Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 164
maggio 1989


Rivista Anarchica Online

La paura del drago
di Edoarda Masi

La figura e l'opera della scrittrice statunitense Ursula K. Le Guin, nell'analisi di alcune tematiche fondamentali della sua attività letteraria e saggistica. La critica della società americana e dei suoi valori di potere e di profitto, la riflessione sui rischi connessi all'utopia libertaria, la tematica dell'"ombra" nelle sue dimensioni sociali ed individuali.

Una delle tematiche di fondo trattate nel volume Il linguaggio della notte di Ursula Kroeber Le Guin è quello del rapporto dell'essere umano con la sua ombra: cioè, col suo lato oscuro, con l'irrazionale, con l'inconscio, col male che è dentro di lui; quindi, con l'alieno (proiezione del lato oscuro): la donna per il maschio, il proletario per chi non è tale, l'altra razza...; e col sogno - quindi, con l'immaginazione, la fantasia, e infine con l'arte del narratore. Questi argomenti, presenti in tutto il libro, sono affrontati più direttamente nei due saggi: Perché gli americani hanno paura dei draghi? e il bellissimo: Il fanciullo e l'ombra.
A una prima lettura, emergono un'intenzione pedagogica e un'intenzione polemica. Da un lato si esorta il pubblico, e gli educatori, a lasciare che la verità del mondo immaginario, ben presente nei bambini, trovi piena espressione, e nell'esprimersi prenda forma e, per così dire, ordine e disciplina; così che, quando adolescenti dovranno affrontare il rapporto con se stessi, non lo sfuggano ma lo realizzino intero, comprendano che non si può cacciar via la propria ombra, che è necessario convivere con essa; senza di che non si cresce, non si diventa adulti.
L'intenzione polemica è rivolta contro i modi di pensare prevalenti nella società USA di oggi. Con penetrante ironia Le Guin rivela che cosa sta dietro l'idea che non sia educativo dare in lettura ai bambini opere che portino all'"evasione dalla realtà" e, per altro verso (ma in verità nello stesso) dietro il luogo comune: "Le fiabe sono per i bambini; io vivo nel mondo reale", o l'affermazione: "Mia moglie legge romanzi; io non ho tempo". Dietro questi pregiudizi c'è il puritanesimo, l'etica del lavoro, la mentalità del profitto, i mores sessuali. (A proposito della mentalità di profitto, è molto divertente l'osservazione che "il nostro uomo d'affari può concedersi ogni tanto la lettura di un best seller: non perché sia un buon libro, bensì perché è un best seller, un successo, ha fatto soldi... ciò giustifica la sua esistenza; e leggendolo egli può partecipare, un poco, del potere, del mana del suo successo"). Ma, più in profondità, dietro questi pregiudizi sta la paura. "La paura dei draghi". La paura della fantasia. La paura dell'ombra, e perciò il tentativo di disfarsene.
Come risulta poi dalla lettura di tutta la sua opera narrativa, si tratta della polemica contro la "modernità", che pretende fare appello allo sviluppo del profitto rappresentato come razionalità; e l'opposizione ad essa del suo rovescio - rappresentato dall'ideologia corrente come oscuro, irrazionale, fantasia, sogno; mondo degli artisti; mondo delle donne; oppure, mondo degli arretrati, dei sottosviluppati, dei contadini, ecc... Quella proiezione dell'ombra interiore verso l'esterno che crea la figura dell'alieno, e tanto contribuisce a giustificare le odierne forme di oppressione e di schiavismo.

Critica della società USA
L'intento pedagogico e l'intento polemico sono ovviamente da condividere, e basterebbero per collocare Ursula Le Guin fra le poche menti capaci, negli USA, di una critica di fondo a quella società. Credo però che, a una lettura seconda e più attenta, sia dato scoprire tratti meno generici, che le appartengono in modo esclusivo, e sono in rapporto più diretto con la sua opera di narratrice. Questi tratti liberano la critica alla società "moderna" USA da quello che potrebbe apparire un certo schematismo, speculare allo schematismo dei suoi sostenitori; e allargano il discorso oltre i confini dell'attualità intesa in senso stretto.
