Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 160
dicembre 1988 - gennaio 1989


Rivista Anarchica Online

S'io fossi israeliano...

Il dibattito svolto sulle pagine di "A" a proposito della questione medio-orientale mi ha sollecitato fin dal primo ottimo intervento ("A" 153) di Gianfranco Bertoli, ma a stimolarmi ulteriormente sono stati gli interventi di Salvo Vaccaro ("A" 150 e 158) e quello di Antonio Donno ("A" 158) che, a mio parere, pongono alcuni problemi che travalicano la specifica questione israelo-palestinese per toccare il cuore di problematiche che molti anarchici sentono oggi come fondamentali e che ruotano attorno alle modalità ed al senso dell'azione anarchica in questo nostro tempo.
Entrando subito nel tema principale del dibattito, devo dire che - anche se, come dice Vaccaro, abbiamo pochi "crediti" da riscuotere fra i protagonisti di quella tragica situazione - non mi pare pura retorica cercare di individuare cosa faremo noi se vivessimo in Israele o in un campo profughi della Cisgiordania o di Gaza.
Personalmente penso che se fossi un ebreo israeliano mi batterei innanzitutto perché Israele continui a vivere autonomamente ed indipendentemente, ma farei obiezione - come stanno facendo molti israeliani - per non andare a combattere nelle zone dove infuria l'Intifada. Sarei quindi, probabilmente, un militante di Shalom Akshaw ("Pace ora", il movimento pacifista israeliano) e, grazie anche alle correnti libertarie presenti nella cultura ebraica, mi batterei per Israele, ma contro l'attuale governo, sostenendo la necessità che anche i Palestinesi abbiano una loro terra in cui gestirsi ed organizzarsi come meglio credono.
Se invece fossi un palestinese di un campo profughi, certamente sosterrei la necessità di una "patria" anche per il mio popolo (che, come tutti i popoli ne ha il diritto "giuridico" e storico) e lotterei contro il governo israeliano e contro il suo esercito repressore.
Cercherei tuttavia, come già fanno alcuni intellettuali palestinesi, di non identificarmi con l'OLP e, soprattutto, di non cadere nella trappola della crociata antiebraica, magari mascherata sotto i paludamenti del pan-arabismo o dell'antisionismo.
In ogni caso, sia che fossi palestinese o ebreo, mi batterei per una coesistenza, nell'autonomia e nella diversità, fra due popoli distinti per storia, cultura, lingua, religione anche se imparentati dal punto di vista etnico. In altre parole concordo con quanto scriveva, su "Il Manifesto" del 9/11/88, Ugo Caffaz: "Se si ha interesse veramente ad una pace giusta in Medio Oriente, dove Israele e palestinesi possano convivere (...), non si può ragionare, oggi men di ieri, in termini di buoni e cattivi. Israele ha diritto ad esistere davvero indipendentemente dal governo che ha e i palestinesi hanno diritto alla loro autodeterminazione indipendentemente dalla politica che attuano e che, ancor più, attueranno quando raggiungeranno la loro autonomia".
Io credo che sia questa la base su cui, poi, si possono fare tutti i discorsi, le precisazioni, i distinguo che si riterranno utili o necessari. Fuori da questa impostazione ci sono solo, comunque li si voglia "giustificare" o mascherare, razzismo, intolleranza,volontà di potenza. Fra l'altro, è proprio partendo da una base come quella tratteggiata da Ugo Cattaz che, io credo, le tendenze libertarie israeliane potranno giocare un ruolo significativo, così come diventerà possibile che correnti libertarie nascano all'interno della cultura araba che sino ad oggi non ne ha espresse (almeno di significative).
Questa lunga premessa mi è parsa oltremodo necessaria soprattutto perché mi pare che, in particolare nell'intervento di Donno, si tendesse a spostare l'accento della questione su altre problematiche che, per quanto giuste e giustificate, non rappresentano il fulcro della questione medio-orientale, il quale è, lo ribadisco ancora una volta, né più né meno quello tratteggiato da Cattaz nel suo ottimo intervento su "Il Manifesto". Chiarito tutto questo vengo ad alcuni problemi che Vaccaro e Donno sollevano nei loro interventi.
