Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 165
giugno 1989


Rivista Anarchica Online

Il fantasma di Robespierre
di Carlo Oliva / Nico Berti

Il dibattito in corso sulla rivoluzione francese si sta rivelando, in gran parte, un pretesto per applicare anche al passato una lettura sempre negativa di ogni forma di conflittualità sociale. È un tentativo di cancellare l'idea stessa di rivoluzione dall'universo dei possibili politici. È questa la tesi sostenuta da Carlo Oliva in questo saggio. Seguono tre schede, redatte dallo storico Nico Berti per un dizionario delle interpretazioni della rivoluzione francese (di imminente uscita presso Einaudi). In esse si analizzano le riflessioni sull'89 di tre caposcuola del pensiero anarchico: Proudhon, Bakunin e Kropotkin.

"Non ingannatevi, voi che siete soddisfatti di aver legato il vostro nome a una grande rivoluzione.
Presto svanirà il clamore degli elogi che lo stupore e la leggerezza fanno risuonare.
I posteri metteranno a confronto la grandezza dei vostri doveri e l'immensità delle vostre risorse
con le manchevolezze della vostra opera e diranno indignati di voi:
" Essi potevano rendere gli uomini liberi e felici, ma non l'hanno voluto. Non ne erano degni!"
Dal "Discorso sul marco d'argento".

Metodologicamente parlando, gli eventi storici sono un'entità imbarazzante. Tanto per cominciare, non sono entità, o, per lo meno, per esserlo devono essere definite da qualcuno in quanto tali. E poi è più facile attribuir loro un significato (o negarlo), che definirli con un minimo di precisione. Ogni fatto è preceduto e causato da altri fatti, in una catena di cui ci sfugge sempre un anello precedente. Sappiamo tutti, tanto per fare il solito esempio banale, che non abbiamo alcun vero motivo per dire che la "scoperta" dell'America avvenne il 12 ottobre 1492. Visto che lo sbarco a San Salvador s'inserisce in tutta una catena di eventi in cui sono compresi, fra l'altro, nascita, infanzia e primi studi di Cristoforo Colombo, la presenza di certi sovrani sul trono, alcuni problemi del commercio mondiale delle spezie, l'evoluzione dell'ingegneria navale, la crisi del regno moresco di Granada e quella della Repubblica di Genova, per non dire delle condizioni del vento e delle maree in quell'autunno, nulla ci vieta di affermare che quella scoperta in quel giorno si concluse. Oppure, considerando che sarebbe comunque passato un bel po' di tempo prima che le terre d'oltre Atlantico fossero passabilmente note ai nuovi padroni, che vi cominciò.

Il dibattito sulla Rivoluzione
In realtà, tutti coloro che si sono occupati, in un modo o nell'altro, del problema, a un certo punto sono stati colti dall'orrendo sospetto che la definizione di un evento dipenda proprio dal significato ideologico che a priori si è deciso di attribuirgli. Non tutti l'hanno ammesso di buon grado, perché il buon senso corrente esige, non senza fondamento, che per attribuire un significato a qualcosa di quel qualcosa si disponga già prima, ma è anche vero che ad attenersi a questo principio ci si infila diritti in uno di quei circoli viziosi da cui è impossibile uscire. Forse, anche in questo caso, sul buon senso è meglio fare subito una croce.
L'insieme di eventi comunemente noto come Rivoluzione Francese, di cui s'è deciso, abbastanza arbitrariamente, di celebrare quest'anno il bicentenario, ha avuto una certa influenza sul seguito della storia mondiale, ed è stato da sempre oggetto di mutevole giudizio. Nel nostro secolo è prevalso in genere il punto di vista di chi lo ha considerato un fondamentale avvenimento storico, essenziale per il successivo progresso del genere umano. Una volta, si sa, non la si pensava così. E pur concordando sull'idea di fondo, è sempre possibile schierarsi sui particolari, per esempio sulla scelta dei personaggi positivi e di quelli negativi. Si è discusso a lungo sul come valutare il ruolo di Danton, o quello di Robespierre: intere scuole storiografiche si sono caratterizzate su questa scelta. Il fatto, in fondo ovvio, che la scelta non fosse indipendente da eventuali giudizi di merito su problemi contemporanei non ha mai scandalizzato nessuno.
Il dibattito che sugli stessi argomenti s'è sviluppato in questi ultimi mesi, non dovrebbe parimenti scandalizzare nessuno. Eppure, confesso che un po' mi ha scandalizzato. Il vecchio Marx, (Karl, non Groucho, se mi è lecito citarlo su queste colonne, scandalizzando la redazione e assicurandomi un simpatico stelloncino di presa di distanza) ha scritto una volta che la storia, quando si ripete, ripresenta sotto forma di farsa quello che al primo apparire era stata tragedia. Scherzava, almeno in parte, per far capire che cosa pensasse del "18 brumaio" di Luigi Bonaparte, ma se avesse potuto seguire il dibattito in corso in questo 1989, anno del Bicentenario, in tema di Rivoluzione Francese, soprattutto sulla fase giacobina, si sarebbe sentito confortato nel suo giudizio.
In fondo, il dibattito sulla Rivoluzione, per tutto il secolo scorso, è stato un momento importante della storia del pensiero occidentale. Ha coinvolto tutti i grandi teorici, da Hegel a Marx, appunto, e un numero davvero notevole di poeti e scrittori. Di Goethe, un lettore non conformista ha scritto che il vero problema dei suoi personaggi (Wilhelm Meister, in particolare, ma non solo lui) è quello di come non fare la Rivoluzione. Il problema rappresentato dalla medesima, poi, interessò non poco a Stendhal; fu presente al Manzoni; occorse persino a Jane Austen (che ebbe qualche geniale intuizione sul come esorcizzarlo); incombe, da tutt'altro punto di vista, sulla riflessione di Giacomo Leopardi; non fu estraneo, naturalmente alla generazione romantica. Secondo il nostro metro di giudizio nessuno di costoro, salvo forse il Leopardi, che se ne occupò solo implicitamente, espresse dei giudizi che oggi potremmo far nostri ma almeno c'è restato Il rosso e il nero e scusate se è poco. Oggi, mentre ci si prepara a fare della ricorrenza del 14 luglio una delle tante carnevalate a prezzo fisso tipiche della società dello spettacolo, lo stesso dibattito ha raggiunto senza difficoltà il livello farsa.
Non tanto perché qualcuno abbia sentito il bisogno di dire che ribellarsi al governo di quel brav'uomo di Luigi Capeto sia stata una cosa esecrabile. Gli anni'80, naturalmente, sono gli anni del grande pentimento, della riscoperta di quanto sia gratificante un sano punto di vista reazionario: non c'è motivo per non investire di questo punto di vista il passato, e non solo quello recente. Ma il passato recente è ancora affidato alla memoria collettiva e ciascuno è libero, con qualche ragionevole limite, di rievocarlo. Per arrivare alla "verità" di un paio di secoli or sono è invece opportuno piegarsi alle metodiche e alle cautele della ricerca scientifica. E pochi sono stati disposti a pagare questo prezzo.
In altre parole, per invertire, come da più parti s'è voluto fare, il valore (blandamente) positivo che la communis opinio attribuisce alla Rivoluzione Francese, sarebbe stato corretto mettere in discussione le grandi sintesi storiche d'impostazione robespierrista che hanno forgiato i giudizi correnti per gran parete di questo secolo. E trattandosi di opere di solida impostazione accademica, non sarebbe stato male misurarsi, alla bisogna, con l'enorme lavoro di ricerca che in quelle sintesi si esprime. Non sarebbe stato un delitto: sarebbe stata , anzi, la doverosa applicazione del principio per cui la ricerca non conosce soste e non si riflette mai in un'interpretazione canonica permanente.

