Rivista Anarchica Online
Una ventata di fiori
di Cristina Valenti
Impressioni di un fine anno
praghese, dopo una rivoluzione bella e fragile. La Praga rivoluzionaria non ha
generato un teatro d'opposizione ma il teatro spontaneo e collettivo
delle strade e delle piazze. Non la trasfigurazione teatrale della
storia in mito, ma il prodursi del mito in tempo reale.
La tirannia allestisce da sé
la propria camera riverberante: uno spazio vuoto in cui segnali
confusi vagano qua e là a casaccio; dove un mormorio o un
accenno qualsiasi creano il panico, così che alla fine è
probabile che l'apparato della repressione svanisca non a causa di
una guerra o di una rivoluzione, ma di un soma, o della voce delle
foglie cadenti...Bruce Chatwin ("Utz", 1988) descriveva una Praga stremata e le
facce di un popolo disgustato di sé per il fatto di avere,
anche solo temporaneamente, perduto la speranza, ma riconosceva
anche, presenti dappertutto, i segni di come i cecoslovacchi non
si lasciassero annientare. La disfatta dei cavalieri tedeschi
durante la sollevazione hussita del Quattrocento era una buona
metafora per il presente: ... fuggirono tutti davanti al nemico,
scacciati solo dalla voce delle foglie cadenti, senza essere
inseguiti da alcun uomo.
Ho chiesto a Ivo, il nostro ospite
praghese, uno studente che ha partecipato alle manifestazioni che
hanno portato alla caduta del governo, se aveva previsto che i segni
di non sottomissione al regime evolvessero così rapidamente in
un rivolgimento totale. Ivo ha risposto che sentiva che la
rivoluzione si stava preparando, ma che non se l'immaginava così
bella e fragile.
A sfidare i soldati nelle piazze non è
stato un esercito di foglie cadenti, ma una ventata di fiori e di
candele accese. Eppure, per chi le ha viste, nelle strade (o nei
filmati) le armi di questa rivoluzione gentile, i fiori e le candele
, i tatzebao e gli striscioni, il pane e il sale offerti davanti al
parlamento, le migliaia di volantini ciclostilati e dattiloscritti
attaccati a tutti i muri, questi strumenti che hanno avuto
l'improntitudine di attaccare pacificamente un regime militarizzato,
appaiono in realtà tutt'altro che simboli di pace. La guerra dichiarata dagli studenti,
dai lavoratori e dagli operai al regime è stata gentile ma
sconvolgente. La contraddizione è tale solo nelle parole,
perché la natura non violenta e non pacifica al tempo stesso
del processo di liberazione partito dalle piazze è
immediatamente comprensibile per chi ne sia stato anche marginalmente
testimone. Poiché non si può dubitare, del resto, che
la valutazione più veritiera circa l'efficacia delle armi
debba pervenire da coloro che ne subiscono l'offensiva, è
significativo osservare che il giorno della commemorazione di Jan
Palach molti studenti furono arrestati per "aggressività
contro i poliziotti" quando non avevano in mano altro che fiori.
Il regime aveva visto giusto: quei fiori erano esplosivi.
Ma la contraddizione non può
essere del tutto spiegata all'interno dei nostri parametri di
riferimento. Lo scenario che descriviamo ci sembra assai familiare
quando invece ci è in parte ignoto. Noi crediamo di capire la
forza che i fiori e le candele possono acquistare in una rivoluzione
non violenta, ma in realtà abbiamo presenti troppo spesso le
effigi svilite ed esanimi alle quali ci ha abituato certo pacifismo
di maniera.
Conosciamo la politica che si fa
spettacolo, non la teatralizzazione in atto della rivoluzione: che
non ha bisogno di essere spettacolarizzata in quanto contiene già
in sé la realizzazione del non quotidiano, dell'immaginario,
dell'utopico, che altrimenti la collettività sublima e
simbolizza in teatro.
