teatrale con la Fabbrika Occupata, a
Bologna il 14 luglio scorso, penultima giornata della sessione
bolognese dell'ISTA, Università del Teatro Eurasiano.
La Fabbrika, ex stabilimento
industriale per la produzione di infissi e serrande abbandonato
qualche decennio fa, funziona da un anno circa come centro sociale
autogestito e inoltre come circuito alternativo di sperimentazioni e
aggregazioni spettacolari di base. Con i suoi Spazi Musica, Arte e
Teatro, la Fabbrika è una sorta di Beaubourg dell'emergenza:
accogliendo ciò che è marginale al sistema e al mercato
delle arti, al di fuori di ogni certezza di sostentamento e perciò
in condizioni di precarietà intrinseca. E da qualche tempo la
Fabbrika è anche un dormitorio semi-improvvisato e
paradossalmente "riconosciuto". Il Comune di Bologna ha
chiesto infatti nei mesi scorsi agli occupanti di accogliere una
trentina di extracomunitari regolarmente registrati ma sprovvisti di
posto letto. La Fabbrika ha accettato a condizione che gli spazi
destinati a riceverli fossero resi vivibili. Il Comune ha alzato dei
muretti di mattoni in uno dei capannoni, ricavandovi delle cellette
corrispondenti ad altrettanto posti letto: ed il luogo è stato
così promosso a vivibile. Nel capannone contiguo sono ben
presto arrivati altri ospiti, marocchini e tunisini, non indirizzati
dall'ente pubblico, che hanno sistemato i loro materassi direttamente
sul cemento della Fabbrika, sotto i grandi lucernari incandescenti di
sole durante il giorno ed esposti all'acqua in caso di intemperie.
Oggi gli extracomunitari che dormono nella Fabbrika sono un gruppo
fluttuante che si aggira attorno alle cento persone, che comprende
comunità anche in conflitto fra loro, rispetto alle quali gli
occupanti si trovano a svolgere una specie di assistentato sociale,
cercando equilibri, sorvegliando l'emarginazione e le sue possibili
conseguenze: intervenendo con l'autogestione per provvedere alle
necessità anche più elementari.
Iniziative autogestite
La sperimentazione di forme
alternative, non solo di arte e spettacolo, ma anche di aggregazione
e socialità, trova attualmente i suoi unici spazi residui al
di fuori delle maglie istituzionali e all'insegna della necessità.
Oggi alternativo coincide con necessario. È necessario
sperimentare qualcosa di alternativo (in termini di organizzazione
sociale, economica e culturale) per sopravvivere al di fuori delle
strutture istituzionali, così come l'alternativa si fa
necessità (cioè obbligo dell'emergenza e della
marginalità) per poter essere. Non è un caso che siano i centri
sociali oggi in Italia gli unici luoghi ad accogliere forme di
sperimentazione reali: nell'attuale "urbanizzazione" del
territorio cultural-spettacolare, soggetto alle leggi del mercato e
dei nuovi mercanti (impiegati comunali e funzionari di partito)
interessati a sottolineare tutto ciò che è ufficiale, e
ad omologare il resto al suo modello, le forme radicali di
sperimentazione e alternativa giovanile, politica e culturale si
collocano necessariamente fuori delle mura. E paradossalmente le
iniziative autogestite svolgono nella clandestinità i compiti
ai quali l'organizzazione della società civile non è in
grado di provvedere: si tratti di accoglienza e assistenza sociale o
dell'attivare dinamiche culturali e artistiche di base.
Lo Spazio Teatro della Fabbrika è
coordinato da Eugenio Ravo, un artista che si è formato in
Francia con Decroux e che conduce attualmente un'originale ricerca di
tipo teatral-musicale. Ha accettato di ospitare il dialogo teatrale
con l'ISTA quando ha avuto la certezza che non si sarebbe trattato di
una bella festa, ma di un atto di confronto reale e solidarietà.
Ero entrata diverse volte nella
Fabbrika durante l'organizzazione dei dialoghi o per assistere a
performance artistiche, e mi aveva sempre colpito il fascino fatato e
hard di quell'archeologia industriale, disegnata dagli squarci
di luce che entrano dalle molte vetrate e dagli interventi dei tanti
artisti che soggiornandovi o semplicemente passandovi vi hanno
lasciato la loro impronta. Ma il 14 luglio, quando la Fabbrika si è
aperta alla carovana dell'ISTA e al pubblico della città,
c'era qualcosa di commovente che si univa alla suggestione.
