Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 171
marzo 1990


Rivista Anarchica Online

Le sbarre e la notte
di Agostino Manni

Aveva già scontato 12 mesi per la sua obiezione totale. Il 12 dicembre scorso, però è stato nuovamente arrestato e trasferito nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (Caserta), dove ha scontato un mese per "rifiuto d'obbedienza": si era rifiutato, nel corso della sua precedente permanenza a S. Maria, di indossare la divisa. È durante questo mese di detenzione che Agostino Manni ci ha inviato lo scritto che qui pubblichiamo.

A mezzanotte del 31 dicembre, mentre fuori del muro scoppiava l'allegria della gente "normale", ho pensato a tutti i compagni che stanno in galera - e a quelli, soprattutto, che ci stanno da anni: ho stretto loro la mano, ci siamo baciati, e ci siamo augurati un oceano di felicità.
Una guardia ha versato nel mio bicchiere di carta un po' di spumante e mi ha fatto gli auguri. Ma anche gli auguri più caldi, qui dentro, non riescono a toglierti il freddo dal cuore. Così ho trascorso il mio capodanno: il secondo che passo qui dentro; e certo il più triste tra quelli di cui mi è rimasto il ricordo.
Mia madre, quando mi hanno arrestato, era talmente arrabbiata che non riusciva a controllare le parole. Ai carabinieri che mi avevano preso continuava a ripetere: "E adesso, che cosa vi danno? La medaglia al valore?". E ad alta voce, gli buttava addosso continue bestemmie. Almeno quest'anno pensava di passarla con me, questa festa; e invece, anche stavolta, ci siamo abbracciati con un telegramma, e con lo stesso sistema ci siamo scambiati gli auguri.
Qui, nel carcere di Santa Maria, le cose sono leggermente cambiate. Da quando sono entrate in vigore le nuove norme di procedura penale, il reparto "Nuovi Giunti" (l'isolamento giudiziario, che al momento opportuno diventava "punitivo") praticamente è ormai chiuso.
Quando qualcuno arriva nel carcere, adesso, quasi sempre, giuridicamente, è già "definitivo": viene subito portato di sopra, al reparto, e messo in cella insieme con gli altri reclusi.
Per Manni, invece, anche stavolta la procedura è stata "speciale" (e si capisce facilmente il perché): il dottore, durante la visita medica, mi ha riscontrato una malattia delle pelle (una micosi, di quelle che si "prendono" al mare) e ha preferito tenermi in sala degenza, nel reparto dell'infermeria. Questa, almeno, è la versione ufficiale.
L'ultima volta che entrai in questa cella, due laureati con la divisa da medico cercavano invano di imbucarmi una vena per farmi una flebo e ridare "tenore" al mio corpo dopo un "digiuno" che era durato più giorni (alla fine di una delle tante proteste, che io e Giuseppe Coniglio facemmo, contro l'arroganza delle autorità carcerarie).
Il giorno stesso che sono arrivato, il comandante della "compagnia detenuti" mi ha ricordato che "la procedura, qui, è sempre la stessa": come a dire che, se al momento opportuno, non avessi rispettato i suoi ordini, sarebbero scattate le rituali denunce.
E la mattina del 27 dicembre, appena rientrato dal solito ipocrita bagno di bontà natalizia, il comandante del carcere in persona - lo stesso che per due volte ha denunciato Coniglio - ha voluto ricordarmi che, nel carcere, "ora è tutto tranquillo"; e mi ha dato quarantotto ore di tempo per decidermi ad indossare la divisa prescritta dal regolamento (quella stessa divisa per aver rifiutato la quale io, adesso, mi trovo rinchiuso qua dentro).
Quarantotto ore di tempo per chinare la testa.
Quarantotto ore per scordare che un uomo - oltre a due braccia e a due occhi , ad un cuore, ad un fegato, ad uno stomaco e a un culo - possiede anche una sua dignità. Anche se qualcuno ogni tanto lo scorda.
