Rivista Anarchica Online
Un muro di gomma
di Corrado Stajano
"Compresi subito che era
accaduto qualcosa che andava oltre la tragica morte di un uomo. Quella di Pinelli, ancora oggi,
è una morte simbolo: il castello dello Stato, dalle fondamenta
così potenti e robuste, rivelava tutta la sua miseria e
fragilità, ma anche la sua boriosa strafottenza. Quella notte
mi resi conto che...". La testimonianza di
Corrado Stajano.
Corrado Stajano, giornalista e
saggista, collabora con il Corriere
della Sera e con Linus.
Ha seguito con particolare attenzione, fin dal dicembre 1969, le
vicende politico-giudiziarie legate alla strage di Stato. Tra i suoi
libri: Il sovversivo
(un'efficace ricostruzione della vicenda umana e sociale
dell'anarchico Franco Serantini), Africo,
L'Italia nichilista,
Il terremoto (con
Giovanni Russo), Un paese in
tribunale (con Giovanna Borgese).
Per la RAI ha curato numerose
trasmissioni giornalistiche, tra le quali ricordiamo - per l'ampio
spazio dedicato alla vicenda di Pinelli – La
forza della democrazia.
Da tempo segue con particolare attenzione il fenomeno mafioso: in
questo contesto ha curato il volume Mafia,
l'atto di accusa dei giudici di Palermo.
È
difficile da dimenticare, quella notte del 15 dicembre 1969.
L'ospedale, la casa di Pinelli, Licia sulla porta e poi la stanza del
questore Guida. Stava uscendo l'avvocato Malagugini, quando
arrivammo, Camilla Cederna, Giampaolo Pansa ed io.
Aveva una faccia disperata, Malagugini,
sconvolto per le bugie appena ascoltate, fece in tempo a dirci.
Ricordo nitidamente quella conferenza
stampa del questore e quel che chiesi. Qual è stata l'ultima
domanda fatta a Pinelli? Quali sono state le ultime cose dette,
esistono i verbali degli interrogatori? Nessuno rispondeva, né
Guida né gli altri poliziotti, né il tenente dei
carabinieri che erano nella stanza, nessuno mostrava imbarazzo.
Domandai anche se il fermo di Pinelli, che aveva abbondantemente
superato le 48 ore, era stato convalidato dalla magistratura. Il
questore rispose di sì e anche questo non era vero. Poi
seguitò a parlare dell'alibi caduto, un'altra bugia.
Un funzionario, secondo il questore,
aveva rivolto a Pinelli delle contestazioni e lui era sbiancato in
volto: "Il dottor Calabresi aveva allora momentaneamente sospeso
l'interrogatorio per andare a riferire ai superiori. Nella stanza si
stava parlando d'altro, una pausa, quando il Pinelli ebbe uno scatto
improvviso, si gettò verso la finestra socchiusa perché
il locale era pieno di fumo, e si slanciò nel vuoto". Il
suicidio, secondo Guida, era una evidente autoaccusa.
Compresi subito che era accaduto
qualcosa che andava oltre la tragica morte di un uomo. Quella di
Pinelli, ancora oggi, è una morte simbolo: il castello dello
Stato, dalle fondamenta così potenti e robuste, rivelava tutta
la sua miseria e fragilità, ma anche la sua boriosa
strafottenza. Quella notte mi resi conto - non ci voleva molto dopo
avere ascoltato Guida - che si tentava di coprire una vergognosa
verità riguardante anche la strage di piazza Fontana.
Mi dissi: vedremo se questo Stato avrà
il coraggio di riscattarsi, se avrà il coraggio di processare
se stesso secondo il costume di certe grandi democrazie. Ma il
processo è stato grottesco e doloroso e non ha portato a
nulla. E qui bisogna fare un'osservazione. Manca la prova giuridica
del delitto, si dice. Ma la prova politica dell'omicidio di Pinelli
esiste, eccome, e ha un doppio valore.
Perché non è da cercare
solo nella ricerca e nell'interpretazione di chi non ha mai creduto
alla verità ufficiale dei fatti, ma anche nelle parole degli
uomini dello Stato che quella notte si trovarono nella stanza dove
Pinelli entrò vivo e uscì morto.
Se tutto, infatti, fosse avvenuto come
ci è stato raccontato, che bisogno c'era di dir bugie,
continue, ossessive, che bisogno c'era di contraddirsi in modo così
spudorato davanti ai giudici? Ricordo la testimonianza del brigadiere
Panessa - basta rileggerla nel libro di Camilla Cederna - ricordo
quel che disse il presidente del tribunale: "signor Panessa, lei
parla troppo". Sì, aveva detto tutto e il contrario di
tutto, ma non fu ammonito, spinto a dire finalmente la verità,
arrestato in aula, come sarebbe successo a chiunque di noi avesse
detto un decimo delle cose ripetute dal brigadiere. Fu solo tutelato:
parli di meno Panessa.
Sono passati quasi vent'anni e siamo
ancora qui a discutere e questo è un fatto positivo, la
memoria non è mai caduta, Pinelli non è stato
dimenticato.
Con un senso di impotenza, però,
in chi tante volte ha scritto e pronunciato il nome di Pinelli; con
la consapevolezza di battere contro un muro di gomma.
La morte dell'anarchico Pinelli vale un
trattato di scienza della politica per le conoscenze insegnate: mi ha
fatto capire infatti come funzionano i meccanismi del potere che non
è affatto una parola astratta, ma è ben corposa,
invece; mi ha insegnato anche quanta generosità di persone
limpide esista e forza di libertà e di giustizia, al di là
delle idee e degli schieramenti. Vent'anni fa ci furono non pochi
giornalisti che sul caso di piazza Fontana e sulla morte di Pinelli
seppero fare il loro mestiere, con pochi mezzi, spesso contro i
giornali dove scrivevano, nella costernazione degli uomini delle
questure che non sapevano capacitarsi come mai quelle persone che
consideravano naturali alleati fossero passate dall'altra parte.
Scrivevano articoli, inchieste, bollettini, mettevano in discussione
tutto, chiedevano i conti.
La morte di Pinelli ruppe steccati,
schemi, schieramenti, appartenenze, portò a un esame di
coscienza collettivo. Che cosa succederebbe adesso?
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