Rivista Anarchica Online
Televisao imbecillao
di Carlo Oliva
Forse è soltanto
un'impressione personale, o un pio desiderio di chi scrive, ma sembra
proprio che le quotazioni di Renzo Arbore, presso i critici
televisivi e, in generale, sulla stampa italiana, siano in leggero
ribasso. È
un fatto. Persino sui giornali che s'erano dedicati con
maggior zelo alla costruzione del culto, persino sulla Repubblica,
persino sul Manifesto, sono apparse caute prese di distanza.
Da qualche giorno il bollettino di guerra delle imprese dolciarie,
delle agenzie pubblicitarie, delle case di produzione cinematografiche
e delle private personalità che si sono affrettate a
brevettare il marchio di fabbrica del Cacao Meravigliao, in vista di
futuri colossali guadagni, non squilla glorioso su tutti i
settimanali. Non ci sono state nemmeno nuove rivelazioni sul numero
delle volte in cui la valletta ha fatto all'amore con il suo
professore di greco e latino. Non è il caso d'allarmarsi. Ciò
non significa che la popolare trasmissione del popolarissimo artista
non continuerà ad occupare il suo posto nei palinsesti RAI,
per la gioia dei suoi molti milioni di estimatori. Ma significa forse
che s'avvicina il momento in cui sulla grande stampa si parlerà
d'altro, il che, per chi ha ancora l'abitudine di comprare i giornali
e, talvolta, di leggerli, dovrebbe rappresentare un certo sollievo. Togliamoci subito la preoccupazione e
veniamo al dunque. A me, devo confessarlo, le trasmissioni di Arbore
proprio non piacciono. Non mi piacevano né Quelli della
notte né L'altra
domenica. A suo tempo ero andato a vedere Il Papocchio
solo perché speravo di nutrire il mio spirito anticlericale e
lenire un amore infelice per Isabella Rossellini (e da entrambi i
punti di vista ero stato deluso). Persino del mitico Alto
gradimento conservo solo vaghi e non esaltanti ricordi. E tra
tutti questi prodotti, che segnano come pietre miliari i percorsi
lungo i quali le stirpi degli arborefili inseguono il tempo perduto,
trovo particolarmente odiosa, detestabile anzi, proprio l'ultima
incarnazione. Permettetemi di spiegarmi. Non c'è
niente da eccepire sulla professionalità degli artisti e la
scorrevolezza finale di Indietro tutta. Le marcette sono
briose e orecchiabili, le battutacce talvolta fan ridere, i costumi
di scena degli uomini sono spiritosi e quelli delle donne sono
doverosamente succinti (non vorremo mica mandare in scena delle donne
vestite, no? Chi crediamo di essere?). Quanto al livello ideologico
dell'insieme, beh, non è peggiore della media di quanto di
solito passa il convento. Insomma chi apprezza le marcette
brillanti e le battutacce, trova ciò che desidera. Chi trae
una giusta soddisfazione alla vista di belle ragazze poco vestite, -
le negre meno vestite delle bianche, secondo una simpatica tradizione
che credevamo perduta, ma che era davvero ora di ristabilire, - non
ha di che lamentarsi. Chi trova motivo di spasso negli errori di
sintassi altrui, o considera fonte di notevole comicità le
altrui cadenze dialettali, specie se meridionali, trova pane per i
suoi denti. Chi è solito guardare ai suoi simili come
intimamente inferiori e alle sue simili come articoli di
gratificazione visiva, chi è insomma culturalmente
sottosviluppato, razzista e voyeur (e, per implicazione,
cretino) dovrebbe trovarsi del tutto a suo agio. Chi invece non
appartiene a queste categorie, o almeno pensa di (o ambisce a) non
appartenervi, non dovrebbe avere motivi particolari di apprezzare
l'insieme. Quando si esprimono giudizi del
genere, a proposito di prodotti tanto popolari, ci si espone
inevitabilmente alle accuse di snobismo e spocchiosità.
Nessuno sembra disposto a credere che in chi le esprime non è
celata alcuna intenzione di dare del cretino, e tanto meno del
razzista e del voyeur, a tutti i milioni di fedeli spettatori
dello spettacolo di Arbore e soci. Anzi, che una certa qual tendenza
all'indignazione morale che di fronte a questo spettacolo si prova,
deriva proprio dalla convinzione che tra di essi i razzisti, i
cretini e i voyeur siano in infima minoranza, e che ai danni
della maggioranza si perpetri dunque un'autentica truffa.
