Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 20 nr. 170
febbraio 1990


Rivista Anarchica Online

Una ventata di fiori
di Cristina Valenti

Impressioni di un fine anno praghese, dopo una rivoluzione bella e fragile. La Praga rivoluzionaria non ha generato un teatro d'opposizione ma il teatro spontaneo e collettivo delle strade e delle piazze. Non la trasfigurazione teatrale della storia in mito, ma il prodursi del mito in tempo reale.

La tirannia allestisce da sé la propria camera riverberante: uno spazio vuoto in cui segnali confusi vagano qua e là a casaccio; dove un mormorio o un accenno qualsiasi creano il panico, così che alla fine è probabile che l'apparato della repressione svanisca non a causa di una guerra o di una rivoluzione, ma di un soma, o della voce delle foglie cadenti...Bruce Chatwin ("Utz", 1988) descriveva una Praga stremata e le facce di un popolo disgustato di sé per il fatto di avere, anche solo temporaneamente, perduto la speranza, ma riconosceva anche, presenti dappertutto, i segni di come i cecoslovacchi non si lasciassero annientare. La disfatta dei cavalieri tedeschi durante la sollevazione hussita del Quattrocento era una buona metafora per il presente: ... fuggirono tutti davanti al nemico, scacciati solo dalla voce delle foglie cadenti, senza essere inseguiti da alcun uomo.
Ho chiesto a Ivo, il nostro ospite praghese, uno studente che ha partecipato alle manifestazioni che hanno portato alla caduta del governo, se aveva previsto che i segni di non sottomissione al regime evolvessero così rapidamente in un rivolgimento totale. Ivo ha risposto che sentiva che la rivoluzione si stava preparando, ma che non se l'immaginava così bella e fragile.
A sfidare i soldati nelle piazze non è stato un esercito di foglie cadenti, ma una ventata di fiori e di candele accese. Eppure, per chi le ha viste, nelle strade (o nei filmati) le armi di questa rivoluzione gentile, i fiori e le candele , i tatzebao e gli striscioni, il pane e il sale offerti davanti al parlamento, le migliaia di volantini ciclostilati e dattiloscritti attaccati a tutti i muri, questi strumenti che hanno avuto l'improntitudine di attaccare pacificamente un regime militarizzato, appaiono in realtà tutt'altro che simboli di pace.
La guerra dichiarata dagli studenti, dai lavoratori e dagli operai al regime è stata gentile ma sconvolgente. La contraddizione è tale solo nelle parole, perché la natura non violenta e non pacifica al tempo stesso del processo di liberazione partito dalle piazze è immediatamente comprensibile per chi ne sia stato anche marginalmente testimone. Poiché non si può dubitare, del resto, che la valutazione più veritiera circa l'efficacia delle armi debba pervenire da coloro che ne subiscono l'offensiva, è significativo osservare che il giorno della commemorazione di Jan Palach molti studenti furono arrestati per "aggressività contro i poliziotti" quando non avevano in mano altro che fiori. Il regime aveva visto giusto: quei fiori erano esplosivi.
Ma la contraddizione non può essere del tutto spiegata all'interno dei nostri parametri di riferimento. Lo scenario che descriviamo ci sembra assai familiare quando invece ci è in parte ignoto. Noi crediamo di capire la forza che i fiori e le candele possono acquistare in una rivoluzione non violenta, ma in realtà abbiamo presenti troppo spesso le effigi svilite ed esanimi alle quali ci ha abituato certo pacifismo di maniera.
Conosciamo la politica che si fa spettacolo, non la teatralizzazione in atto della rivoluzione: che non ha bisogno di essere spettacolarizzata in quanto contiene già in sé la realizzazione del non quotidiano, dell'immaginario, dell'utopico, che altrimenti la collettività sublima e simbolizza in teatro.
Andando a Praga avevo pensato di poter trovare, forse, una rifioritura di quel teatro di opposizione che ha in Cecoslovacchia una tradizione assai ricca. Ma in realtà non ci credevo poi tanto.
Sapevo che la normalizzazione aveva imposto, a partire dall'inizio degli anni '70, la chiusura di molti spazi, la fine delle "piccole scene" del cabaret letterario e politico che erano fiorite durante la "primavera" nelle taverne e nelle sale di birrerie con spettacolo, ad opera di tanti gruppi professionali e semi-professionali o studenteschi. E immaginavo d'altro canto che fosse ancora presto perché la creatività e il desiderio di nuove e più autentiche forme di aggregazione, liberati dal processo rivoluzionario, avessero già preso canali teatrali.
Le vicende di lotta (e anche le crisi rivoluzionarie di grande portata) non hanno mai prodotto spettacolo nell'immediato (lo scrivevo a proposito dell'eccezione Sarafina) a meno di contesti etnico-culturali caratterizzati dalla formalizzazione "cerimoniale" dei modi comunicativi e relazionali (le danze e i canti zulu), o in certe espressioni artistiche prodottisi proprio come modi rivendicativi e di resistenza (i canti delle mondine).
Le forme di opposizione rivoluzionaria, occulte o manifeste che siano, fanno ricorso per loro natura a modi rappresentativi già di per sé formalizzati: si pensi alla regia delle manifestazioni, alla scenografia delle strade e delle piazze addobbate di bandiere, striscioni e manifesti murali, alla convenzione retorica delle assemblee e dei discorsi politici, alla ritualità e ai simbolismi usati dalle aggregazioni politiche segrete e no, alla non quotidianità delle forme e dei luoghi di incontro, dei modi di vestire e dell'atteggiarsi, alla natura eccezionale del tempo e degli eventi. La rivoluzione non ha alcun bisogno, per "mettersi in scena", della doppia convenzione del teatro.
Senza dover ricorrere ad esempi storici lontani, che pure sarebbero numerosi, basta ricordare la spettacolarizzazione delle lotte nel '77 italiane e la parallela assenza di teatro rivoluzionario.
Anche il maggior teatro politico, agit-prop e teatro di massa, è nato come traduzione degli eventi rivoluzionari recentemente trascorsi in esibizioni spettacolari connotate di valenze mitiche e utilitaristiche. Si pensi alle feste della Rivoluzione Francese, agli spettacoli di massa che seguirono la Rivoluzione d'Ottobre, al teatro di massa dei circoli operai socialisti della Repubblica di Weimar, e anche al teatro resistenziale italiano (gli spettacoli di Marcello Sartarelli sulla lotta di liberazione).