Un'idea da cancellare
Macché. Visto che la ricerca, comunque, è faticosa e difficile, mentre l'ideologia è facile e gratificante, e comunque bisogna affrettarsi perché il bicentenario è alle porte e poi c'è subito da celebrare il quadragesimo della seconda guerra mondiale e poi chissà, ci è stato ammannito soltanto un gran blaterare ideologico sui principi (o meglio, su quanto i principi siano nocivi). Non tutti, naturalmente, ci sono stati, ma, per limitarsi all'Italia, il sobrio sdegno di un Franco Fortini non è bastato a dissipare le fole dei tanti Alberoni che ci hanno spiegato come quelle teste calde di giacobini, accecati dal demone della violenza, abbiano rovinato tutto.
Peccato. Perché un'occasione di riflessione seria non andava, nonostante tutto, sciupata. Può darsi benissimo che la vecchia dialettica tra Reazione e Rivoluzione (il rosso e il nero, appunto...), oggi, non sia particolarmente attuale, anche perché uno dei termini del dilemma sembra essere stato cancellato dal vocabolario, con il tacito consenso di tutte le parti. Quella tra libertà e dispotismo, naturalmente, si è rivelata, con gli anni, più difficile da amministrare di quanto si credesse nel secolo dei lumi. Ma il problema dei critici odierni dell'89, forse, non è quello di correggere questa o quella interpretazione sbagliata, di rettificare certi dati acquisiti. Quelli vogliono semplicemente cancellare l'idea di rivoluzione dall'universo dei possibili politici.
Non sembrerebbe una gran novità, ma forse lo è. In fondo, nel caso di quella che è la rivoluzione "borghese" per eccellenza, finora l'aggettivo era considerato bastevole a far accettare il sostantivo (secondo la logica per cui negli Stati Uniti uno dei gruppi più reazionari disponibili sulla piazza si intitola alle "Figlie della Rivoluzione Americana"): oggi si direbbe che la posizione ideologica relativa si stia razionalizzando. Il che è più significativo di quanto si possa pensare. Non è da oggi che la classe dirigente si vergogna del passato rivoluzionario della borghesia e ne teorizza l'inutilità, sostenendo, per esempio, che nella maggior parte dei casi basterebbe, anzi sarebbe meglio, fare pacificamente le opportune riforme. È una tesi più suggestiva che altro, visto che il quattro agosto viene sempre dopo il quattordici luglio, ma permette di mediare (e di giocare con le parole) finché se ne ha voglia. Il recupero sano della tradizione reazionaria, invece, dà un po' da pensare.
L'ipotesi con cui fare i conti, insomma, è sempre quella per cui si sta cercando di far passare, persino al livello della definizione del passato, un qualche definitivo progetto di omologazione, in base al quale qualsiasi espressione di conflittualità dovrebbe essere considerata, per definizione, negativa. È un progetto caro da sempre ai ceti dirigenti di ogni genere e specie, ma finora, per un motivo o per l'altro, non si è mai dispiegato del tutto.
Ora, gli storici (e gli ideologi) sono soltanto una rispettabile sottospecie di intellettuali: non sono certo stati loro a farlo fallire, figuriamoci. È un fatto, tuttavia che il mondo intellettuale ha sempre avuto qualche esitazione a schierarsi senza residui con il potere. La libertà di pensiero, nonostante tutto, è una contraddizione di quelle abbastanza toste. Se venisse meno finiremmo in una situazione al cui confronto il dirigismo giacobino, ghigliottina e tutto, ci sembrerebbe un paradiso libertario. Un paradiso libertario che la Rivoluzione Francese, si sa, non è stata. Né Robespierre né i suoi nemici politici di destra o di sinistra, avevano titolo alcuno per essere definiti in quel modo. Lo scandalo di cui molti fanno mostra di fronte alle vittime del Terrore è spesso ipocrita, se si pensa al numero delle vittime che i nostri tempi e le nostre cause hanno prodotto, ma quelle vittime ci sono effettivamente state . La Rivoluzione ha prodotto (e Napoleone ha diffuso e esportato) un modello di stato centralizzato e di trasmissione del potere per via amministrativa buono per tutti gli usi, compreso quello autoritario. Il termine "anarchia" è stato coniato in quegli anni, come quasi tutti i termini di cui ancora ci serviamo nel dibattito politico, ma come termine negativo.