Andando a Praga avevo pensato di poter
trovare, forse, una rifioritura di quel teatro di opposizione che ha
in Cecoslovacchia una tradizione assai ricca. Ma in realtà non
ci credevo poi tanto.
Sapevo che la normalizzazione aveva
imposto, a partire dall'inizio degli anni '70, la chiusura di molti
spazi, la fine delle "piccole scene" del cabaret letterario
e politico che erano fiorite durante la "primavera" nelle
taverne e nelle sale di birrerie con spettacolo, ad opera di tanti
gruppi professionali e semi-professionali o studenteschi. E
immaginavo d'altro canto che fosse ancora presto perché la
creatività e il desiderio di nuove e più autentiche
forme di aggregazione, liberati dal processo rivoluzionario, avessero
già preso canali teatrali. Le vicende di lotta (e anche le crisi
rivoluzionarie di grande portata) non hanno mai prodotto spettacolo
nell'immediato (lo scrivevo a proposito dell'eccezione Sarafina)
a meno di contesti etnico-culturali caratterizzati dalla
formalizzazione "cerimoniale" dei modi comunicativi e
relazionali (le danze e i canti zulu), o in certe espressioni
artistiche prodottisi proprio come modi rivendicativi e di resistenza
(i canti delle mondine).
Le forme di opposizione rivoluzionaria,
occulte o manifeste che siano, fanno ricorso per loro natura a modi
rappresentativi già di per sé formalizzati: si pensi
alla regia delle manifestazioni, alla scenografia delle strade e
delle piazze addobbate di bandiere, striscioni e manifesti murali,
alla convenzione retorica delle assemblee e dei discorsi politici,
alla ritualità e ai simbolismi usati dalle aggregazioni
politiche segrete e no, alla non quotidianità delle forme e
dei luoghi di incontro, dei modi di vestire e dell'atteggiarsi, alla
natura eccezionale del tempo e degli eventi. La rivoluzione non ha
alcun bisogno, per "mettersi in scena", della doppia
convenzione del teatro.
Senza dover ricorrere ad esempi storici
lontani, che pure sarebbero numerosi, basta ricordare la
spettacolarizzazione delle lotte nel '77 italiane e la parallela
assenza di teatro rivoluzionario. Anche il maggior teatro politico,
agit-prop e teatro di massa, è nato come traduzione degli
eventi rivoluzionari recentemente trascorsi in esibizioni
spettacolari connotate di valenze mitiche e utilitaristiche. Si pensi
alle feste della Rivoluzione Francese, agli spettacoli di massa che
seguirono la Rivoluzione d'Ottobre, al teatro di massa dei circoli
operai socialisti della Repubblica di Weimar, e anche al teatro
resistenziale italiano (gli spettacoli di Marcello Sartarelli sulla
lotta di liberazione).
Il mito in tempo reale
Il teatro che celebra i momenti
rivoluzionari riproduce e trasfigura a fini politici il tempo storico
in tempo mitico con funzione di persuasione e riconoscimento
collettivo.
A Praga non ho trovato spettacoli
teatrali di opposizione e di rottura, ma ho trovato il teatro
spontaneo e collettivo delle strade e delle piazze. Non la
trasfigurazione teatrale della storia in mito, ma il prodursi del
mito in tempo reale.
Nei momenti rivoluzionari, le cerimonie
della vita sociale cristallizzano l'idealità e la fantasia del
cambiamento in immagini mitiche, ossia esemplarmente partecipe a
livello collettivo.
La fotografia dei soldati russi che
accendono candeline assieme agli studenti, comparsa sulla copertina
di una rivista praghese; le piazze piene di folla incredula e
inneggiante, la sera dell'elezione di Havel a presidente; i canti
popolari ritrovati nelle osterie e nelle strade, la notte di
capodanno; la donna con due cuori rossi dipinti sulle guance e un
fazzoletto di carta legato a farfalla nei capelli che si esibisce
come mima e cantante in una birreria e fa ballare i vecchietti in uno
scenario che ricorda con l'esplosione disperata del teatro di Kantor.
