Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 19 nr. 164
maggio 1989


Rivista Anarchica Online

Tagli alla gola
di Carlo Oliva

In una società solidale la malattia del singolo è un male comune, cui la società stessa deve porre rimedio. La logica che sottende l'"operazione ticket " - e in genere la politica sociale del governo - è di segno opposto. Soprattutto per questo i ticket si rivelano odiosi: perché sono un ulteriore colpo al presupposto che la salute è un bene sociale.

In uno dei film che Marco Ferreri realizzò in Spagna alla fine degli anni '50, El cochecito, con Jósé Isbert, il protagonista, un vecchietto abbastanza arzillo e in ottima salute, desiderava disperatamente, per dei motivi, in ultima analisi, piuttosto futili, una motocarrozzella da paraplegico. Quando i famigliari, con ovvia ragionevolezza, gliela negavano, li sterminava in massa.
Era un bel film, d'evidente discendenza búnuelesca, in cui l'allora giovine regista voleva probabilmente far esercizio di surrealismo, avendo imparato dal suo maestro che il surrealismo è un ottimo strumento per affermare molte cose spiacevoli sulla realtà sociale che ci circonda. D'altronde, l'idea base, quella dell'uomo sano che vuole, per un motivo o per l'altro, comportarsi da malato, ha una sua profondità psicologica, risponde a un modello che in qualche modo trova fondamento nelle nostre procedure mentali.
Eppure, non credo si possa negare che quel modello è stato sviluppato con eccessiva consequenzialità dal presidente De Mita, dal ministro Amato e dagli altri membri del patrio governo che hanno presentato l'introduzione dell'odioso balzello del ticket sanitario, giustificandolo come un utile deterrente volto a dissuadere i compatrioti da un eccessivo consumo di medicinali, d'analisi cliniche e di cure ospedaliere. A giudicare da quanto hanno detto e scritto (Amato, specialmente) si direbbe che gli Italiani siano gente strana assai, sempre pronti a rimpinzarsi di farmaci inutili e sofisticati, ghiotti di compresse, endovenose ed enteroclismi, disposti a tutto pur di essere sottoposti, per puro diletto, a scintigrafie, lastre al torace, prelievi, tomografie assiali computerizzate e quanti altri esami la moderna scienza clinica ha escogitato.

