Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
Mattacchione d'un georgiano
Otar Davidovic Ioseliani è uno
che, nel 1934, nasce nella Repubblica Federativa di Georgia e ben
presto doveva rivelarsi uno spirito piuttosto inquieto, visto che, in
fatto di studi, passa dalla meccanica alla matematica, o dalla musica
al cinema con una certa facilità, e, in fatto di mestieri,
prima di indugiare nella regia cinematografica, non si è
negato d'imbarcarsi come marinaio o d'interrarsi come minatore. Al
georgiano d'altronde - credo sia questo un proverbio - si addice
il bizzarro e pure un po' l'anarcoide, se consideriamo che oggidì
- che ci sia Gorbaciov o che non ci sia Gorbaciov - è
costretto a rammentarsi della terra natia dalla Francia più
ospitale.
Alla gente che ha voluto intrattenersi
con lui - guardandone i suoi due film, C'era una volta un merlo
canterino, 1973, e I beniamini della luna, 1984 - ha detto
bene e tanto, con finezza di stile e profondità di sentimento.
Se il suo primo film narrava l'amabile e drammatica vicenda di un
musicante distratto (distratto fino a morirne: voltandosi a rimirar
ragazze e venendo investito da un camion), il secondo tesseva le lodi
del furto come attività umana endemica per certuni e arte di
massima dignità per certaltri, ma, su un canovaccio o
sull'altro, ciò che stava veramente a cuore a Ioseliani era
comporre schivando sia le frivolezze che gli angosciamenti, una sana
elegia del fortuito, argomentare cioè una tesi
cinematograficamente godibile sulla casualità del dire, del
fare, del disdire e del disfare.
Tutto ciò è premesso per
dire di un terzo film, approdato di fresco fra noi con il titolo di
Un incendio visto da lontano, per la libera traduzione di Et
la lumière fut. Lo stile è ribadito, togliendo
ancora qualche fronzolo: Ioseliani ama molto far da spettatore,
accompagna affettuosamente persone e cose, ma senza partecipazioni
eccessive - il melodramma non è una corda del suo sentire -,
gioca con le sequenze come con le tessere di un mosaico che solo
superficialmente vorrebbe apparire semplice. I modi di tagliare
immagini e narrazione possono ricordare l'école du regard
alla francese (tipo Robbe-Grillet, Butor, la Varda, un po' Le Clezio,
fra cinema e letteratura), ma con un occhio sornione e un po'
svagato, una sorta di buontemponeria disillusa del tutto nuova e del
tutto personale. Sotto la sua guida non ci è mai offerto un
qualcosa di meramente percettivo, ma sempre qualcosa di
argomentativo: prima fa cercare il bandolo della matassa, poi si
sorride di gusto e infine, se ci ha fatto complici, ci si intristisce
con serenità.
Un incendio visto da lontano è
la tenue parabola della civiltà che avanza - e in questo senso
è il più "moralistico" dei tre film di
Ioseliani - "vissuta" più che "vista" da una
microcomunità indigena ove vige uno strampalato matriarcato. Così mentre gli alberi secolari
d'Africa vengono abbattuti al suolo e trasformati in cadaveri da
mercantilizzare, i maschietti dormicchiano o lavano i panni, le
femminucce litigano o colgono i frutti della natura in estinzione, i
matrimoni si sciolgono e si contraggono con le mozioni assembleari, e
gli anziani - quando cominciano a far sballare le norme statistiche
su cui la comunità sopravvive - vengono incoraggiati con la
perentorietà della religione a togliersi dai piedi.
Non gli ci vuol molte parole - una
trentina di didascalie, che traducono la lingua indigena -, a
Ioseliani, per non dare scampo a nessuno: è vero che la
cosiddetta "civiltà che avanza" è un'immonda
schifezza e non riesce a darsi un benché minimo senso, ma
certo che gli indigeni - questi indigeni su cui la civiltà
esercita tutto il suo sopruso - non sono un granché come
valore alternativo, mezzucci e viltà sono anche il loro pane
quotidiano. Alla fine le seghe elettriche spazzeranno via anche il
loro villaggio, i civili incendieranno le povere capanne, ma niente
paura, in città ci sono i bei vestiti, c'è la radio a
tutto volume, ci sono i fumetti, e già che ci siamo, andiamo a
far mercato della statuetta del dio della pioggia - un dio della
pioggia che, qui sta il bello, la pioggia la faceva venire davvero:
alla faccia dei razionalisti! Con il che, questo mattacchione
georgiano sistema usurpatori ed usurpati, con le loro sicurezze.
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