La prima evidenza, non tanto dai suoi saggi quanto dalla sua opera maggiore, di narratrice, è l'eredità romantica. Per limitarci all'aspetto specifico che qui ci interessa, il rapporto fra l'essere umano e la sua ombra è un locus tipico del romanticismo tedesco. Basta ricordare la storia di Peter Schlemihl, di Chamisso, probabilmente conosciuta da Andersen, a sua volta citato da U. Le Guin. Ma la scissione dell'io - esattamente nel senso indicato da Le Guin - è al centro pure dell'opera di Hoffmann. (Lo stesso Freud ne lodò l'intuizione anticipatrice delle teorie dell'inconscio). Come i romantici, la Le Guin narratrice non prende partito pro o contro l'una o l'altra componente dell'io diviso. Le sue opinioni sono contrarie a un certo tipo di razionalità, e il suo discorso pedagogico è, per così dire, a favore dell'ombra; e a difesa dell'alieno. Ma proprio perché sa che l'alieno è una proiezione dell'io, e che l'essere umano non può fare senza la propria ombra, essa non parteggia per l'uno o per l'altra.
Nel solco della tradizione europea, i romantici hanno vissuto la scissione dell'io come tragedia. I greci, nostri progenitori, hanno voluto a fondamento della civiltà la faccia della luce e della ragione, il momento diurno e maschile, lo Spirito e la sua immortalità. Conoscevano tutto del mondo notturno, il corpo e la mortalità, gli dèi inferi, l'ombra, la donna. Lo hanno negato - tutelandosi col conservare le Eumenidi sepolte. Il mondo oscuro, che nei tragici ha ancora voce di antitesi (Antigone, Cassandra), diventa mondo rovescio - non essere, le viscere, il sogno. Il fondo tragico senza catarsi, nell'uomo e nella donna. Molte volte è riemerso. Ma è dopo la rivoluzione francese che irrompe nella storia diurna e nella vita di tutti. Quella dei romantici ne è solo la prima testimonianza.
In un secolo e mezzo, il rapporto fra l'essere umano e la sua ombra si è approfondito, arricchito e complicato. Si è arricchito sul piano psicologico: basta pensare, per non dire altro, al rovesciamento di prospettive portato dalla psicoanalisi (non è un caso se U. Le Guin fa riferimento a Jung). Ha preso corpo nella lotta di classe (solo ora chiamata e vissuta con questo nome), nella decolonizzazione, nei movimenti femministi. Ma si è anche complicato. A misura che quel che si era voluto annullare emergeva nella realtà, e fra la luce e l'ombra maturava il conflitto, si stabiliva fra di esse anche un rapporto dialettico. Nel conflitto, il padrone guardava con occhi nuovi il servo, e il servo il padrone, e l'uno acquistava qualcosa dell'altro, quanto meno nella dimensione della coscienza. Lo stesso avveniva fra il colonizzatore e il colonizzato, fra l'uomo e la donna. Fino al punto in cui la scissione penetra e si manifesta anche all'interno di ciascuna delle due metà. Perché ciascuna delle due trasferisce nel proprio seno le contraddizioni dell'altra. Questo è vero, naturalmente, nella dimensione sociale, là dove fin da principio l'identificazione dei primitivi, dei servi, degli sfruttati, dei colonizzati, delle donne con l'ombra era stata solo una grandiosa metafora.
Uno dei contributi peculiari di U. Le Guin è la rappresentazione di questo groviglio di divisioni e di conflitti nei termini della narrativa fantastica, e cioè dando corpo fisico ai concetti, aderendo alla percezione che la gente comune ha di essi, si potrebbe dire volgarizzandoli - se si toglie a questa parola ogni connotazione negativa. L'autrice trasferisce a livello di senso e cultura comuni discorsi che sono stati e sono fatti solo a livello molto alto, storico-filosofico-sociologico: nella sfera preclusa alla gente comune. In tal modo, i problemi dell'uscita dalla falsa nazionalità imposta dal pensiero matematizzato e dal produttivismo "moderno" restano astratti.
Infatti, qualunque ipotesi di "uscita" presuppone una partecipazione popolare (il che non significa, naturalmente, di tutto il popolo, ma di un numero largo di persone, al di là delle élite e degli specialismi - con lo scavalcamento della struttura gerarchica del sapere).

Quell'ambigua utopia
Allo stato attuale delle cose, il problema del rapporto di interdipendenza bipolare fra due ipotesi di civiltà (con i suoi tanti e diversi aspetti: Nord e Sud del mondo, mondo maschile e mondo femminile, dimensione diurna e dimensione notturna, sviluppo del profitto economico e tutela dell'ambiente terrestre, astrazione mentale e corporeità, ordine e immaginazione...) è vissuto dalla gente comune ma non è compreso. Donde l'insorgere della massa di cretineria spiritualistica e medioevaleggiante, o i culti del "naturale" astorico. Tradurre la problematica reale nel linguaggio più semplice, senza censurarne la complessità, è uno dei lavori pedagogici fondamentali, nella forma non illuministica. (Vanno perdonate, allora, alcune concessioni al gusto corrente e anche al cattivo gusto).
