Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 160
dicembre 1988 - gennaio 1989


Rivista Anarchica Online

Viviamo tutti a Bhopal
di George Bradford

Quattro anni fa, in India, l'incidente ad uno stabilimento chimico dell'Union Carbide: tremila morti, decine di migliaia di invalidi. In questo articolo, scritto "a caldo" dopo quella tragedia, si spiega perché non si è trattato di un incidente, bensì del frutto logico e di un modello di sviluppo chiamato "progresso".

Le ceneri dei roghi funebri di Bhopal (1) sono ancora calde e le fosse comuni sono ancora fresche, ma i media asserviti alle grandi compagnie hanno già cominciato a recitar sermoni in difesa dell'industrialismo e dei suoi innumerevoli orrori. Circa 3.000 persone sono perite per colpa della mortale nube gassosa e oltre 20.000 rimarranno menomate per sempre.
Il gas velenoso, che si è diffuso su un'area di 25 miglia quadrate a sud-est degli stabilimenti della Union Carbide, ha seminato la morte tra gli uomini e gli animali. "Pensavamo che fosse scoppiata una pestilenza" ha raccontato una delle vittime. E lo era, infatti: una pestilenza chimica, una pestilenza industriale.
Ceneri, ceneri, cadono giù!
L'apparato propagandistico del Progresso, della Storia, della "Vita Moderna" ci rassicura: è stato soltanto un terribile, sfortunato " incidente". Del resto, si sa che c'è un prezzo da pagare - per garantirsi uno Standard di Vita più Elevato e un'Esistenza Migliore bisogna pur correre qualche rischio.
Il Wall Street Journal, portavoce della borghesia, ha scritto: "Non bisogna dimenticare che la fabbrica di insetticida della Union Carbide e la popolazione circostante si trovavano dov'erano per forza di cose. L'agricoltura indiana si sta sviluppando, offre migliori condizioni di vita a milioni di contadini, e tutto ciò grazie anche alle moderne tecnologie agricole, che comportano l'uso di insetticidi".
Secondo questo sermone, è indiscutibile e universalmente riconosciuto il fatto che l'India, come qualsiasi altro paese, "ha bisogno della tecnologia. La miseria, come quella che si vede a Calcutta, scomparirà a mano a mano che l'India potrà importare i benefici della rivoluzione industriale e dell'economia di mercato occidentali". Per quanti pericoli ciò possa comportare, "i vantaggi sono superiori ai costi" (13 dicembre 1984).
Una verità almeno il Journal l'ha detta - non v'è dubbio che gli stabilimenti e la popolazione si trovassero ambedue in quel luogo per forza di cose: per le piccole comunità, dalle quali quella gente era stata sradicata, la forza dei rapporti di mercato capitalistici e dell'invasione tecnologica è irresistibile come quella di un uragano. Ma l'autore dell'articolo si è ben guardato dall'osservare che in realtà i paesi come l'India non riescono a importare i benefici del capitalismo industriale, giacché essi devono essere esportati per ripagare i debiti e rimpinguare le casse dei banchieri e degli industriali vampiri che leggono il Wall Street Journal per sapere come vanno i loro investimenti. Agli Indiani toccano soltanto i rischi e l'eventuale scotto da pagare; tanto per loro, come per le masse impoverite che vivono nelle baraccopoli del Terzo Mondo, non esistono rischi, ma soltanto la certezza della fame, delle malattie e delle rappresaglie delle squadre della morte contro chi osa criticare lo stato delle cose.