Rispetto al primo intervento di Vaccaro, ed in particolare al suo modo di vedere il processo attraverso cui si forma uno stato-nazione, devo dire che (come rileva anche Donno nella sua lettera) mi pare che Vaccaro - che ha davanti agli occhi i processi storici che hanno portato alla formazione degli stati nelle parti del mondo influenzate dalla cultura europea – si faccia paladino di una visione della storia dominata da "leggi" ritenute valide e necessitanti in qualsiasi luogo e qualsiasi tempo.
Io credo invece che quelle che Vaccaro identifica siano solo linee di tendenza che, per quanto importantissime, non possono, e non devono, far dimenticare che la storia non esprime "leggi" ineludibili ma, al massimo, "tendenze" che la volontà umana può modificare nel senso desiderato ("quanto" siano modificabili tali tendenze è sì una questione che in gran parte dipende dalle circostanze storiche).
In secondo luogo, se è vero che il Medio Oriente è una realtà con sue caratteristiche ben precise, è altrettanto vero che essa non è più una situazione del tutto indipendente dal resto del mondo, per cui non è vero che soluzioni valide in altre parti del pianeta siano inapplicabili in quelle terre. Questo significa da un lato che non è del tutto impossibile che non si possano "vantare crediti" libertari anche nei confronti dei palestinesi (come per certi versi è dimostrato dal fatto che "alcuni studenti palestinesi" leggano "A" e sentano il bisogno di scriverle), dall'altro che non è vero che maniere europee di gestire la forza (come è nel caso della diplomazia) siano inapplicabili anche fra quei popoli.
Venendo a quanto scrive Donno, devo dire innanzitutto che, proprio per i motivi detti sopra, concordo con lui nel sottolineare come anche la creazione dello stato d'Israele (dovuta anche all'accordo diplomatico fra le potenze mondiali) sia stata frutto del "processo storico" al pari della creazione degli stati europei; un processo storico che, proprio perché frutto delle vicissitudini umane, è trasformabile dalla volontà umana che può " inventare" e praticare soluzioni e modelli sociali non resi ineluttabili dallo sviluppo storico precedente.
Certo questo, come sottolinea Vaccaro, crea problemi, conflitti, contrapposizioni, ma quale situazione non ne ha? Quale società non li conosce o può eliminarli? Il problema, a mio parere, non è questo, quanto quello di come tali conflitti e contrapposizioni vengono viste, gestite, negate o risolte. Così come il problema non è tanto quello dell'uso della "forza" (che, come sottolineava Stirner già 150 anni fa, è comunque la principale regolatrice delle questioni sociali) quanto di come tale "forza" si esprime, se attraverso le armi ed i conflitti armati o se attraverso contrattazioni, conflitti politici, accordi.
Ma quello circa la nascita di Israele è uno dei pochi punti con cui concordo con Donno. Come mette in luce Vaccaro nel suo secondo intervento, Donno svolge il suo ragionamento a partire da una lettura estremamente ristretta (al punto da essere spesso faziosa) dell'intera questione.
È vero infatti che, come dice Donno, in Medio Oriente si confrontano anche una concezione democratico-liberale dello stato con concezioni autoritarie e/o feudali dello stesso (a questo punto mi si permetta un inciso: per quanto riguarda Israele tale concezione democratico-liberale mi sembra essere messa molto in pericolo dalle leggi repressive che quasi quotidianamente il governo Shamir vara, cui non può non aggiungersi la condanna per come Israele tratta, anche giuridicamente, i palestinesi sottoposti alle sue leggi. Legga Donno - di cui ho molto apprezzato il saggio su Voltairine De Cleyre ne "La sovranità dell'individuo" (ed. Lacaita, 1987) da lui curato - il libro dell'ebreo israeliano David Grossman "Il vento giallo" pubblicato da Mondadori), ma leggere tutta la realtà solo attraverso questo prisma è non solo falsante, ma contraria al buon senso e a quegli stessi presupposti democratico-liberali cui Donno mi pare si richiami.
È certo vero che le idee libertarie hanno più possibilità di attecchire laddove c'è un "tessuto democratico", ma Donno dovrebbe sapere meglio di me che tale "tessuto" non è determinato solo dall'esistenza di uno stato democratico liberale.
Inoltre l'esistenza di uno stato democratico da sola non basta, e non deve bastare (non solo per gli anarchici, ma anche per i liberali conseguenti), per far scegliere tout court, in situazioni ingarbugliate come quella mediorientale, una delle due parti in causa. In situazioni come quella, io credo che vadano tenute in conto altre questioni (come ad es. il diritto, di ogni popolo che si riconosca come tale, ad un territorio in cui vivere come meglio crede) che, fra l'altro, contribuiscono a creare quel "tessuto democratico" al pari dell'esistenza di uno stato democratico-liberale.