Gli occupanti della Fabbrika hanno
maturato una specie di amore per il luogo del quale, in termini
legali, stanno abusando; e in una sorta di ricerca delle proprie
radici hanno dissotterrato dalle macerie vecchi cimeli: l'antica
insegna, l'armadietto con i talloncini di identificazione degli
operai e tanti rottami di cui hanno ricostruito storia e provenienza.
In un angolo, appena si entra, la vecchia vita della fabbrica è
evocata come in un museo attraverso grandi e piccoli cimeli
industriali. Nel grande spazio che si apre sulla sinistra si
mescolano gli oggetti della vita attuale della Fabbrika e quelli
assemblati o costruiti dagli artisti che vi hanno lavorato: i totem,
ready-made di duchampiana memoria, i graffiti colorati.
Sapore di autenticità
Il dialogo è iniziato nello
Spazio Teatro vero e proprio: vecchie sedie di recupero disposte a
semicerchio attorno a un piano di linoleum montato per l'occasione.
La lunga figura della morte sui trampoli e il piccolo clown con la
bombetta e il fischietto in bocca, due personaggi del teatro di
strada dell'Odin hanno introdotto e fatto da cornice allo spettacolo:
la danza Odissi di Sanijukta Panigrahi, il Kabuki giapponese e il
Kechak dei Balinesi. Dai loro diseredati quartieri cominciavano ad
arrivare anche i più diffidenti degli extracomunitari e ad
apprezzare quella strana festa. "E come disse il poeta: larga è
la foglia, stretta la via, dite la vostra che ho detto la mia!":
il clown nero conclude così la parte Ista del dialogo e dà
spazio allo spettacolo della Fabbrika.
Eugenio Ravo ci guida spingendo un suo
carrettino musicale, tutto costruito con pezzi di recupero della
vecchia fabbrica. Lo spettacolo è la vita della Fabbrika e
sono i vari artisti che la attraversano: il fachiro, la performance
di un artista greco che modella col fuoco i suoi oggetti: una serie
di biciclette avvolte nella tela di iuta, una ragazza tedesca che
canta due canzoni accompagnandosi con la chitarra, e che troviamo
seduta nel nostro percorso, mentre il fuoco crepita ancora e il fumo
arriva avvolgente, un pittore impegnato ad allestire una sua mostra,
in uno spazio dove due marocchini fanno musica; poi l'itinerario
procede fin dentro il dormitorio, il carrettino suona, l'attore
pronuncia qualche parole: "Siamo a Bologna...", ricorda. Il
dialogo itinerante termina nel luogo dal quale si era partiti, lo
Spazio Teatro, dove Eugenio Ravo presenta la sua performance
musicale, con le "tube" di sua costruzione: ottenute con
oggetti trovati nella fabbrica e fatte risuonare la prima volta in
una sera d'inverno, cercando il modo di produrre calore.
Mohamed ha lavorato due giorni per
offrirci il suo pane marocchino cotto sulla pietra. Il dialogo è
finito. Molti spettatori sono commossi. Eugenio Barba invita a
riempire i cappelli. Dice: "La ricca Bologna ha una rassegna
estiva che si intitola Bologna sogna; ma noi oggi abbiamo
visto che i sogni possono produrre incubi".
Come dire "il viaggio nella terra
del Rimborso è ora terminato". I "non occasionali
pellegrini" non sono stati solo interlocutori del baratto, ma
hanno rappresentano un impulso, nella "terra percorsa":
scoprendoli, hanno messo in moto processi relazionali, e i visitati
hanno mostrato il legame comune che li caratterizza e li definisce in
rapporto ai visitatori. Legame di solidarietà e verità,
che ha in qualche modo restituito verità ai loro spettacoli.
Così il fachiro ha fatto davvero paura e raccapriccio, la voce
della ragazza tedesca ha suscitato un dolce struggimento, le
biciclette bruciate hanno dato il senso esclusivo dell'unicità
dell'evento di performance, poi la commozione delle canzoni degli
immigrati di colore e delle tube di Eugenio Ravo. Un sapore di
autenticità e necessità che non è cosa da poco,
né di tutti i giorni, in epoca di fruizione patinata e
"mediata" dello spettacolo.