Al contrario di Robin Hood
Mah. Se lo dicono loro, avranno ragione. Io, personalmente, non sono un patito né delle analisi né dei medicinali (anche se ormai ho raggiunto un'età in cui capita spesso di ricorrere agli uni e alle altre), ma non è detto che tutti siano come me. Ho qualche dubbio se mai sull'efficacia dissuasoria del provvedimento. In fondo, le medicine, le analisi, i ricoveri non se li assegnano sua sponte i pazienti, ma li prescrivono i medici, che il ticket non lo pagano, anzi, spesso, quando hanno a che fare con un laboratorio d'analisi, qualcosa ci guadagnano. E poi, rischi d'ipocondria a parte, sappiamo tutti che se quando siamo sani, può piacerci comportarci da malati, quando siamo malati, o temiamo davvero di esserlo, siamo disposti a tutto pur di sentirci dire che siamo sani, e se esiste la più lontana speranza che da un controllo di laboratorio o da una verifica ospedaliera esca la confortante certezza che la nostra vita non è in pericolo, allora ci vuol altro che un ticket, pur esoso, per dissuaderci dall'intraprendere quella via.
Il problema, evidentemente, è un altro. Il ticket è una tassa, una di quelle sgradevoli tasse che rientrano nella categoria delle imposte indirette. Diamo pure per scontato (anche se non lo credo) che la sua istituzione fosse indispensabile e necessaria, che ne andasse dell'equilibrio finanziario della nazione. Il fatto è che non si è voluta presentarla come tale.
È ovvio. Tutte le tasse sono antipatiche, e le imposte indirette sono evidentemente inique, perché pesano di più, in proporzione, sui redditi meno elevati, e rappresentano quindi, in sostanza, una tecnica per ridistribuire il reddito togliendo ai poveri, al contrario di Robin Hood, per dare ai ricchi. Questa poi, per il fatto che colpisce le famiglie in un momento psicologicamente difficile, è più odiosa delle altre. Per cui qualche cervellone pensoso della popolarità dei partiti al governo (e delle prossime elezioni) deve aver avuto la brillante trovata di presentare la nuova iniziativa non sotto la voce imposte (che sono, dal punto di vista dello stato, incrementi d'entrata) ma sotto quella dei "tagli di spesa".
Matematicamente, la differenza non è un gran che. Niente assomiglia tanto a una salita quanto una discesa vista dal basso, e viceversa: il ministro Amato, o chi per lui, deve aver pensato che, in definitiva, l'importante era che il governo potesse disporre, non importa se risparmiando sulle spese o incrementando le entrate, di nuovo contante da distribuire ai ceti parassitari, ai gruppi di potere, agli enti inutili, alle aziende sovvenzionate, ai partiti, alle chiese e a tutta quella vasta area di dilapidatori della pubblica ricchezza su cui il regime vigente, al di là delle formule politiche, fonda il proprio consenso.
E parlare di tagli alla spesa, in termini d'immagine, costa ben poco, anzi giova.
Tutti apprezzano i tagli alla spesa pubblica. Dieci anni di esaltazione continua della deregulation e della reagonomics, di thatcherismo rampante e di giacobinismo manageriale hanno ormai prodotto il loro effetto a livello d'ideologia corrente. L'idea che lo stato (la comunità) spenda troppo, che ogni attività d'assistenza sociale si risolva comunque in uno sperpero, che sia, soprattutto, riconducibile a una politica "vecchia", datata, non adeguata ai tempi, ha preso piede. Per cui, viva i tagli e più severi sono meglio è. Rappresentano, ormai, "risanamenti" per definizione.
Se dal livello della propaganda passiamo a quello dell'analisi seria, ci accorgeremo, intanto, che i presunti tagli non sono niente di simile, e che tutto il problema riguarda appunto la redistribuzione del reddito. In altre parole, che un sistema come quello del ticket rappresenta un caso macroscopico di rottura della solidarietà sociale nella difesa di un bene collettivo. E la sua adozione da parte del governo e delle forze politiche che lo sostengono ha il significato di una decisiva presa di posizione ideologica.

Ma la salute è un bene sociale
Di tutto ciò, tuttavia, non sembra importare niente a nessuno, nemmeno a coloro che contro il ticket hanno giustamente protestato e manifestato, usando, però, degli argomenti in genere molto poveri o comunque poco pertinenti. Non serve a molto, in sostanza, protestare perché per la sanità, tra ritenute sullo stipendio e tassa sulla salute, si spende già fin troppo, o perché, con quello che ci fanno pagare, il servizio è pessimo, che sono le due lamentele correnti.
Entrambe queste affermazioni sono, in genere, vere, ma in quanto argomentazioni hanno il difetto di essere, per lo meno, opinabili. Si può sempre ribattere che la spesa individuale e collettiva, nel nostro paese, non è superiore alla media europea, tutt'altro, e che l'efficacia del servizio è, sì, mediamente scarsa, ma va misurata comunque caso per caso e settore per settore. Non vale la pena di perdersi più che tanto in diatribe che finiscono con l'essere futili. Quello che non si può mettere davvero in discussione è il principio per cui tutti devono contribuire alle necessità comuni secondo le loro possibilità. In una società solidale, anche la malattia del singolo è un male comune, cui la collettività ha, non che dovere, interesse di porre rimedio. La lotta contro i vari ticket va condotta in base al presupposto che la salute, come d'altronde l'istruzione, e altri bersagli privilegiati dei tagliatori di spesa pubblica, è un bene sociale.
Evidentemente, alla solidarietà sociale oggi non credono in molti. Ma è proprio questo il sintomo della grave crisi che travaglia, senza che neanche ce ne sia coscienza, questa nostra società degli anni '80. Quando questo valore viene meno, il processo di ricostruzione di un nuovo equilibrio può essere molto difficile e doloroso, traumatico, a volte. E, pensate, la nostra sedicente classe politica, persa nel suo solipsismo, non se n'è ancora accorta. Che gli dei li perdonino tutti.