È quasi stupefacente, a questo proposito, l'acutezza con la quale una scrittrice americana, che credo non abbia avuto esperienze dirette in materia, coglie e rappresenta quasi alla lettera le ambiguità inerenti all'utopia socialista - quelle ben conosciute da chiunque abbia vissuto in un paese del "socialismo reale" prima che le componenti di autodistruzione avessero la meglio (per esempio, in Cina Popolare nei primi vent'anni). Essa le coglie non là dove parrebbe scontato che debbano trovarsi, negli aspetti intrinsecamente negativi del socialismo (per esempio, quelli legati alla dittatura o tirannide personale, alla corruzione della burocrazia o, peggio, al riprodursi del modello di sviluppo del capitalismo), ma emergenti dall'essenza "buona" dell'utopia, dalla mozione anarchica, dalla ipotesi egualitaria, dall'autogoverno. "Un'ambigua utopia" è il sottotitolo di I reietti dell'altro pianeta. Il grande valore pedagogico di questo libro sta nel segnare tutti i punti di ambiguità, su Anarres e su Urras, in ciascuno dei due pianeti fratelli e opposti, rovescio e specchio l'uno dell'altro. I limiti all'individuo, che secondo il luogo comune corrente sarebbero imposti dalle dittature, appaiono invece, nel loro aspetto più terribile, quali limiti interiori, di ordine etico in origine, imposti per pura autorità morale dalla comunità circostante, che socializza la vita personale e privata.
Le dittature, come le tirannie, sono in grado di porre solo limiti esterni, al pari di qualsiasi altro governo: si tratta di una variazione di quantità, che se grave è suscettibile di farsi qualitativa. Ma è, in qualche misura, cosa inevitabile dovunque esistano governanti e governati.
L'alternativa è quella anarchica: ma con le conseguenze latenti e immanenti del limite interiore alla libertà (e per converso, della rivendicazione individuale di diversità - che per ragioni oggettive può tradursi in disuguaglianza).
Quando la latenza viene alla luce - un'altra ombra che si manifesta - le conseguenze sono intollerabili più di qualsiasi limite puramente esterno. Questo ci dice la storia di Shevek e della sua inevitabile infelicità sull'uno e sull'altro dei pianeti gemelli.
Credo che i momenti in cui l'autrice attribuisce ritualmente le difficoltà a un abbandono dell'originaria purezza degli ideali anarchici siano fra i più deboli del libro, così come mi appare debole un altro aspetto ricorrente nelle opere di U. Le Guin: il "ritorno a casa" consolatore. Non perché non possa esservi un ritorno a casa: se vogliamo fare riferimento agli esempi classici e sublimi, anche Edipo a Colono è un ritorno a casa.
È che i ritorni a casa nei romanzi di U. Le Guin non sono teoricamente fondati (non è indicata neppure tendenzialmente una soluzione delle contraddizioni che hanno determinato l'allontanamento da casa), e nella realtà immaginaria dei personaggi appaiono solo come cedimento alla stanchezza, rinuncia, ricerca di consolazione affettuosa. (Almeno nei romanzi che io ho letto. Fra questi, considero Sempre la valle un'opera nel complesso fallita). Nella rappresentazione della nostra verità di oggi, il "ritorno a casa" non è configurabile neppure nei termini di progetto teorico per il futuro: tanto meno lo è in quelli della rappresentazione artistica, giacché è fuori di qualsiasi dimensione vissuta, fosse pure immaginaria.
In realtà, il "ritorno a casa" è parte del progetto pedagogico di U. Le Guin. È il momento in cui si conclude il viaggio "verso la conoscenza di se stessi, verso la maturità, verso la luce". Ma, in base alle sue stesse premesse, Le Guin dovrebbe sapere che questo momento conclusivo non esiste, e il ritorno a casa, quando pure si dia, è solo episodico, e sarà seguito da una nuova partenza. Anche in questo, i greci ci sono buoni maestri col mito di Odisseo.
