Rivista Anarchica Online
Stato o rivoluzione
di MIrko Roberti
Le recenti vicende nei paesi a
comunismo di stato possono essere utili per tornare a riflettere su
quell'evento fondamentale che è stata la rivoluzione russa. Lo facciamo attraverso una analisi
del pensiero leninista, che sviluppa e approfondisce i temi della
critica anarchica. Già all'indomani della rivoluzione gli
anarchici denunciavano il vicolo cieco in cui Lenin e il partito
comunista la stavano conducendo.
Il discorso che segue tende a mettere
a fuoco la problematica essenziale di una lettura anarchica del
leninismo alla luce di una prospettiva allo stesso tempo teorica e
storica. Vogliamo, beninteso, indicare qui solo alcune linee
fondamentali, senza avere la minima pretesa di esaurire il problema,
per certi versi, come vedremo, complesso e tortuoso.
Detto questo veniamo subito al nocciolo
della questione affermando che un discorso sul leninismo passa
innanzi tutto attraverso il nodo decisivo e fondamentale del
soggettivismo rivoluzionario. Riteniamo infatti che tutte le abissali
differenze ideologiche e strategiche che separano l'anarchismo dal
leninismo discendano proprio dall'unico elemento che apparentemente
sembra accomunarli: il soggettivismo, appunto. È questa una
premessa metodologica che ci sembra corretta dal punto di vista
scientifico oltre che ideologico, perché la specificità
del leninismo rispetto alla teoria e alla tradizione marxista risiede
nel suo innesto volontaristico-rivoluzionario. In altri termini, se
non si pone la centralità del discorso sul soggettivismo,
l'analisi tende a ridursi al solito confronto fra marxismo e
anarchismo.
Dal soggettivismo dunque bisogna
partire e, per essere precisi, da quello leninista: caratterizziamolo
subito sottolineando i nodi fondamentali della riflessione e della
pratica leninista. Il punto di partenza di Lenin è duplice: da
una parte Marx, dall'altra la Russia. Marx, ovvero la linea di
tendenza oggettiva della storia (dallo sviluppo del capitale, alla
formazione del proletariato, alla rivoluzione); la Russia, ovvero
l'anomalia rispetto alla linea di tendenza indicata da Marx (assenza
del capitalismo).
Il problema di Lenin è dunque
quello di innestare il processo rivoluzionario dentro una situazione
storica che il marxismo non riteneva assolutamente favorevole. Di qui
l'accettazione e l'assunzione diretta "di un punto di vista
concreto in una situazione concreta" (per usare le sue parole),
e per ciò l'accettazione dei rapporti di forza fra le classi e
della stessa lotta di classe dentro una formazione sociale
determinata dove il peso e il ruolo della classe operaia erano
sostanzialmente scarsi sia qualitativamente che quantitativamente.
Tutta la complessità del
pensiero leninista risiede così nella soluzione di questo
problema apparentemente insolubile: fare una rivoluzione marxista
(perché di rivoluzione marxista si tratta) senza i presupposti
oggettivi da essa stessa posti come imprescindibili. La strada
seguita da Lenin al fine di ottenere il successo rivoluzionario
riflette perfettamente questa duplice tensione che da una parte
adatta continuamente il progetto rivoluzionario a tutte le pieghe
particolari di un contesto particolare, mentre dall'altra riporta
continuamente la pratica sovversiva dentro le maglie ferree
dell'ortodossia marxista.
Il compito dell'organizzazione
Ma come fa Lenin a piegare la tattica
alla strategia e questa all'ideologia? La via è una sola.
Poiché in Russia il soggetto rivoluzionario indicato dal
marxismo è sostanzialmente immaturo - da un punto di vista sia
politico che sociale - occorre creare artificialmente una figura
sostitutiva di esso che si ponga il compito di far crescere quelle
presupposte tendenze oggettive al momento però solo
minoritarie e latenti. Questa figura deve cioè imprimere alla
classe operaia una spinta rivoluzionaria tale da ottenere come
controspinta una estensione del dominio capitalistico secondo una
logica tutta dialettica ed hegeliana che vede le lotte operaie come
condizione dello sviluppo del capitale e questo, a sua volta, come
condizione ulteriore dello sviluppo delle lotte operaie stesse. Il
ciclo crisi-sviluppo-crisi visto o teorizzato da Marx in una
situazione di capitalismo maturo è qui, nella specificità
della Russia contadina, posto in essere artificialmente attraverso
l'azione soggettiva delle minoranze agenti. Nella visione leninista
dove il rapporto antagonistico fra proletariato e capitale è
dato come formazione indotta e forzata, anziché come
formazione endogena e "spontanea", le sterminate masse
contadine, principale soggetto politico e sociale, devono perciò
essere subordinate all'azione della classe operaia o, a dir meglio ai
suoi "rappresentanti".