La rivoluzione verde un incubo
Di fatto, una miseria come quella che si vede a Calcutta è il risultato dell'industrializzazione del Terzo Mondo e della cosiddetta "rivoluzione verde," industriale nell'agricoltura. La rivoluzione verde, che avrebbe dovuto rendere più produttive le agricolture dei paesi "arretrati", ha beneficiato soltanto le banche, le grandi compagnie e le dittature militari che le proteggono. L'introduzione dei fertilizzanti, della tecnologia, degli insetticidi e di un'amministrazione burocratica ha sgretolato economie rurali millenarie fondate sulle colture di sussistenza, creando una classe di agricoltori più abbienti, vincolati alle tecnologie occidentali che consentono di produrre colture commerciali destinate all'esportazione, come il caffè, il cotone e il grano, mentre la maggior parte della popolazione contadina, rovinata dalla concorrenza mercantile capitalista, è stata costretta a emigrare dalle campagne nelle città in continua espansione.
Queste vittime, al pari dei contadini europei di qualche secolo fa, rovinati dalla rivoluzione industriale, sono andate a incrementare l'eterna sottoclasse dei disoccupati e dei sub-occupati, che popola le baraccopoli e lotta per la sopravvivenza ai margini della civiltà, oppure sono diventate carne da macello proletaria nelle varie Bhopal, San Paolo e Giacarta di un mondo in fase di industrializzazione - un processo attuato, come tutte le industrializzazioni della storia, a spese della natura e della popolazione delle campagne. Naturalmente, in qualche caso la produttività alimentare aumenta, ma soltanto in senso quantitativo - alcuni alimenti scompaiono, mentre altri vengono prodotti tutto l'anno, anche per l'esportazione. L'agricoltura di sussistenza, però, viene distrutta. Ne subiscono le conseguenze non soltanto il paesaggio rurale, che comincia a patire per effetto dell'incessante susseguirsi dei raccolti, ma anche la massa della popolazione - i lavoratori della terra e gli abitanti delle brulicanti baraccopoli che crescono intorno agli insediamenti industriali - condannati alla fame dal circolo vizioso dello sfruttamento, mentre il grano viene esportato per acquistare assurdi beni di consumo e armi.
Ma l'economia di sussistenza è anche cultura; distruggendo l'una si distrugge anche l'altra, e la popolazione si trova sempre più intrappolata nel labirinto tecnologico. È l'ideologia del progresso, decantata a gran voce da coloro che hanno qualcosa da nascondere e usata come copertura per giustificare saccheggi e massacri senza precedenti.

L'industrializzazione del Terzo Mondo
Il fenomeno dell'industrializzazione del Terzo Mondo è ben noto a coloro che s'interessano, seppur minimamente, a ciò che accade. I paesi coloniali non sono altro che pattumiere e riserve di manodopera a basso costo per le grandi compagnie capitalistiche, che vi inviano tecnologie obsolete e vi installano impianti per la produzione di prodotti chimici, medicinali e altre sostanze bandite nei paesi sviluppati. La manodopera è a buon mercato, le norme di sicurezza sono scarse o inesistenti e i costi sono ridotti. La formula costi-benefici resta valida, solo che il prezzo viene pagato da altri, dalle vittime della Union Carbide, della Dow Chemical, della Standard Oil.
Le sostanze chimiche che si sono rivelate pericolose e sono state messe al bando negli USA vengono prodotte oltremare - il DDT è l'esempio più noto, ma ve ne sono tantissime altre, come l'insetticida Leptophos, un prodotto non registrato ed esportato dalla Valsicol Corporation in Egitto, dove intorno alla metà degli anni '70 provocò morti e malattie tra i contadini. Altri prodotti vengono semplicemente scaricati nel Terzo Mondo, come il frumento inquinato dal mercurio, esportato dagli Stati Uniti in Iraq nel 1972, che causò la morte di 5.000 persone. Un altro esempio è quello dell'inquinamento selvaggio del lago di Managua, in Nicaragua, a opera di una fabbrica di cloro e soda caustica di proprietà della Pennwalt Corporation e di altri azionisti, che determinò un tasso elevatissimo di avvelenamento da mercurio nelle acque che costituivano la principale fonte di approvvigionamento di pesce degli abitanti di Managua.
Lo stesso ispettore della Union Carbide ha ammesso che gli impianti di Bhopal non erano conformi alle norme di sicurezza statunitensi, e un esperto delle Nazioni Unite per i problemi relativi al comportamento delle aziende internazionali ha dichiarato al New York Times che "numerosi fattori impediscono un adeguato livello di sicurezza industriale" nei paesi del Terzo Mondo. "Sotto questo aspetto, la Union Carbide non si differenzia da tutte le altre aziende chimiche". Secondo il Times, "In una fabbrica di batterie della Union Carbide a Giacarta, in Indonesia, più della metà degli addetti ha subito danni al fegato a causa dell'esposizione a mercurio e in una fabbrica di cemento-amianto (2) della Manville Corporation, a 200 miglia da Bhopal, nel 1981 gli operai lavoravano costantemente in mezzo alla polvere di amianto, una pratica che qui non sarebbe assolutamente tollerata" (12/9/1984).
Ogni anno circa 22.500 persone muoiono per effetto dell'esposizione a insetticidi - e la percentuale delle vittime nei paesi del Terzo Mondo è molto maggiore di quella che ci si aspetterebbe in rapporto all'uso di questi prodotti in quelle regioni. Molti esperti ritengono che la causa principale degli incidenti e delle contaminazioni nei paesi "sottosviluppati" sia la mancanza di una "cultura industriale".
Ma dove questa "cultura industriale" esiste, la situazione è davvero migliore?