ISTA / Dimensione transculturale e approccio empirico
Fondata nel 1979, L'Ista - International School of Theatre Anthropology - concpita e diretta da Eugenio Barba,
è un organismo permanente con sede a Holstebro (Danimarca). L'ISTA realizza sessioni pubbliche
presso istituzioni culturali, nazionali ed internazionali, che ne assicurano
l'amministrazione. Fra il 1979 ed il 1990 si sono svolte le seguenti sessioni: - Bonn (Germania Federale),
1-31 ottobre 1980; - Volterra (Italia), 8 agosto - 8 ottobre 1980; - Blois e Malakoff (Francia), 16-26 aprile
1985; - Holstebro (Danimarca), 17-22 settembre 1986; - Salento (Italia), 1-14 settembre
1987. L'ISTA è il punto di arrivo da un lato degli anni di viaggio dell'Odin Teatret (il teatro fondato
nel1964 da Eugenio
Barba con sede prima a Oslo, in Norvegia, poi a Holstebro, in Danimarca) e dall'altro dei suoi anni di
apprendistato, delle lunghe ricerche sul lavoro e la cultura dell'attore. All'ISTA partecipano i maestri orientali
che furono all'origine della formazione di Barba e dei suoi attori, e vi prendono parte "allievi" che sono spesso
attori o registi dei teatri di gruppo che l'Odin ha incontrato durante i suoi viaggi ai margini del teatro. Nel
corso di dieci anni l'ISTA si è configurata come un laboratorio di ricerca sul lavoro dell'attore e del
danzatore, e sulla percezione dello spettatore. Le tradizioni del teatro orientale, giapponese, cinese, indiano e
balinese si saldano nell'ISTA alle ricerche sull'allenamento dell'attore europeo. La scelta metodologica
dell'ISTA si fonda su una dimensione transculturale e su un approccio empirico ed ha
come obiettivo la comprensione degli elementi primi su cui si fondano il bios del teatro e
l'ethos degli attori. Il termine "antropologia" ha nell'ISTA il significato originario di "studio
dell'essere umano". Antropologia
Teatrale è perciò lo studio delll'essere umano in situazione di rappresentazione organizzata,
quando dalle tecniche
quotidiane del corpo si passa a tecniche extra-quotidiane. La sessione bolognese dell'ISTA (Università
del Teatro Eurasiano, 28 giugno / 18 luglio 1990) si è svolta durante
la prima parte come corso teorico-pratico, sotto forma di laboratorio chiuso, al quale hanno partecipato circa 110
persone: l'équipe permanente dell'ISTA, ossia un gruppo di ricerca internazionale comprendente storici
del teatro,
sociologi, antropologi, musicologi e artisti di diverse tradizioni teatrali (gli ensambles di danza Odissi, India, con
Sanjiukta Panigrahi, di danza Buyo Kabuki, Giappone, con Kanho Azuma e Kanichi Hanayagi, di teatro danza
balinese, con la compagnia Dharma Shanti, oltre agli attori e musicisti dell'Odin Teatret) ai quali si sono uniti
gli ospiti provenienti da università e teatri di diversi paesi (in particolare questa sessione ha privilegiato
la
presenza sudamericana, con studiosi e rappresentanti di gruppi o istituti teatrali peruviani, argentini, cubani,
brasiliani, cileni, uruguaiani, colombiani). La seconda parte ha compreso una serie di attività aperte:
un simposio su Antropologia teatrale: ethos e pre-espressività dedicato a dimostrazioni
pubbliche di lavoro dirette da Eugenio Barba, con la partecipazione dei
pedagoghi e degli artisti orientali e occidentali; un convegno internazionale dedicato al tema Tecniche della
rappresentazione e storiografia; spettacoli degli ensambles indiani, balinesi e giapponesi; il Theatrum
Mundi,
spettacolo di tutti gli artisti dell'ISTA; due Dialoghi teatrali, ossia baratti sotto forma di feste
d'ospitalità e
confronto tra forme spettacolari straniere e manifestazioni della cultura del posto: il primo con lo Spazio Teatro
Fabbrika (di cui riferiamo estesamente nell'articolo) e il secondo con il Quartiere Borgo Panigale. Nel
presentare il programma dell'ISTA, Barba ha scritto: "Il rapporto che lega il teatro e il
libro è un mezzo
fecondo di trasmissione e crescita culturale. Però tende spesso a disequilibrarsi dalla parte del libro, e la
memoria delle esperienze vive che furono teatro rischia di disperdersi in pagine erudite ed acute, ma
decontestualizzate. Fra le diverse forme di etnocentrismo che velano i nostri occhi, ve n'è una che non
riguarda
le aree geografiche e culturali e che dipende dai ruoli che la realizzazione teatrale crea: è l'etnocentrismo
che
considera il teatro solo dal punto di vista dello spettatore trascurando tutta la problematica che sta dall'altra
parte: l'ensamble - la rete di relazioni, conoscenze e modi di pensare - di cui lo spettacolo è il frutto.
Emerge da
tutto ciò la vitale importanza di un tempo di esperienza comune in cui, preservando le
specificità delle diverse
competenze, gli artisti che incarnano precise tradizioni possano dialogare con intellettuali che si danno il
compito di affilare gli strumenti per comprendere la multiforme realtà del teatro e della sua
storia".
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