Gli ho risposto di ricordarsi di Manni, il giorno in cui i suoi privilegi verranno a mancare; perché sarà un uomo come tutti gli altri, quel giorno, quando le sue stellette e le sue torri dorate perderanno qualsiasi valore.
Oggi è l'otto gennaio e non ho ancora subito nessuna denuncia: sono sempre in infermeria, con i miei abiti addosso e conto con ansia le ore che stanno tra me e la mia libertà.
Se tutto andrà come spero, a giorni uscirò da questo posto, per non metterci piede mai più: il mio conto con "giustizia" militare sarà chiuso e comincerò a vedere queste galere "speciali" dall'esterno del muro (ma tutte le volte - tutte le volte: lo giuro - che all'interno ci sarà qualcuno che lotta, qualcuno che senza dubbio avrà bisogno di me).
Dei "comuni" di Santa Maria - di quelli che rimasero dentro quando fui scarcerato, alla fine dello scorso febbraio - sono rimasti soltanto Antonio e Giocchino, i due "rivoltosi", che stanno scontando due lunghe condanne per quella protesta che fecero nel carcere di Bari-Palese, non mi ricordo più quanti anni fa.
Il 31 dicembre, Renzulli era uscito in licenza: lo stesso "beneficio" avrebbero dato probabilmente anche a Nino, se non fosse che, l'ultima volta che gliel'hanno concesso, l'estate scorsa, lui ha preferito restarsene fuori e non ha fatto rientro. L'hanno arrestato a casa sua, dopo la mezzanotte, non più di qualche settimana fa.
La notte del 31 dicembre anche lui ha scelto di non fare la festa. C'è chi dice che qualche giorno prima, al paese, gli avevano ammazzato un amico: c'è chi spiega così il fatto che, alle dieci, lui si era già messo a dormire. Ma certamente, quella notte, qualcuno si è sentito ancora più solo. Qualcuno sicuramente avrà sofferto ancora di più; e avrà odiato la gioia degli altri, per aver rivelato la sua solitudine; e avrà odiato i petardi, la televisione, il casino e le luci, per aver ricordato la sua infelicità.
Come quella donna africana, detenuta a Rebibbia, della quale il "Manifesto" ha pubblicato una lettera, poco prima della fine dell'anno. Nella quale raccontava una storia, che è la stessa di migliaia di altri "stranieri", segregati nelle prigioni delle nostre belle città.
E parlava delle umiliazioni subite, dei soprusi, della sua solitudine, dell'impossibilità di parlare con un altro essere umano, almeno di quelli rinchiusi in gabbia con lei, perché tutti parlavano una lingua diversa da quella che lei aveva fin da bambina imparato, perché nessuno la poteva capire, perché nessuno la stava mai ad ascoltare.
Questa storia mi ha molto colpito; e non solo perché, in pratica da quando mi hanno arrestato, io vivo lontano dal resto dei detenuti, in un isolamento che, sebbene non sia "punitivo", non per questo mi riesce meno triste e meno penoso. Quella lettera mi ha molto colpito perché si chiudeva con alcune parole, per le quali in questo momento è facile scendere al fondo di me e chiedere che io non le scordi mai più.
Quella lettera finiva così: "So di essere sempre viva. So che un giorno la luce si accenderà di nuovo e sarò capace di sentire e vedere tutto ciò che mi è familiare. Le sbarre e il cemento torneranno al loro posto, però, fino a quel giorno, la mia comunicazione con il mondo è interrotta".
Mi ricordo quando andavo a scuola. La maestra ci chiedeva: "Se un grande albero cade nella foresta e nessuno l'ha sentito cadere: ha fatto davvero rumore?" La classe si divideva in metà si e metà no. Io rispondevo sì.
Ora so che non avevo ragione.
Un grande albero cade nella foresta e nessuno l'ha sentito cadere: ha fatto davvero rumore?