Il mito in tempo reale
Il teatro che celebra i momenti rivoluzionari riproduce e trasfigura a fini politici il tempo storico in tempo mitico con funzione di persuasione e riconoscimento collettivo.
A Praga non ho trovato spettacoli teatrali di opposizione e di rottura, ma ho trovato il teatro spontaneo e collettivo delle strade e delle piazze. Non la trasfigurazione teatrale della storia in mito, ma il prodursi del mito in tempo reale.
Nei momenti rivoluzionari, le cerimonie della vita sociale cristallizzano l'idealità e la fantasia del cambiamento in immagini mitiche, ossia esemplarmente partecipe a livello collettivo.
La fotografia dei soldati russi che accendono candeline assieme agli studenti, comparsa sulla copertina di una rivista praghese; le piazze piene di folla incredula e inneggiante, la sera dell'elezione di Havel a presidente; i canti popolari ritrovati nelle osterie e nelle strade, la notte di capodanno; la donna con due cuori rossi dipinti sulle guance e un fazzoletto di carta legato a farfalla nei capelli che si esibisce come mima e cantante in una birreria e fa ballare i vecchietti in uno scenario che ricorda con l'esplosione disperata del teatro di Kantor. Queste sono le immagini mitiche e indimenticabili del teatro spontaneo di Praga. Cioè del teatro come accentuazione, e non contemplazione differita dell'esistenza: "L'esistenza individuale e collettiva è al suo culmine quando diventa teatrale" (Duvignaud).
E altre immagini ancora, il cui accostamento "anacronistico" drammatizza in tempo reale gli eventi appena trascorsi: i simboli del passato regime socialista, la stella rossa che sovrasta il passaggio di frontiera, una scritta, "Socialismo per la pace", sopra una fabbrica; le bandiere rosse che sventolano da un edificio; le divise della polizia col loro cupo richiamo all'ordine stalinista; e la scenografia contrastante delle strade e delle piazze coperte di manifesti per "Havel na hrad" (Havel al castello), di scritte, di volantini e di immagini colorate inneggianti al Forum Civico. E le migliaia di candeline accese per ricordare e celebrare la lotta dei Romeni, in via Nerudova, sotto l'ambasciata di Romania; grandi e spesse distese di cera colorata con tante fiammelle per illuminare immagini di morte: "Hitler + Stalin = Ceausescu", un cimitero sanguinante popolato di teschi, "La Romania di Ceausescu".

Con voce soffusa
Una durezza nelle scritte e nei graffiti per la quale non credo di trovare paragoni, che nella luce morbida delle candele invita al silenzio e fa sentire qualche brivido. Allora si tocca la fermezza, la rabbia tutt'altro che riconciliata di questa rivoluzione "bella e fragile". Le forme di lotta non violenta che noi crediamo di conoscere hanno solo una faccia: ma quelle realizzate sono proteiformi - come le immagini già mitiche nelle quali si fissano - e aprono baratri di panico, di feroce determinazione, di gioia esplosiva, di incredulità commossa nei volti di chi è stato protagonista del cambiamento, nelle creazioni drammatiche spontanee di "attori" che hanno reso presenti comportamenti appena prima fantastici.
Allora ho altre immagini: la foto di tanti giovani durante una manifestazione, con un unico sguardo, di esaltazione e di paura stampato sul volto, e il viso di una ragazza che canta nella Piazza dell'Orologio, a Capodanno, e si interrompe per dire a me che le sorrido "It's fantastic for us". Le cose semplici e quotidiane che stanno ancora al margine di confine dei nuovi spazi conquistati.
Il teatro nasce dal rito (cioè dalla celebrazione collettiva come momento di conferma della vita dell'uomo e convinzione della sua esistenza): e quando il rito fa a meno della trasfigurazione teatrale per tornare ad essere spontaneo rivela le valenze sepolte, le forze sovversive e aggregative delle origini, che le varie cerimonie teatrali hanno incorporato ma per lo più rimosso.
La tradizione dei canti popolari si collega in Cecoslovacchia, per ramificazioni antiche e ormai invisibili, al teatro e al cabaret politico degli anni '20 '30, in seno ai quali sono nate molte canzoni (ad opera di clown intellettuali, poeti attori e drammaturghi quali i leggendari e corrosivi Voskovec e Werich), che sono poi state trasmesse oralmente nelle osterie e nelle riunioni conviviali, e quindi consegnate anonime e ricche di varianti all'interno del patrimonio popolare. E l'anima più profonda di questa tradizione l'ho vista rivivere a capodanno nelle piazze e nelle osterie, dove la gente non urlava slogan, ma cantava all'unisono con voce soffusa le canzoni di un'identità ritrovata.
Un suono dolce che per quanto ci si avvicini sembra arrivare da lontano: la voce montante delle foglie cadenti.