Come nei lager
Nei paesi industriali avanzati una "cultura industriale" (e poco più di quella) esiste. Ma ciò è servito a evitare disastri, come gli esperti vorrebbero farci credere?
A dimostrazione del contrario, basterebbe ricordare un evento non meno catastrofico di quello di Bhopal, che causò la morte di circa 4.000 persone in un grande centro abitato. A Londra, per la precisione, dove nel 1952 le "normali" sostanze inquinanti concentratesi per diversi giorni nell'aria stagnante, avvelenarono a morte o causarono danni irreversibili a migliaia di persone.
Ma ci sono stati disastri anche più vicini a noi nel tempo e nello spazio. Ad esempio, quello della fossa di Love Canal (3) (le cui infiltrazioni interessano tuttora il sistema idrico dei Grandi Laghi), o le massicce contaminazioni provocate dalla diossina di Seveso, in Italia, e a Times Creek, nel Missouri (4), per effetto delle quali migliaia di abitanti dovettero abbandonare per sempre le loro case. O ancora la fossa clandestina della Berlin & Farro a Swartz Creek, nel Michigan, dov'erano stati sepolti bidoni contenenti C-56 (un prodotto secondario dell'industria degli insetticidi, altamente inquinante), oltre ad acido cloridrico e cianuro provenienti dalle fabbriche automobilistiche di Flint (5). "Pensano che non siamo scienziati, che non siamo abbastanza istruiti", disse, furente, uno degli abitanti della zona, "ma chiunque abbia frequentato il liceo sa che nei campi di concentramento usavano una miscela di acido cloridrico e cianuro per ammazzare la gente".
Se ne ricava un'immagine davvero impressionante: quella della civiltà industriale come un unico, grande, puzzolente campo di sterminio. Viviamo tutti a Bhopal, alcuni più vicini di altri alle camere a gas e alle fosse comuni, ma tutti abbastanza vicini alle vittime. E quello della Union Carbide, ovviamente, non è stato un caso - tutti i giorni, dappertutto, veleni di ogni sorta vengono immessi nell'aria e nelle acque, riversanti in fiumi, stagni e torrenti, dati in pasto agli animali che poi saranno venduti sul mercato, disseminati su prati, strade e coltivazioni.
I risultati possono anche non essere drammaticamente evidenti, come a Bhopal (che in un certo senso è servito quasi da diversivo, da fattore deterrente, capace di distogliere l'attenzione della realtà pervasiva che Bhopal in realtà rappresenta), ma sono altrettanto letali. Quando l'ABC News ha chiesto a Jason Epstein, docente di sanità pubblica all'Università di Chicago e autore di The Politics of cancer (La politica del cancro), se un disastro come quello di Bhopal avrebbe potuto verificarsi negli USA, questi ha risposto: "In America non avvengono incidenti così clamorosi; quello a cui assistiamo è una lenta - molto più lenta - e graduale dispersione di sostanze nocive, che fanno aumentare i casi di cancro e di anomalie alla nascita".
Di fatto, negli ultimi 25 anni le anomalie alla nascita sono raddoppiate. E i casi di cancro sono in aumento. In un'intervista concessa al Guardian, il professor David Kotelchuck dello Hunter College, commentando le carte del "Cancer Atlas" (Atlante del cancro) pubblicato nel 1975 dal Ministero per la sanità, l'istruzione e l'assistenza sociale, ha detto: "Mostratemi un puntino rosso su queste carte e lì vi indicherò un centro industriale. Sulle carte non vi sono toponimi, ma le concentrazioni industriali si individuano facilmente. Ad esempio, in Pennsylvania sono evidenziate in rosso soltanto Philadelphia, Erie e Pittsburgh. E in West Virginia ci sono solo due macchie rosse, in corrispondenza della Kanawha Valley, dove sorgono stabilimenti di nove industrie chimiche, compreso quelli della Union Carbide, e in corrispondenza della fascia del fiume Ohio. È sempre così, ovunque si guardi".
Negli Stati Uniti ci sono 50.000 discariche di rifiuti tossici. L'ente federale per la protezione dell'ambiente (EPA, Environmental Protection Agency) ammette che il novanta per cento dei 40 milioni di tonnellate di rifiuti tossici prodotti annualmente dalle industrie statunitensi (per il 70% dalle industrie chimiche) viene eliminato in modi "non appropriati" (ma quali modi sarebbero da considerarsi "appropriati?"). Questi prodotti letali della civiltà industriale - arsenico, mercurio, diossina, cianuro e molti altri - vengono semplicemente scaricati, "legalmente" o "illegalmente", dove fa più comodo.
Le industrie utilizzano circa 66.000 composti chimici diversi. Lo scorso anno gli USA hanno prodotto quasi un miliardo di tonnellate di insetticidi e diserbanti, comprendenti 225 sostanze chimiche diverse, e ne hanno importate altre 35 mila tonnellate. Circa il due per cento di queste sostanze sono state sottoposte a test per individuare gli eventuali effetti collaterali. Solo negli Stati Uniti, 15.000 industrie chimiche producono quotidianamente sostanze che seminano la morte tra la popolazione.
Tutti questi rifiuti chimici filtrano nelle acque. Negli Stati uniti, circa tre o quattromila pozzi (il dato cambia a seconda della fonte d'informazione governativa) sono inquinati o chiusi. Soltanto nel Michigan, 24 reti idriche urbane sono da considerarsi contaminate e circa un migliaio di località hanno subito gravi forme di inquinamento. Secondo il Free Press di Detroit, nel "paradiso acquatico" del Michigan "il conto totale dei siti contaminati potrebbe arrivare a 10.000" (15 aprile 1984).
E anche qui, non meno che nel Terzo Mondo, si va avanti a forza di inganni, e dissimulazioni. Basti l'esempio della diossina: nel corso dell'inchiesta sull'Agente Arancione (6) si scoprì che la Dow Chemical aveva sempre mentito circa gli effetti della diossina. Benché le ricerche avessero già provato che la diossina è "altamente tossica", dotata di una "elevatissima capacità di produrre cloracne e danni all'organismo", nel 1965 il più autorevole tossicologo della Dow aveva scritto: "Non stiamo cercando di nascondere i problemi. Ma non vogliamo assolutamente creare situazioni che inducano gli organismi di controllo ad assumere atteggiamenti restrittivi".
Così, a causa dell'uso massiccio dell'Agente Arancione durante il genocidio perpetrato dagli USA, oggi in Vietnam si assiste a una vera e propria epidemia di cancro al fegato e a un'alta diffusione di tumori e altre malattie. I danni subiti dai veterani americani sono un'inezia, al confronto. Ma la recente scoperta della cosiddetta "pioggia diossinica" dimostra che questa micidiale sostanza è diffusa un po' ovunque anche qui, nell'ambiente che ci circonda.