Queste sono le immagini mitiche e indimenticabili del teatro
spontaneo di Praga. Cioè del teatro come accentuazione, e non
contemplazione differita dell'esistenza: "L'esistenza
individuale e collettiva è al suo culmine quando diventa
teatrale" (Duvignaud).
E altre immagini ancora, il cui
accostamento "anacronistico" drammatizza in tempo reale gli
eventi appena trascorsi: i simboli del passato regime socialista, la
stella rossa che sovrasta il passaggio di frontiera, una scritta,
"Socialismo per la pace", sopra una fabbrica; le bandiere
rosse che sventolano da un edificio; le divise della polizia col loro
cupo richiamo all'ordine stalinista; e la scenografia contrastante
delle strade e delle piazze coperte di manifesti per "Havel na
hrad" (Havel al castello), di scritte, di volantini e di
immagini colorate inneggianti al Forum Civico. E le migliaia di
candeline accese per ricordare e celebrare la lotta dei Romeni, in
via Nerudova, sotto l'ambasciata di Romania; grandi e spesse distese
di cera colorata con tante fiammelle per illuminare immagini di
morte: "Hitler + Stalin = Ceausescu", un cimitero
sanguinante popolato di teschi, "La Romania di Ceausescu".
Con voce soffusa
Una durezza nelle scritte e nei
graffiti per la quale non credo di trovare paragoni, che nella luce
morbida delle candele invita al silenzio e fa sentire qualche
brivido. Allora si tocca la fermezza, la rabbia tutt'altro che
riconciliata di questa rivoluzione "bella e fragile". Le
forme di lotta non violenta che noi crediamo di conoscere hanno solo
una faccia: ma quelle realizzate sono proteiformi - come le immagini
già mitiche nelle quali si fissano - e aprono baratri di
panico, di feroce determinazione, di gioia esplosiva, di incredulità
commossa nei volti di chi è stato protagonista del
cambiamento, nelle creazioni drammatiche spontanee di "attori"
che hanno reso presenti comportamenti appena prima fantastici.
Allora ho altre immagini: la foto di
tanti giovani durante una manifestazione, con un unico sguardo, di
esaltazione e di paura stampato sul volto, e il viso di una ragazza
che canta nella Piazza dell'Orologio, a Capodanno, e si interrompe
per dire a me che le sorrido "It's fantastic for us". Le
cose semplici e quotidiane che stanno ancora al margine di confine
dei nuovi spazi conquistati.
Il teatro nasce dal rito (cioè
dalla celebrazione collettiva come momento di conferma della vita
dell'uomo e convinzione della sua esistenza): e quando il rito fa a
meno della trasfigurazione teatrale per tornare ad essere spontaneo
rivela le valenze sepolte, le forze sovversive e aggregative delle
origini, che le varie cerimonie teatrali hanno incorporato ma per lo
più rimosso.
La tradizione dei canti popolari si
collega in Cecoslovacchia, per ramificazioni antiche e ormai
invisibili, al teatro e al cabaret politico degli anni '20 '30, in
seno ai quali sono nate molte canzoni (ad opera di clown
intellettuali, poeti attori e drammaturghi quali i leggendari e
corrosivi Voskovec e Werich), che sono poi state trasmesse oralmente
nelle osterie e nelle riunioni conviviali, e quindi consegnate
anonime e ricche di varianti all'interno del patrimonio popolare. E
l'anima più profonda di questa tradizione l'ho vista rivivere
a capodanno nelle piazze e nelle osterie, dove la gente non urlava
slogan, ma cantava all'unisono con voce soffusa le canzoni di
un'identità ritrovata.
Un suono dolce che per quanto ci si
avvicini sembra arrivare da lontano: la voce montante delle foglie
cadenti.
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