Un altro esempio di come U. Le Guin sa condurre il lettore a comprendere aspetti a lui sconosciuti di se stesso. Sappiamo tutti (in questo caso sarebbe meglio dire: tutte) quanto profonda sia per chi è nato maschio la difficoltà a intendere la soggezione femminile come sofferenza, non accettazione - se non in termini teorici. I quali per lo più si dissolvono, nel rapporto con la donna in carne ed ossa. È un esempio di separazione fra conoscenza teorica ed esperienza. Al fine di attenuare questa separazione, nel caso, è importante la tematica omosessuale. Non quando si fa ideologia, giacché allora copre spesso maschilismo o femminilismo esagerati e esageratamente conflittuali. Ma quando è rappresentazione serena, descrittiva in profondità e non ideologica, come può esserlo la rappresentazione artistica riuscita. È così in un episodio di L'altra faccia delle tenebre. Gli androgini del pianeta Inverno non sono realizzati. Ma l'autrice dà prova di grande bravura nella storia fra i ghiacci, nello straordinario episodio d'amore platonico fra l'androgino e un uomo (maschio, sempre meno maschio). Si entra qui in una dimensione sconosciuta, in un territorio inesplorato.
Può essere l'inizio di una modificazione della visione del mondo - nella qualità dei sentimenti e non solo nelle teorie.
In questo episodio, e in alcuni altri, il programma stesso dell'autrice è scavalcato dalla forza dell'immaginazione, e perciò stesso è pienamente realizzato. Si tratta per lo più di episodi sostanzialmente lirici, sotto l'apparenza narrativa. Come narratrice U. Le Guin conosce bene il mestiere, sa impostare il suo disegno e condurlo con abilità. Tuttavia è debole proprio là dove, nei suoi lucidissimi saggi, essa vuole sia l'essenza dell'arte narrativa. Penso in particolare a "La fantascienza e la signora Brown". Nei romanzi di U. Le Guin non ci sono signore Brown; non ci sono personaggi cui veramente attribuire questo nome; sono piuttosto "elementi della complessità dell'anima" (come essa definisce Grethel e la strega Marzapane in "Il fanciullo e l'ombra"), o proiezioni dell'inconscio. Anche quelli che diresti più "personaggi", come la vecchia saggia-rivoluzionaria Odo, sono piuttosto modelli ideali, prodotti del pensiero desiderante. Tanto è vero che ritornano più volte, più o meno simili. Si tratta di simboli, presentati come tali e non risolti nell'immagine. Anche le situazioni sono simboliche, frammenti di un discorso concettuale, dove le immagini sono la componente meno forte. Alcuni modelli si ripetono costantemente: il mito del pre-moderno; il mito della colonia; la vecchia saggia rivoluzionaria libertaria; il padre, maschio-negativo ma umano-amato, e infine respinto; l'amato che muore (vedovanza); l'escursione in luoghi mortalmente impervii; il ritorno a casa. Direi insomma che U. Le Guin appartiene alla categoria di narratori per i quali il romanzo è essenzialmente saggistica, occasione per la messa in scena di un pensiero. Il che non costituisce per nulla un carattere negativo; solo, non corrisponde all'idea che lei stessa si fa della propria opera, secondo quanto risulta dai suoi saggi. Dove è veramente artista lo è, ripeto, piuttosto nella dimensione lirica: una voce che dice di se stessa.
Dicevo di alcuni miti personali di U. Le Guin. Dalla sua opera complessiva, e in termini espliciti dai suoi saggi, risulta pure la sua intenzione di farsi creatrice di miti, non solo nel senso generico dell'invenzione fantastica soggettiva, ma in quello proprio di favole che, dettate dal suo inconscio, siano al tempo stesso espressione dell'inconscio collettivo.
Credo che questo proposito sia mal fondato. Il mito quale creazione dell'inconscio collettivo (secondo la terminologia di Jung, adottata da Le Guin), o quale prodotto della "corpolentissima fantasia" dei "fanciulli del nascente genere umano" (secondo Giambattista Vico) è cosa radicalmente diversa dal prodotto della fantasia individuale nel nostro tempo.
Gli archetipi che agiscono nel nostro inconscio ci vengono dalle radici profonde della nostra cultura, dalla remota antichità e dal medioevo: sono le impronte di una originaria creazione collettiva dei nostri progenitori. Non possono essere sostituiti, ad arbitrio individuale, dagli archetipi e dalla mitologia di altre civiltà, per di più mescolati ecletticamente: indiani d'America, elementi di taoismo, frammenti di culture primitive.

Passato desiderato e sogno futuro
I poeti e i narratori romantici, che come ho accennato sono un punto di riferimento per la lettura di Le Guin, avevano fatto anch'essi una scelta programmatica a proposito della mitologia da adottare.