Tornare al villaggio
Quando le autorità indiane e la Union Carbide hanno iniziato il trattamento dei gas residui negli stabilimenti di Bhopal, migliaia degli abitanti della zona sono fuggiti, incuranti delle rassicurazioni del governo. Un vecchio, interpellato da un corrispondente del New York Times, ha detto che la gente "non si fida più di nessuno, né degli scienziati, né del governo. Vuole solo salvare la pelle".
Lo stesso giornalista ha raccontato che un contadino è andato alla stazione ferroviaria trascinandosi appresso tutte le sue capre, "sperando di portarle con sé – ovunque, purché lontano da Bhopal" (14 dicembre 1984). Il vecchio sopra citato gli ha detto anche: "Sono tornati tutti al villaggio". Quando gli Indiani si sentono in pericolo, ha spiegato il giornalista, fanno così: "tornano al villaggio".
Una saggia e antica strategia di sopravvivenza, grazie alla quale le piccole comunità sono sempre riuscite a rinnovarsi quando gli imperi dai piedi d'argilla, nelle età del bronzo, del ferro, dell'oro, andavano in rovina. Ma le economie di sussistenza sono sempre state, e saranno sempre, distrutte, e con esse la cultura. Che fare quando non ci sono villaggi ai quali tornare? Quando viviamo tutti a Bhopal, e Bhopal è ovunque?
Vengono in mente le parole di due profughe, una di Times Creek (7) e una di Bhopal. La prima ha detto del luogo in cui viveva: "Era un bel posto, una volta. Ora dobbiamo sotterrarlo". L'altra ha detto: "La vita non ritorna. Il governo può forse ripagare quelle vite? Potete resuscitare quei morti?".
Gli avidi vampiri delle grandi compagnie hanno saccheggiato, ucciso, sterminato, devastato. E quando verrà il momento in cui dovranno pagare per i crimini commessi contro l'umanità e il mondo naturale, non dobbiamo cedere a sentimentalismi.
Dobbiamo superare tutto questo, tornare a noi stessi: l'economia di sussistenza è stata distrutta, e con essa la cultura. Dobbiamo ritrovare la strada del villaggio, abbandonare la civiltà industriale e questo sistema sterminatore.
Le Union Carbide, i Warren Anderson (8), gli "esperti ottimisti" e i mendaci esegeti della civiltà industriale devono scomparire, ma con essi devono scomparire anche gli insetticidi, i diserbanti, le industrie chimiche e un sistema di vita asservito alla chimica, che non è altro che morte.
Perché questo è Bhopal, ed è tutto ciò che abbiamo. Quello che "era un bel posto, una volta" non deve essere semplicemente sepolto, costringendoci a emigrare altrove. L'impero sta crollando. Dobbiamo tornare al villaggio, o, come dicevano gli indigeni americani, "tornare alla coperta", e dobbiamo farlo non cercando di salvare una civiltà industriale ormai condannata, ma ricostruendo la vita sulle sue rovine. Abbandonare questa vita moderna non significa "darsi per vinti" o votarsi al sacrificio, ma semplicemente scrollarsi di dosso un tremendo fardello. Facciamo presto, prima di restarne schiacciati.