Festeggiamo pure. Ça ira
Il dibattito sulla Rivoluzione Francese, in un certo senso, è il dibattito tra due punti di vista autoritari. Ma naturalmente come si diceva all'inizio, noi leggiamo (e scriviamo) la storia con certi intenti precisi. Non siamo tenuti a condividere quelli altrui. Non alludo solo al fatto che in quegli eventi siano stati sicuramente coinvolti dei libertari. Sicuramente essi hanno fatto una gran brutta fine: i loro nomi sono stati cancellati dalla memoria collettiva e sono noti solo a qualche studioso o bibliofilo particolarmente erudito. Ma appunto questo è il problema. Nulla impedisce di riscrivere (o di rileggere) la storia di quegli anni da un altro punto di vista.
Certo, se si è convinti che l'evento "rivoluzione" si sia definitivamente concluso in Termidoro o in Brumaio, o a Waterloo, o in qualche momento della storia successiva, non è facile recuperarne il valore: chi ha dato, notoriamente, ha dato. Le cose possono cambiare un po' se lo vediamo come la fase di un processo in corso, un processo (e un progetto, perché no?) in cui ci sia possibile riconoscerci.
In questi duecento anni il fantasma di Robespierre ha fatto paura a tanti: non c'è motivo per cui debba far paura anche a noi. In fondo è stato lui a dichiarare, come mi è capitato di ricordare in un'altra occasione, che la Rivoluzione andava giudicata non per quello che aveva fatto, ma per quello che non aveva fatto, e che le restava da fare. Sono nobili parole, che troverete in epigrafe, e che nulla vieta di prendere alla lettera. Nel frattempo, festeggiamo pure senza paura il l4 luglio.
Ça ira.