Ed è proprio per tutti questi motivi che non concordo con Donno quando dice che gli anarchici dovrebbero "riconsiderare la funzione dello stato storicamente, quasi caso per caso". Certo tale considerazione non va negata o dimenticata, ma proprio perché - come anche Donno dice - "la storia" non ha mai risposto a formule preconfezionate ed ha sempre rotto le gabbie interpretative semplicistiche e schematiche (e perciò estremamente pericolose), non capisco perché dovremmo, noi che partiamo da una valutazione negativa dell'organizzazione statuale (una negazione la cui validità mi pare confermata dalla cronaca di tutti i giorni), abbandonare la nostra spinta antiautoritaria ed appiattirci su soluzioni statuali che, per quanto migliori di quelle totalitarie, non rappresentano ciò che noi vogliamo.
Anzi, è proprio perché la storia non ha risposte alle gabbie preconfezionate che ha senso e valore cercare e praticare soluzioni quanto più possibili libertarie.
Mi pare invece che Donno, nella sua ottica da real politik contraddica lo stesso suo giudizio pragmatico sulla storia e finisca per essere altrettanto ideologico degli ideologismi contro cui si scaglia giustamente.
Detto tutto questo vorrei soffermarmi sull'affermazione di Vaccaro nel suo secondo intervento: "L'ovvia distinzione tra stato democratico e stato totalitario resta per gli anarchici un dato di fatto che non traduciamo affatto in una legittimazione sul piano del valore".
Fino a qualche tempo fa la pensavo anch'io così, ma oggi credo invece (anche in seguito a molti dei dibattiti su tale tema apparsi soprattutto su "A" e "Volontà") che tale giudizio vada in parte corretto e puntualizzato.
Se "valore" è (come recita il "Dizionario di Filosofia" dell'Abbagnano) "ciò che dev'essere oggetto di preferenza o di scelta", allora non possiamo negare un "valore" superiore dello stato democratico-liberale rispetto alle altre forme statuali. In una tale forma di stato alcune delle libertà per cui ci battiamo sono presenti e garantite (anche se in forme embrionali e limitate), così come la maniera di gestire i conflitti sociali è spesso più vicina a quanto vorremmo noi che non quella praticata negli stati autoritari, che reprimono i conflitti quando emergono o in quelli totalitari, in cui l'esistenza di tali conflitti viene addirittura negata.
Tutto questo, se fa di noi dei difensori della democrazia nei confronti dei totalitarismi (com'è accaduto, ad es., durante la lotta al nazismo ed al fascismo), non può e non deve tuttavia significare che ci si debba appiattire su tale attribuzione di valore.
Il dare valore alle democrazie, in altre parole, non significa che dobbiamo rinunciare a quella "ulteriorizzazione rivoluzionaria" che continua ad essere necessaria, se veramente vogliamo rendere pienamente viventi quelle che sono le nostre idee forza.
Anzi, riallacciandomi a quanto si diceva più sopra sulla storia e sulle sue "leggi", io credo che agli anarchici spetti il difficilissimo, ma esaltante compito di operare perché si crei - nei meccanismi sociali e nell'immaginario cui le società e gli individui fanno riferimento - quella mutazione culturale e pratica che, sola, permetterà ad ogni individuo o gruppo di scegliere una "forma" sociale invece di un'altra. Non solo, ma credo che, alla fin fine, nostro compito sia quello di far sì che al limitatissimo numero di forme sociali fra cui oggi si può scegliere, se ne aggiungano infine altre, magari anche contraddittorie fra di loro.
Al contrario dei totalitarismi, che vogliono semplificare il funzionamento delle società e diminuire - fino a ridurlo ad uno - i modelli di organizzazione, noi dobbiamo operare perché l'infinita varietà delle possibilità emerga ed operi.
I modi, i tempi, i movimenti, le lotte attraverso cui tali mutamenti rivoluzionari possono diventare operanti nella realtà sono ciò su cui, io credo, noi anarchici dovremmo oggi più riflettere. Il dibattito sul Medio Oriente mi pare sia stata, e sia, un'ottima occasione per farlo.

Franco Melandri (Forlì)