Ne deriva pertanto un continuum
gerarchico che attraversa tutto il corpo sociale nella sua fase di
movimento e di lotta (dalle masse contadine alla classe operaia,
dalla classe operaia alla sua avanguardia, da questa ai vertici del
partito). L'organizzazione leninista riverbera così
miniaturizzando dentro di sé per poi riflettere ingigantita
all'esterno una sequenza ininterrotta di analogie gerarchiche. Tutto
ciò al fine di rappresentare ed esprimere la presupposta
contrapposizione fra capitale e classe operaia: come dire una finta
recita delle parti allo scopo di trasformare la commedia in realtà.
il compito dell'organizzazione è infatti la trasformazione del
processo storico complessivo dato in sviluppo storico complessivo
presupposto, il determinismo oggettivo della storia fatto partorire
attraverso l'azione soggettiva della controfigura della classe
operaia. Questo il cammino leninista per ricondurre la situazione
anomala (la Russia contadina) alla categoria oggettiva della storia
(la rivoluzione marxista), ossia il salto dalla storia che è
alla storia che deve essere.
Senonché la figura sostitutiva
della classe operaia può assolvere questo compito solo se la
sua composizione di classe fa riferimento non ad una natura
economica, ma politica, solo cioè se la sua forza risiede
paradossalmente nel non essere classe, nel non aver dentro di sé
le caratteristiche di classe. L'avanguardia dei "rivoluzionari
di professione" organizzata nella sua forma partito esprime
quindi lo sdoppiamento fondamentale della figura rivoluzionaria
leninista: mentre la sua composizione sociale è
inevitabilmente piccolo-medio borghese, la sua composizione politica
è presupposta come operaia.
Di qui l'ulteriore sdoppiamento
dell'azione rivoluzionaria complessiva che assegna il compito della
lotta economica alla reale classe operaia nel momento in cui ai
"rivoluzionari di professione" delega la funzione di
trasformare questa lotta economica in lotta politica, in lotta per il
potere. Nella divisione fra lotta economica e lotta politica, fra
classe e partito, si consuma così l'insanabile dicotomia
marxista fra lotta di classe e coscienza di classe, fra lotta di
classe e lotta rivoluzionaria. Insanabile dicotomia marxista in
quanto l'analisi marxiana del rapporto struttura-sovrastruttura è
perfettamente riflessa nella pratica leninista senza tema di smentite
dal momento che i rivoluzionari di professione non possono essere
strutture, cioè di classe, ma solo sovrastruttura, cioè
coscienza, perché, come è scritto nel Manifesto
e in tutti i testi sacri dei due soci fondatori, l'ultima classe
della storia è la classe operaia. L'avvento al potere
dell'intellighenzia socialista viene a trovare perciò la sua
perfetta mistificazione (e giustificazione) dentro la certezza
ideologica, proprio mentre vengono poste le basi pratiche e teoriche
per l'azione della stessa intellighenzia come reale classe sociale.
La cosiddetta "dittatura del proletariato" quale fase di
transizione e perciò la teorizzazione dei due tempi del
processo storico - l'uno attivo (soppressione dello Stato
borghese), l'altro passivo (estinzione dello Stato proletario)
- è il naturale approdo logico la cui piena espressione come
sappiamo tutti si ha con il supremo capolavoro dell'opportunismo
leninista, e cioè con il mitico e metafisico dettato di Stato
e rivoluzione.