Il loro luogo d'elezione fu il medioevo, per un complesso di motivi che vanno dal rifiuto del classicismo all'esaltazione della patria tedesca, e che qui non ci interessano. Fu una scelta ideologica, e diede luogo non solo a una rinascita degli studi storici e filologici (peraltro già iniziata nel Settecento) ma, nel campo della creazione artistica e letteraria, anche a molti equivoci; giacché dietro il medioevo convenzionale dei personaggi e delle loro vicende, nelle opere dei romantici, si celava ben altra attualità. È comunque evidente, per restare nell'ambito dei romantici, che c'è una differenza di fondo fra le fiabe dei fratelli Grimm e le novelle di Andersen o di Hoffmann.
Quanto alle fiabe, non sono certo un'evasione "libera" e desiderante dalla realtà quotidiana percepita come avversa. Sono invece strutturate in modi complessi ma anche ripetitivi, la trasposizione fantastica della realtà quotidiana, e anche dei giudizi di senso comune formulati su di essa, la trasposizione immaginifica e mitologica dei costumi e dei giudizi di valore dominanti. Risulta perciò artificiale ricorrere al passato come a un complesso fantastico da contrapporre alla modernità presente, percepita come negativa. Non si può omettere il fatto che il presente si genera dal passato.
Alle spalle di U. Le Guin, autrice americana colta, sta il passato europeo. Ma resta un dato culturale acquisito, per quanto è delle forme storiche concrete che esso ha assunto. È invece originario, autentica componente della personalità, come sostrato profondo. Il presente che prende forma è la attuale realtà americana.
Il risultato è una sottostante permanente angoscia di desiderio irrealizzabile, la nostalgia di qualcosa che le appartiene e che ad un tempo, nelle forme strutturate, le si presenta come pregiudizialmente perduto. Il passato desiderato e irraggiungibile si rappresenta come sogno futuro.
Nel sogno futuro si introducono allora non soltanto gli elementi perduti e irraggiungibili del passato europeo, ma anche gli altri, ugualmente perduti e irraggiungibili, del passato americano anteriore alla conquista dei bianchi.
Tutto questo avviene in modo solo parzialmente cosciente. Tanto che, nei momenti in cui è meno sorretta dalla forza dell'immaginazione e dalla ricchezza del pensiero, l'autrice equivoca, e aggiunge gli ingredienti del passato di altre civiltà, per esempio asiatiche - cosa facilitata dalle sue conoscenze antropologiche. Questi ultimi ingredienti non sono funzionali e la loro presenza eventuale abbassa la forza fantastica e drammatica delle opere.
L'uomo americano, e via via anche l'europeo televisivo-americanizzato, hanno perduto la percezione, sia pure inconscia, del rapporto col passato. Per l'americano o per l'interamente americanizzato, la favola classica allora perde anch'essa significato, o acquista il senso distorto della pura fuga dal reale. A questo punto, egli cerca altre forme di favola. O che esprimano l'evasione fantastica in termini più attuali, lirici, legati all'esperienza dell'individuo; o che reinventino il rapporto immaginazione-realtà che era già stato della favola classica. Ma in quest'ultimo caso, la frustrazione è inerente al tentativo. La favola di questo tipo (modello classico) infatti non può non essere prodotto di una lunga stratificazione, prodotto collettivo e popolare.
Da questa contraddizione deriva, credo, il sentimento profondo di inappagato che sottostà alle opere di U. Le Guin, anche là dove vorrebbero rappresentare una dimensione di felicità o di pace. Giacché non abbiamo la rappresentazione di un bene concepito e mostrato come reale (di una realtà che trascende l'irrealtà e perfino l'impossibilità, grazie al consenso collettivo), bensì il sogno di un individuo. Se la forma artistica realizza il sogno, esso è condivisibile e condiviso da un numero indefinibile di individui separati, quanti sono i suoi lettori. Ma resta scisso dalla comunicazione con gli individui associati, e sostanzialmente disperato.
Il mondo USA percepisce se stesso senza radici e procede alla colonizzazione di un mondo con ricchissime radici - strappandole.
"Ma le nostre radici sono in Europa!", rispondono gli americani colti e liberals. - Lo erano, fino al momento in cui con quello che in essi non è più europeo (le cose si trasformano nel loro contrario, quando si sviluppano oltre un certo limite) - con la loro modernità-bulldozer su qualsiasi passato - si sono accinti a colonizzare l'Europa.