Carlo Oliva


P. J. Proudhon: rivoluzione, non dittatura

"Confesso, inoltre, che ciò che m'indispone verso questo personaggio (Robespierre), è il detestabile "strascico" che ci ha lasciato e che rovina tutto in Francia da vent'anni, da Thiers a Guizot fino a Ledru-Rollin e compagni: è sempre lo stesso spirito poliziesco e ciarlatano, intrigante e incapace, in luogo del pensiero liberale e costruttivo del paese. Dio, liberaci dal giacobinismo!". Da questo giudizio, contenuto in una lettera inviata a Michelet l'11 aprile 1851, si può partire per ricostruire il pensiero di Proudhon (1809-65) sulla Rivoluzione francese. Un punto fermo della sua riflessione è infatti la condanna del giacobinismo, la cui importanza storica è stata ingigantita, a suo giudizio, da una tradizione democratica caduta nel colossale equivoco di scambiare un episodio rivoluzionario (quello del '93-'94), per l'idea stessa della rivoluzione facendo, di una forma passeggera di dittatura, un dogma.
Una tragica identificazione è dunque, per Proudhon, l'aver accomunato la rivoluzione con la dittatura e il pretendere perciò che tale sia la forma propria di qualunque rivoluzione. Giacobinismo e rivoluzione sono invece, per lui, affatto diversi. Il giacobinismo non appartiene alla rivoluzione bensì, intrinsecamente, alla dittatura; ciò è dovuto alla natura essenzialmente religiosa dell'evento giacobino, la quale si rivela nella perpetuazione del principio di autorità attraverso la divinizzazione dello Stato. Il giacobinismo deifica lo Stato, così come nell'Antico Regime erano stati deificati la Chiesa e il principio monarchico. Sotto questo punto di vista i Giacobini, "questi epuratori eterni", non rappresentano alcuna rottura rivoluzionaria rispetto alla storia passata: "che cosa era, in fondo, la repubblica di Roma? Una teocrazia (...); che cosa fu in seguito il governo imperiale? Una teocrazia militare (...); che cosa è stato, successivamente, il feudalesimo? Una teocrazia, per metà imperiale e per metà pontificale (...); che cosa vuole essere oggi la democrazia giacobina, secondo Robespierre, Buchez, Mazzini, l'abate Lenoir e consoci? Una teocrazia, avente per sacramento il suffragio universale e per papa onorario il popolo". Il giacobinismo è dunque l'esatto contrario della rivoluzione, poiché ne tradisce i presupposti filosofici, fondati sulla negazione radicale di qualunque trascendenza. La trascendenza deistica dell'Essere Supremo e la divinizzazione statalistica sono appunto dogmi in virtù dei quali Robespierre, "l'esecutore delle vendette reazionarie", "ghigliottinò la Repubblica". La Rivoluzione, pur con "tutto il suo vigore", non avrebbe mai potuto generare un regime di libertà, poiché "si inchinava davanti alla teologia". Essa era stata "filosofica" con Bailly, Condorcet, Clootz, Marat, Volney, ma successivamente, nella persona di Robespierre, "si era data a Dio e il giorno dopo si era ritrovata dominata".
La reazione termidoriana, nella visione dell'anarchico francese, non è pertanto un fenomeno molto diverso dal periodo del Terrore. È piuttosto la degenerazione logica del Terrore stesso, dovuta, per l'appunto, al ruolo centrale svolto dalla nuova divinizzazione deistica e statalistica: quando si appoggia "sulla fede - egli afferma - la virtù rivoluzionaria sbocca nella corruzione del Termidoro". Rivoluzionari giacobini e reazionari termidoriani sono le due facce di una medesima natura religiosa, e insieme l'antitesi radicale del nucleo originario dell'89, la filosofia laico-illuministica . Con la critica radicale del giacobinismo, e con l'esplicita valorizzazione del federalismo girondino nonché dell'Illuminismo ateo e materialistico, Proudhon si colloca in un versante storiografico più liberale che socialista. Il fenomeno giacobino e terroristico del '93-'94 è giudicato un "episodio", che non può assurge a significato autentico della Rivoluzione francese; essa è invece inserita nel processo, molto più vasto, della secolarizzazione, giudicata irreversibile. "Quale è stato, sino ad ora, il più grande atto della Rivoluzione? Non il giuramento della Pallacorda, né il 4 agosto, né la Costituzione del '91, né la giuria, né il 21 gennaio, né il calendario repubblicano, né il sistema dei pesi e delle misure, né il gran libro del debito pubblico: è il decreto della Convenzione del 10 novembre 1793, che istituiva il culto della Ragione. Da questo decreto discende il senato-consulto del 17 febbraio 1810, che, riunendo lo Stato del papa all'Impero, lacerò in tutta Europa il patto di Carlo Magno".