È qui, infatti, che Lenin
applica meglio che in qualsiasi altra parte il suo schema, della
subordinazione del soggettivo all'oggettivo, del volontarismo al
determinismo. Lo applica proprio riprendendo la fondamentale
distinzione marxiana fra abolizione ed estinzione dello Stato, nel
senso che la società senza classi, il comunismo, non sono
posti in essere dal progetto rivoluzionario - perché
impossibilitato dall'irrimediabile gerarchizzazione che lo attraversa
- ma dallo sviluppo delle forze produttive. Il progetto
rivoluzionario cioè è al servizio dello sviluppo delle
forze produttive perché sole esse, secondo gli ortodossi
canoni marxisti, possono inverare il maturarsi del comunismo. Lo
Stato, in quanto tale, non può essere abolito; esso può
solo estinguersi dentro il processo complessivo della liberazione
della forza-lavoro e quindi della scomparsa del lavoro. In altri
termini la scomparsa dello Stato non è la condizione
fondamentale della liberazione umana, ma il punto di arrivo della
stessa liberazione. Società senza classi, comunismo,
estinzione dello stato sono scadenze poste al di là del
processo rivoluzionario, come generiche direttive di massima dentro
un tempo quindi non più storicamente ipotizzabile. L'ideologia
si rivela allora per quello che è: un grossolano pasticcio
teologico al servizio di una nuova classe, vale a dire i
rivoluzionari di professione che fin dall'inizio hanno guidato tutto
il processo rivoluzionario.
Un falso soggettivismo
A questo punto si possono registrare
alcune considerazioni complessive. La prima, e la più
importante, riguarda il vero oggetto di tutta la "scienza"
leninista. Il vero oggetto di questa "scienza" è uno
solo: la conquista del potere. A questo fine tutto deve essere
subordinato senza remora alcuna. Per dare ragione della duttilità
dell'azione leninista, del suo intelligente intreccio fra tattica e
strategia tessuto attorno ad ogni situazione particolare, bisogna
sempre tener presente, appunto, questo imperativo categorico: la
conquista del potere è la prima e la più importante
condizione della rivoluzione proletaria. Ne deriva che la rivoluzione
proletaria è sempre, nella visione leninista, una rivoluzione
politica. È questa,
dunque, l'espressione veritiera del suo soggettivismo. Come questo è
in funzione di una presupposta tendenza oggettiva e unidirezionale
della storia da favorire nel suo pieno sviluppo il capitalismo, così
la rivoluzione politica subordina a sé la priorità ad
una presupposta rivoluzione sociale (lotta di classe, scomparsa delle
classi). Risulta quindi perfettamente conseguente il primo passaggio
di questo cammino che si può riassumere con le stesse parole
di Lenin: capitalismo di Stato-dittatura del proletariato.
Capitalismo, perché bisogna passare attraverso questo
purgatorio indicato da Marx; di Stato, perché la rivoluzione
politica viene prima della rivoluzione sociale; dittatura del
proletariato, perché è la fase di transizione del
capitalismo al comunismo, dallo Stato alla scomparsa dello Stato,
dalla rivoluzione politica alla rivoluzione sociale, dalla lotta di
classe alla società senza classi. II soggettivismo leninista è
dunque un falso soggettivismo che implica a sua volta un falso
realismo.
Tutta l'azione creatrice del leninismo,
infatti, è sempre subordinata ad una a priori
presupposta tendenza oggettiva della storia. Questa pregiudiziale
impedisce una visione realista perché il metodo
dell'adattamento ad una situazione particolare e concreta serve
sempre e solo a trasformare questa situazione data in una situazione
presupposta: il leninismo, cioè, è sempre
irrimediabilmente dogmatico. In questo senso bisogna convenire con
quei suoi esegeti che rivendicano l'universalizzazione del suo metodo
perché proprio questo rigido schematismo - che costituisce la
sua vera natura - ci dà ragione della sua pretesa
applicabilità. In effetti la teoria rivoluzionaria di Lenin ha
trovato la sua fortuna nell'epoca dell'imperialismo capitalistico
conclusa nella prima guerra mondiale con il crollo
dell'eurocentrismo. Tutto ciò, però, serve a
qualificare storicamente il leninismo, a storicizzarlo nel suo
contesto spazio-temporale, non certo a penetrare e ad analizzare la
sua ripetibilità teorica. Morto Lenin, infatti, è
rimasto il leninismo. Vero è che la teoria rivoluzionaria
leninista si è presentata soprattutto come teoria critica
dell'imperialismo capitalistico, come asiatizzazione ed
orientalizzazione del marxismo, come modulo ideologico e strategico
della lotta di indipendenza nazionale in chiave terzomondista, e
perciò come salto a piè pari della fase
capitalistico-borghese nelle sue strutture democratico-parlamentari,
fatto salvo il processo di industrializzazione; ma vero anche è
il puro valore storico di contingenza della teoria del crollo a
partire dagli anelli più deboli (in questo caso la Russia).