L'arborefilo medio
Mi spiego. La pretesa in nome della
quale prodotti come Indietro tutta (e parliamo di Indietro
tutta perché ne parlano tutti, ma è chiaro che è
solo un esempio) sono beatificati dai media e assunti ad oggetto di
culto dalle masse, è quella per cui si tratta di prodotti, per
qualche verso, "intelligenti". L'arborefilo medio considera
l'oggetto della sua ammirazione come una specie di status symbol, una
investitura che lo separa dall'universo melenso delle bonaccorti,
delle carrà, dei celentani e dei pippobaudi. Non si può negare che si tratti
di una sensazione rassicurante: chi la prova trae contemporaneamente
conforto dalla solidarietà della massa (a chi non piace quello
spettacolo?) e dalla fiducia d'appartenere a un'élite. E non a
una di quelle élite i cui membri rischiano l'esilio o la
lapidazione, o a cui si accede solo se in possesso di ricchezze
cospicue, quarti di nobiltà o doti intellettuali preclare,
dopo anni di sforzi tenaci. È un raro caso di élite di
cui fanno parte praticamente tutti. Che cosa si può volere di
più? Naturalmente i contenuti sono quello che sono: lustrini,
marcette, battutacce e mutandine ben tese su sederi più o meno
esotici (e non disperate: ancora un paio d'anni e ci faranno vedere
direttamente i sederi). Per cui è utile convenire, tutti
d'accordo, che si tratti di una forma di parodia. Di una parodia tesa
alla denuncia e alla dissacrazione di un modo "altro" di
dare spettacolo e di far mercimonio di sé. Ora, sappiamo tutti che, da quando è
stata inventata la dialettica, la parodia presenta alcuni problemi di
fondo. Nega il suo oggetto, ma contemporaneamente lo riproduce.
Chiunque abbia sperimentato l'esperienza bizzarra di dire qualcosa
per ironia, e di essere preso sul serio - a me è capitato, una
volta, con un libro intero - sa che cosa intendo dire. L'oggetto
parodiato deve essere riconoscibile, se no che parodia sarebbe, ma
stravolto, secondo tutta una serie di procedimenti formali che
suppongo si potrebbero studiare e definire (e sarebbe uno studio
affascinante, anche se di bestiale difficoltà), per segnalare
l'intento critico, se ce ne è uno.
Sudditi cretini
Ecco, l'ipotesi che mi sembra opportuno
proporre alla riflessione comune è quella secondo cui in certi
casi (tra cui quello di cui ci siamo occupati) la negazione è
solo asserita e la riproduzione è assolutamente predominante.
Per cui le marcette non sono denuncia della povertà musicale
della concorrenza, ma prodotti musicalmente poveri; la presenza delle
ragazze coccodé non intende affatto denunciare la pretesa di
chi vuole che le signore abbiano un cervello da gallina, ma asserisce
che tale cervello esse effettivamente hanno; il comico terrone e
ignorante prende davvero in giro i terroni e gli ignoranti; le
battutacce sono battutacce, i sederi sono sederi e lo sponsor è
proprio uno sponsor (e il prodotto relativo finirà per
comparire, in un modo o nell'altro, in commercio). È
solo un'ipotesi, certo. Ma proviamo a pensarci. La posta in gioco è
abbastanza grossa e non riguarda solo la televisione. In tutti, me e
voi compresi, sono latenti parecchie tendenze disdicevoli, comprese
quelle al razzismo e al cretinismo culturale: ce le istillano fin
dalla nascita e non lo fanno certo senza motivo. Non vorrei sembrare
il solito moralista, ma dell'impegno culturale e politico, in fondo,
fa parte anche una certa dose d'autosorveglianza. E quale mezzo migliore per farci
abbassare la guardia che quello di farci credere di dar prova, nel
momento in cui accediamo a certi messaggi, di essere tanto, ma tanto,
intelligenti? Tutto si tiene: si comincia ad adocchiare le ballerine,
a ridere dell'accento pugliese... No: ridere dell'accento altrui non
è mai segno d'intelligenza, neanche quando si è
sollecitati a farlo da chi suscita il riso. E i sudditi cretini sono
quelli che l'accorto governante preferisce.
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