Con questa visione più metastorica che storica, Proudhon tende dunque a riconoscere il significato universale della Rivoluzione francese, e la sua presenza attiva nella storia del mondo, nell'essere testimonianza e momento dell'affermarsi del principio della Giustizia nella coscienza moderna, liberatasi dall'idea religiosa e trascendentale, e quindi da qualunque presupposto "superiore" che intenda assurgere a fondamento della convivenza civile. L'enfasi di Proudhon nel sottolineare il "culto della Ragione" non deve, tuttavia, trarre in inganno: la sottolineatura, in questo caso, è solo "polemica" e ben lungi dall'esprimere una valutazione positiva del "culto" stesso.
Da questo punto di vista la "scossa del 1789-93" rappresenta solo l'inizio; tuttavia, malgrado "l'infedeltà dei suoi annalisti (e) la povertà del suo insegnamento", i contenuti della Rivoluzione sono inarrestabili perché esprimono il senso e la direzione del mondo contemporaneo, fondato sull'affermazione dell'idea di Giustizia che, a partire dall'89, si identifica con il concetto di uguaglianza. Questo principio, osserva Proudhon, benché ancora generalissimo nella sua formulazione, attraversa senza soluzione di continuità l'intero ciclo rivoluzionario: lo si ritrova nella Dichiarazione del 27 luglio-31 agosto 1789, nella Costituzione del 6 settembre 1791, nella Dichiarazione del 15-16 febbraio e del 24 giugno 1793, nelle costituzioni dell'anno III (22 agosto 1795) e dell'anno VIII (15 dicembre 1799) e, perfino, nella Carta del 1814.
L'accentuazione da parte di Proudhon dell'ineliminabilità del principio di uguaglianza, come sinonimo parziale del principio di Giustizia, rivela una filosofia della storia ancorata ad una concezione ottimistica del progresso umano, inteso come processo infinito e, in ultima analisi, accumulativo. Per questa ragione Proudhon non è interessato a distinguere le differenti formulazioni dell'uguaglianza, presenti nelle varie dichiarazioni e costituzioni; ciò comporta, indubbiamente, una sottovalutazione del frutto maggiore della Rivoluzione francese, cioè la democrazia politica, e una sorta di atteggiamento "indifferente" verso le forze storiche che ne furono protagoniste. Non esiste, infatti, nella riflessione proudhoniana, un'analisi storico-economica delle lotte politiche e sociali che travagliarono il quinquennio del 1789-94, né uno specifico giudizio, positivo o negativo, sulle classi sociali che le espressero.
Anche la constatazione che fu la borghesia l'artefice principale e, soprattutto, la maggiore beneficiaria della Rivoluzione e che dunque, data questa genesi, la Rivoluzione restò entro il limitato orizzonte della libertà e dell'uguaglianza politiche, rimane una considerazione marginale per Proudhon. Ciò che egli intende sottolineare è che il significato profondo della Rivoluzione non risiede nell'essere stata il veicolo della vittoria della classe media, fatto, questo, del tutto contingente, ma nel suo essere inscritta nel processo generale e irreversibile della secolarizzazione e della immanentizzazione dell'idea di Giustizia, che pervade tutta la società e per la quale l'89 rappresenta solo l'inizio. "La fatalità della natura domata dalla libertà dell'uomo. Tale è il programma (...) della Rivoluzione", egli afferma. Con questo giudizio, Proudhon coglie nella libertà il contenuto universale (benché ancora parziale) della Rivoluzione francese, contenuto al quale poterono richiamarsi Malovet come Babeuf, l'uno "rappresentante della borghesia", l'altro "tribuno del popolo".