Dal punto di vista scientifico, la teoria che vede nella guerra per
la spartizione dei mercati l'inevitabile sbocco dell'impossibilità
oggettiva per il capitalismo di elevare il tenore di vita della massa
operaia, dilatando così il proprio mercato interno in modo da
renderlo idoneo ad assorbire la produzione sempre crescente, non
merita l'eccessiva considerazione che le è stata data. Si
tratta, infatti, di una ripetizione di temi populisti che trovano la
migliore confutazione proprio negli scritti giovanili di Lenin.
In realtà questa teoria non può
occupare nella struttura epistemologica del pensiero leninista lo
stesso posto occupato dell'espediente organizzativo dei
"rivoluzionari di professione". Mentre la teoria del crollo
registra qualcosa che avviene indipendentemente dalla volontà
umana, o comunque come risultato di una lunga mediazione fra i
diversi piani della realtà storica, l'espediente organizzativo
dei "rivoluzionari di professione" si delinea applicabile e
ripetibile in linea di massima in ogni situazione data. La prima,
cioè, è una teoria legata a determinate situazioni
politiche e sociali, e di queste ne è una fedele espressione,
la seconda, invece, risulta priva di questi gravami di datazione
cronologica. In altri termini sebbene entrambe si presentino sotto
l'uguale segno dell'esternità - i "rivoluzionari
di professione" sono la coscienza portata dall'esterno
alla classe operaia come il crollo dell'imperialismo e la guerra sono
avvenimenti che, pur favorendo lo scoppio rivoluzionario, avvengono
al di fuori della volontà e possibilità di lotta della
classe operaia, perché fatti portati dall'esterno -
solo la teoria dell'espediente organizzativo, in quanto fa
riferimento direttamente alla volontà, ha la capacità
di ripetersi ovunque. Come si vede, il nocciolo del leninismo è
sempre il soggettivismo (che però abbiamo visto come falso
volontarismo).
Il dio partito
Se, dunque, la teoria
dell'organizzazione costituisce la vera essenza del leninismo, il
pathos che dà la certezza mitica dell'invincibilità
nella divinizzazione del partito, se cioè è questa la
vera teoria rivoluzionaria di Lenin, ebbene allora dobbiamo dire che
il leninismo è intrinsecamente e profondamente autoritario.
Autoritario però non nel senso tradizionale del termine, ma in
modo molto più profondo e terribile perché fa
riferimento ad una concezione totalitaria della realtà. La
spiegazione ci sembra di averla data sopra. Non si tratta, infatti,
solo di una estremizzazione gerarchica dell'organizzazione
rivoluzionaria, così come fu denunciata a suo tempo dai
socialdemocratici, dai luxemburghiani o dai Comunisti dei consigli,
ma della volontà di irreggimentare attraverso il processo
rivoluzionario tutta la fase storica presente e futura. Si
tratta cioè di trasformare un intero processo storico dato in
un processo storico presupposto proprio partendo, come abbiamo visto,
dalla concezione hegelo-marxista delineata sopra.
In effetti come si può dar
ragione del colossale rovesciamento controrivoluzionario operato da
Lenin e proseguito da Stalin, se non partendo da questa concezione
dialettica, da questa gigantesca metafisica? Che cosa è stata
la NEP prima, e l'industrializzazione forzata poi (sterminio di
milioni di contadini), se non l'attuazione del dettato marxista che
dichiara il ruolo oggettivamente rivoluzionario e propulsore del
capitalismo industriale e dell'industrialismo tout-court, perché
unici processi storici capaci di formare ed omogeneizzare una classe
operaia che fino allora in Russia era esistita più nella testa
dei marxisti che nella realtà sociale? Che cosa è stata
la pianificazione dall'alto e la conseguente burocratizzazione se non
la realizzazione della direttiva marxista - già teorizzata nel
Manifesto - che assegna alla concentrazione economica
addirittura il compito fondamentale di realizzare lo sviluppo delle
forze produttive fino al punto in cui sia resa possibile la libertà
dal bisogno? Cosa sono stati Kronstadt, lo sterminio dei maknovisti e
di centinaia di migliaia di rivoluzionari se non la messa in opera,
secondo la più limpida visione hegeliana, di una dialettica
che vuole uno Stato fortissimo perché, parimenti all'idea del
superamento del capitalismo, più alto e maturo è il suo
punto di sviluppo più rapida ne è l'estinzione?
Difficile dunque è confutare l'idea che il leninismo sia stato
e sia l'espressione suprema del totalitarismo rivoluzionario e perciò
che sia stato e sia, evidentemente, in radicale ed insanabile
contrapposizione con la concezione rivoluzionaria degli anarchici.
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