Originariamente pubblicato su Fifth Estate (dicembre 1985), questo saggio è incluso nell'antologia Questioning Technology ("Mettendo in discussione la tecnologia") recentemente pubblicata da Freedom Press (84b Whitechapel High St., Londra El 70X, Regno Unito).
La traduzione e le note sono di Michele Buzzi.


(1) All'inizio di dicembre del 1984, una nube tossica di metilisocianato (un composto chimico usato per la produzione di insetticidi) si è sprigionata dagli stabilimenti dell'industria chimica statunitense Union Carbide alla periferia di Bhopal, un centro industriale di 672.000 abitanti a sud di Nuova Delhi, in India, causando migliaia di vittime tra la popolazione.

(2) Il cemento-amianto è un materiale usato in edilizia per tubature e lastre ondulate.

(3) Nel 1978 a Love Canal, Niagara Falls, N.Y. la pioggia portò allo scoperto una discarica clandestina in cui erano stati interrati bidoni con rifiuti chimici nocivi.

(4) Svista dell'autore. In realtà la località si chiama Times Beach, Missouri. I 2.200 abitanti furono evacuati permanentemente nel 1983. L'ente federale per la protezione dell'ambiente (EPA, Environmental Protection Agency) dovette spendere 33 milioni di dollari per acquisire tutte le loro proprietà (terreni e abitazioni, in pratica l'intera cittadina). L'accesso alla zona è tuttora controllato.

(5) Charles Berlin e il suo socio Farro gestivano un inceneritore di rifiuti che fu chiuso d'autorità perché troppo inquinante. Nei pressi fu scoperta una fossa con circa 33.000 bidoni contenenti rifiuti industriali di ogni sorta che i due soci non avevano avuto il permesso di bruciare.

(6) Un defoliante usato dagli americani durante la guerra in Vietnam. Uno dei componenti era il diserbante 2,4,5-T a base di diossina. Nel 1984 migliaia di veterani americani, che avevano subito gravi danni per effetto dell'esposizione al defoliante, hanno citato in giudizio la Dow Chemical e altre aziende produttrici.

(7) Vedi nota 3.

(8) Warren Anderson era il presidente della Union Carbide all'epoca del disastro.