M. Bakunin: quei reazionari dei giacobini

L'interpretazione bakuniana della rivoluzione francese va situata, per buona parte, entro lo schema classico della storiografia socialista.
Gli anni 1789-94 evidenziano una rivoluzione "incompiuta" e "contraddittoria", i cui esiti annunciano un moto più "grande" e "solenne": la rivoluzione, "avendo proclamato il diritto e il dovere di ogni individuo di diventare un uomo", ha infatti generato la grande idea della libertà e dell'uguaglianza, concretatasi storicamente nel repubblicanesimo politico e nel socialismo. Il repubblicanesimo, "figlio adorato dai Robespierre e dai Saint-Just" e ispirato alle virtù eroiche dei grandi cittadini della Grecia e di Roma, appartiene ad una concezione politica pura, "senza mescolanza di idee socialiste", in quanto ha come suo ideale il "riconoscimento del cittadino"; il socialismo, invece, è "l'ultimo figlio" della rivoluzione, che lo ha reso manifesto sotto le sembianze del babeuvismo. Babeuf e i suoi amici rivelano una reale intenzione socialista, anche se il loro culto dell'uguaglianza va a "detrimento della libertà". Essi esprimono "l'ultimo tentativo rivoluzionario del XVIII secolo", l'istanza più alta della rivoluzione: la volontà di realizzare la vera libertà e la vera uguaglianza, cioè di portare a compimento quello che il repubblicanesimo politico non è in grado di fare.
Per Bakunin le carenze storiche dell'89 risiedono nell'irrisolto rapporto tra la trasformazione politica e la trasformazione economico-sociale. Il repubblicanesimo politico non poteva realizzare "l'uomo", in quanto "riconosceva solo il cittadino"; era pervaso da una contraddizione insanabile: perseguiva, infatti, "una cosa impossibile: l'instaurazione di un'uguaglianza ideale nel seno stesso dell'ineguaglianza materiale"; proclamava la libertà nell'ambito della servitù economica delle classi popolari. Ciò nonostante, esso aveva avuto il merito di aver enucleato l'ideale "dell'assoluta libertà (anche se) solo ed esclusivamente in campo politico", grazie al quale la Francia si era trovata "in una posizione di preminenza tra le nazioni del mondo".
Diversamente la componente socialista della rivoluzione francese aveva bensì posto la questione dell'emancipazione umana come questione ineludibile, ma si era scontrata con il dato di fatto che una radicale trasformazione dei rapporti di classe nella società dell'ancien regime era "probabilmente impossibile". Bakunin riconosce agli uomini del '93 d'aver agito in modo "eroico", "disinteressato" e "generico", ma ritiene che non si possa andare oltre questo riconoscimento etico; dal suo punto di vista i giacobini erano rimasti ancorati a un orizzonte borghese, com'è dimostrato dalla loro Costituzione, che aveva finito "coll'ignorare scientemente la questione sociale", né la "terribile ghigliottina (... ), alla quale certo non si può rimproverare di essere stata inerte", era riuscita a distruggere radicalmente il potere dell'aristocrazia, e in generale le basi materiali del privilegio, visto che non era stato toccato il fulcro del privilegio stesso: la proprietà individuale. Benché la rivoluzione borghese avesse dato luogo a due "tendenze diametralmente opposte", la Gironda e la Montagna, aveva comunque espresso gli interessi "crescenti" e "vittoriosi" della classe media; pertanto questa si ritrovò unita nello "sfruttamento sistematico del proletariato". Ciò era stato possibile per il fatto che l'antagonismo fra la rivoluzione borghese e la rivoluzione popolare non esisteva ancora nella coscienza del popolo, né in quella della borghesia.
La mancanza di una siffatta consapevolezza, dovuta all'immaturità storica delle due classi e dei loro reciproci rapporti, aveva consentito alla classe borghese di esprimere nella Convenzione una propria autentica volontà rivoluzionaria, specialmente contro i suoi nemici, la nobiltà, il clero e la monarchia e di poter contare sul consenso popolare, la cui forza era stata poi determinante nel portare a compimento la rivoluzione stessa.
L'affinità dell'interpretazione bakuniniana con il giudizio espresso dal pensiero socialista-rivoluzionario si ferma qui. A questo punto si innesta la specifica critica anarchica, che prende l'avvio, come in Proudhon, dalla constatazione della natura irrimediabilmente "reazionaria" e "religiosa" del giacobinismo. I giacobini, per l'anarchico russo, erano "uomini che aspirano(vano) alla dittatura e allo Stato centralizzato" e, in quanto partecipi di un movimento "semireligioso", inneggiavano all'autorità statale, il cui culto non poteva che condurre "fatalmente al dispotismo".
La loro rivoluzione non era stata "socialista , né materialista, (ma) essenzialmente metafisica, politica ed idealista". I frutti ultimi, e del tutto logici di questo statalismo, sono ben rappresentati dalla "cupa figura di Robespierre, il Calvino della rivoluzione, che uccise la rivoluzione".
Vi è una diretta consequenzialità tra la pratica del Terrore e il Direttorio, "vera incarnazione della depravazione borghese alla fine del diciottesimo secolo"; la stessa consequenzialità legò il Direttorio al 18 brumaio, l'esito tirannico della rivoluzione, e al nazionalismo imperiale dei napoleonidi. Con ciò Bakunin intende delineare una sequenza logica che parte da Rousseau e arriva a Napoleone, tramite Robespierre.
Rousseau, "il vero creatore della moderna reazione", è in apparenza "lo scrittore più democratico del diciottesimo secolo", ma in realtà cova in lui "il dispotismo spietato dell'uomo di Stato". È per ispirazione della dottrina rousseauiana, "sentimentalmente terrorista, cioè religiosa", che Robespierre, "suo degno e fedele discepolo", "ghigliottinò dapprima gli herbertisti e poi il genio stesso della rivoluzione, Danton, nella persona del quale assassinò la Repubblica preparando il trionfo, divenuto necessario, della dittatura di Bonaparte". Il rapporto tra la democrazia politica di Rousseau e il cesarismo imperiale di Napoleone, metamorfosi della religiosità insita in quello, si manifesta nel culto idealistico e dottrinario dello Stato e nella falsa e astratta idea del contratto sociale. Il contratto rousseauiano, che tanto influì sulle vicende e sullo sviluppo della rivoluzione francese, è una palese manifestazione dell'incapacità del pensiero borghese di riconoscere la società nel suo fatto collettivo immediato, la cui valenza "sociale" non abbisogna di una convenzione che tolga ai suoi membri la libertà individuale in cambio della sicurezza e dei benefici offerti dal vincolo societario. Questa teoria statalista è la genesi del rivoluzionarismo autoritario e totalitario del XIX secolo rispetto al quale, dichiara Bakunin in riferimento agli anarchici, noi siamo "gli avversari naturali".
La rivoluzione francese che, con la Riforma, è la grande artefice dell'epoca moderna, è l'erede diretta della propaganda "luminosa, eloquente, (e) appassionata dei filosofi del XVIII secolo".
Ne risulta dunque, per Bakunin, che il giacobinismo è l'esatto contrario dell'illuminismo: esso è il cupo annunciatore di quel romanticismo rivoluzionario, fanatico e intollerante, che pervaderà gran parte del posteriore pensiero democratico e socialista, specialmente nella sua versione marxista, a cui l'anarchico russo dedicherà pagine di lucida e profetica critica.


P. Kropotkin: il mito della rivoluzione popolare

"Nella sollevazione dei contadini intesa ad ottenere l'abolizione dei diritti feudali e l'appropriazione delle terre comunali - tolte dai signori laici ed ecclesiastici ai comuni rustici già fin dal XVII secolo, - c'è l'essenza stessa, il fondo della Grande Rivoluzione. A ciò bisogna aggiungere la lotta della borghesia per i suoi diritti politici. Senza di ciò, la Rivoluzione non avrebbe mai potuto avere la profondità raggiunta in Francia".
Questo giudizio costituisce la chiave di volta dell'interpretazione di Peter Kropotkin (1842-1921) della Rivoluzione francese: il "fondo" e l'"essenza" di questa rivoluzione non appartengono veramente alla borghesia, che fu rivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese venne trascinata dall'ondata popolare, verso la quale cercò di opporre la moderazione del costituzionalismo monarchico. La Rivoluzione, intesa come profondo, radicale rivolgimento politico e sociale, come irreversibile lotta tra le classi diseredate e quelle possidenti, "non diventa comprensibile che dopo aver notato gli sforzi reiterati (di queste ultime) allo scopo di conciliarsi la monarchia per farsene scudo contro il popolo".
La svalutazione della volontà rivoluzionaria della borghesia attraversa tutta la ricostruzione storica dell'anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche nelle conquiste del liberalismo politico l'effetto di una spinta più grande e possente: la lotta popolare per il comunismo, nella forma ancora rozza della semplice, diretta distribuzione egualitaria dei beni. Se il moto rivoluzionario si fosse assestato sulla celebre Dichiarazione dell'89, esso sarebbe rimasto entro l'angusto orizzonte di "una professione di fede del liberalismo borghese"; questa, pertanto, mai avrebbe esercitato sui popoli quell'effetto galvanizzatore che più tardi produsse, mai avrebbe assunto quel mitico e potente fascino di personificazione della giustizia e del moto della storia stessa, che posteriormente alimentò il pathos della tradizione democratica e rivoluzionaria del XIX secolo, divenendo "la parola d'ordine del progresso per tutte le nazioni d'Europa".
Tutte le principali tappe che scandiscono il quadriennio dall'89 al'94, sono segnate, per Kropotkin, dalla presenza popolare, dal protagonismo delle classi oppresse in lotta per l'abolizione di ogni privilegio, politico, economico, sociale. Così il 14 luglio e il 4 agosto 1789, il 21 giugno e il 17 luglio 1791, il 10 agosto e il 21 settembre l792, il 21 gennaio e il 31 maggio 1793. L'Assemblea costituente, l'Assemblea legislativa e la stessa Convenzione furono trascinate dall'impeto popolare, legiferarono in senso rivoluzionano via via che si sviluppò la pratica rivoluzionaria "dal basso" delle classi oppresse, per cui è solo studiando "questo modo di agire del popolo e non ingolfandosi nello studio dell'opera legislativa dell'Assemblea che si afferra il genio della Grande Rivoluzione, il genio di tutte le Rivoluzioni".
Tra la ratificazione parlamentare delle varie Assemblee e il moto spontaneo della rivolta popolare si crearono momenti di sintonia e di scontro, ma sempre rimase il divario, incolmabile, tra la forza autentica della Rivoluzione e la sua epifania ufficiale. Il processo rivoluzionario fu un susseguirsi incalzante di avvenimenti, secondo una logica deterministica nel senso che, "quando una rivoluzione è incominciata, ogni avvenimento non riassume solamente la tappa percorsa, ma contiene già gli elementi di quanto accadrà".
Nella visione di Kropotkin non vi furono quindi molteplici rivoluzioni, come la storiografia liberale, la socialista e la democratica hanno cercato di vedervi, enucleando una rivoluzione aristocratica, una costituzionale, una girondina, una giacobina, ma una sola ed unica rivoluzione, precisamente la Grande Rivoluzione, che nel suo moto progressivo cercò la propria "verità" nel fondo spontaneo, popolare, comunista, anarchico. Con questa "ontologia" della rivoluzione, Kropotkin contribuisce in modo davvero potente a forgiare quel mito della "rivoluzione sconosciuta", che tanta parte avrà nella storiografia rivoluzionaria di segno anarchico nel XX secolo. Afferma infatti Kropotkin che, di contro a una storia palese, intessuta di fatti ufficiali, che sono noti perché resi pubblici da una disciplina storiografica di tipo "gerarchico", intenta a mettere in luce l'azione dei re, dei ministri, del Parlamento, dei grandi uomini politici, esiste anche, e soprattutto, una storia sconosciuta, che non ha trovato voce in alcuna storiografia, una storia fatta di gente anonima, immersa nella propria quotidianità, di masse che contribuirono in modo creativo, spontaneo, non ufficializzato, alla costruzione di un differente ordine sociale e politico. È in questo universo, è nei grandi fatti collettivi, che videro protagoniste le masse anonime di contadini e di popolani, che si deve rintracciare, per lui, il motore della Rivoluzione, il cui sviluppo, se lasciato svolgere fino alle sue ultime conseguenze, non può che approdare all'anarchismo comunista. La Rivoluzione, in altri termini, è l'espressione a volte confusa, a volte cosciente, di questa sua intima ed ultima "verità".
Rendendo totalmente protagonista il popolo, vedendo in esso la vera anima della Rivoluzione, Kropotkin cade in alcune insuperabili contraddizioni, che sono tipiche, del resto, di tutto il pensiero rivoluzionario. Non sa infatti spiegare come mai questo stesso popolo, che ai suoi occhi è l'autentico soggetto rivoluzionario, risulti alla fine sconfitto, perché non riesca, pur essendo esso l'estrinsecazione della "verità" profonda della Rivoluzione , a raggiungere i propri obiettivi. Tale incongruenza riflette le contraddizioni proprie della concezione romantica del popolo: una concezione mitica in cui, per un verso, esso è l'autentico protagonista della storia, per un altro verso, trascende la storia presentandosi come personificazione della giustizia e, dunque, di una bontà che lo rende ingenuo e preda della perfidia delle classi superiori. La causa della sua incapacità politica risiede nello stesso motivo che lo vuole protagonista. Un esempio, tra i tanti, è la ricostruzione della presa della Bastiglia, simbolo della rivoluzione. Da un lato si sottolinea che il popolo "sin dalla fine di giugno (...) era in pieno fermento e si preparava all'insurrezione"; dall'altro lato, subito dopo l'abbattimento dell'"odiosa fortezza", questo stesso popolo risulta "docile a essere condotto, pronto a lasciarsi governare dai nuovi padroni stabilitisi al Palazzo di Città". Né Kropotkin avverte la contraddizione quando, in un altro passo, afferma che il popolo, il quale "pur comprende così bene le insidie della corte e vede meglio dei più perspicaci dentro il complotto che si macchinava dalla fine di giugno", allo stesso tempo, "Si lascia prendere (...) da un nuovo complotto - quello cioè delle classi abbienti, che faranno, tra poco, rientrare nei loro tuguri gli affamati, gli uomini dalle picche, ai quali i borghesi erano ricorsi per qualche ora, quando si trattava di opporre alla forza dell'esercito la forza dell'insurrezione popolare".
Dunque le masse sono l'intelligenza della Rivoluzione, ma anche, contemporaneamente, preda dei raggiri delle classi superiori, in questo caso della borghesia. Si tratta, come si vede, di contraddizioni gravi: se le classi inferiori sono un vero soggetto storico perché risultano incapaci di avere una completa autonomia? Oltre a queste, vi sono altre illogicità, dovute al fatto che il popolo non è sempre rivoluzionario. Dovendo spiegare il fenomeno vandeano, l'anarchico russo deve riconoscere che la volontà rivoluzionaria delle masse contadine si trasformò in rigetto reazionario; non potendo negare il fatto che i complotti realisti "coprivano intere regioni", e che dunque il loro seguito era larghissimo, massiccio, egli è costretto ad attribuire al popolo anche la veste reazionaria, benché sotto l'incalzante propaganda clericale e nobiliare.
Kropotkin, inoltre, mentre enfatizza oltre misura il protagonismo popolare, è obbligato a riconoscere d'altra parte che la forza risolutiva delle classi oppresse risiedeva, in ultima analisi, nelle masse parigine, a loro volte identificate nella Comune. Il che è quanto dire che se il grande esercito della Rivoluzione stava nelle campagne, aveva però i suoi soldati migliori nella capitale. "Da ultimo, a Parigi, com'è noto, fu la Comune che rovesciò il re, e dopo il 10 agosto fu ancora essa il vero focolare e la vera forza della Rivoluzione; questa conservò il suo vigore sino al giorno in cui visse la Comune. Le Comuni furono dunque l'anima della grande Rivoluzione e senza quei focolari diffusi su tutto il territorio, giammai la Rivoluzione avrebbe avuto la forza di rovesciare l'Antico Regime".
Kropotkin è dunque costretto ad identificare le masse con le minoranze, il popolo francese con quello di Parigi; una identificazione che subisce un'ulteriore restrizione, laddove è costretto ad ammettere, a più riprese, che "in ogni epoca e in qualsiasi partito gli uomini d'azione furono sempre un'infima minoranza" e che "le rivoluzioni sono sempre fatte dalla minoranza".
Il risultato più grave della enfatizzazione kropotkiniana del protagonismo popolare si rivela nella spiegazione della dittatura giacobina . La genesi di questa dittatura non è fatta risalire al fanatico rivoluzionarismo totalitario dei capi giacobini, protesi a realizzare il regno della virtù , ma alla volontà rivoluzionaria delle masse. La lotta politica tra Giacobini e Girondini è infatti interpretata come una logica e necessaria conseguenza della lotta di classe tra sfruttatori e sfruttati. "Il 21 giugno 1791, giorno dell'arresto del re a Varennes, chiude un'epoca, la caduta dei Girondini, il 31 maggio, ne chiude un'altra. Essa diventa nello stesso tempo l'immagine di tutte le rivoluzioni future. Non vi sarà più una rivoluzione seria, se non finirà col suo 31 maggio. O la rivoluzione avrà la sua giornata in cui i proletari si separano dai rivoluzionari borghesi, per marciare dove questi non potranno seguirli cessando d'essere borghesi; oppure la separazione non si farà, e allora non sarà una rivoluzione".
Il Terrore, ovvio epilogo del 31 maggio, diventa, nella ricostruzione di Kropotkin, e senza che egli ne avverta l'incongruenza, l'esito della "rivoluzione dal basso": "la Costituente, la Legislativa e persino la Convenzione si opposero sino al giugno 1793 a questa ripresa da parte dei comuni delle terre comunali, tolte durante due secoli ai comuni stessi dai signori e dai borghesi. E non si giunse a tanto se non con l'imprigionare e ghigliottinare il re e cacciare i Girondini dalla Convenzione".
È un'interpretazione, come si vede, che finisce per assolvere il dittatorialismo robespierrista, in quanto esso viene ritenuto un'epifania della volontà del popolo. Invece di riversare sui capi giacobini la giusta responsabilità per le migliaia di teste tagliate, Kropotkin fa risalire la pratica forsennata della ghigliottina alla spinta rivoluzionaria delle masse. "Se tre anni più tardi, questo stesso popolo, di così facile contentatura e tanto disposto ad aspettare, diventò feroce e cominciò lo sterminio dei controrivoluzionari, non vi ricorse che come al mezzo supremo per salvare qualche cosa della Rivoluzione - vedendola sul punto di naufragare, prima di aver compiuto qualche cambiamento sostanziale nella vita economica".
Per aver voluto dimostrare a tutti i costi che l'anima della Rivoluzione fu il popolo, a suo giudizio vero e unico soggetto rivoluzionario, l'anarchico russo finisce, involontariamente, col giustificare la dittatura della borghesia. Esempio paradossale, ma del tutto logico, della mitizzazione romantica del rivoluzionarismo popolare.