Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 18 nr. 153
marzo 1988


Rivista Anarchica Online

IL '68 TRA RIVOLTA, PROGETTO POLITICO E TRASFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Centro Culturale "L. Mercier Vega"

In vista di un convegno di studi, previsto a Torino in autunno, il Centro Culturale "L. Mercier Vega" organizza un primo incontro il 19-20 marzo. In questo minidossier, una sintesi delle tre relazioni-base.

Il periodo che va dalla seconda metà degli anni '60 alla fine degli anni '70 di cui l'ormai mitico 1968 rappresenta la data simbolica, ha segnato il tentativo di una profonda modificazione culturale, modificazione che in parte, anche se spesso stravolta rispetto ai contenuti originari, si è sedimentata nella nostra società.
Il '68 non è stato solamente l'esplicitazione di un progetto politico rivoluzionario, ma anche una trasformazione dei comportamenti individuali e sociali che ha investito i rapporti interpersonali, la famiglia, la sessualità, l'educazione. Il desiderio di partecipazione e la riscoperta dell'egalitarismo hanno creato lo spazio per una critica al concetto stesso di autorità che è ancor oggi l'aspetto più pregnante e vitale del '68. Tale critica ha permeato di sé l'immaginario sociale in maniera profonda, tanto da riaffermarsi al di là del venir meno dei miti e delle ideologie politiche cui si è ispirato il '68.
Riscoprire la dimensione di trasformazione culturale del '68 può essere oggi un'operazione molto proficua. Fare questo significa però affrontare diversi problemi. Innanzitutto, quali rapporti ci sono stati tra la trasformazione culturale e il progetto politico, che spesso hanno convissuto nelle medesime persone? In qualche misura questi sono stati complementari, oppure si può supporre che il trasportare sul piano esclusivamente politico le tensioni di mutazione culturale espresso dal corpo sociale ha finito per soffocare ed inaridire queste ultime? È legittimo ipotizzare che sia stata la mancanza di una progettualità politica di segno libertario a spingere il movimento a far propria l'unica strada conosciuta, il marxismo, creando il paradosso di una rivolta culturale antiautoritaria che si è mossa sotto il segno di un'ideologia politica autoritaria? Se è corretto parlare per il '68 di trasformazione culturale, quali ne sono state le cause? Si può parlare di un processo di mutazione della cultura, oppure il '68 va letto come un evento, un momento di rottura dell'immaginario sociale che ha provocato la nascita di nuovi immaginari? Il sedimentarsi di alcuni momenti di questa trasformazione culturale va interpretato come un allargamento della sfera della libertà oppure come un'abile manovra di recupero effettuato dal sistema? Come si pone il '68, momento che si presenta come estremamente ideologizzato, con la successiva crisi delle ideologie politiche?
Su queste tematiche il centro culturale "L. Mercier Vega" (Corso Palermo 46, 10152 Torino) organizza due momenti di riflessione: 19/20 marzo, Incontro di studi, presso la sede del Centro, con inizio alle ore 15 di sabato 19. Le relazioni-base saranno svolte da Roberto Ambrosoli (Torino), da Ada Monteverde e Tobia Imperato (Torino) e da Marianne Enckell (Ginevra). Un sunto di queste tre relazioni viene pubblicato qui di seguito. 1-2 ottobre (data indicativa), Convegno di studi.

Il '68 sotterraneo

Esiste un '68 più conosciuto, e quindi riconosciuto anche se variamente interpretato, ed è quello che si è espresso nei cortei e nelle occupazioni, nella contestazione del sistema, nella rivolta più o meno radicale contro le istituzioni vigenti, nelle ambizioni rivoluzionarie di segno marxista o libertario, nel risveglio generale e multiforme di una sensibilità riformatrice. È un '68 politicamente connotato, così come, all'epoca, si è autodefinito, autoproclamato, per bocca dei suoi protagonisti, e che oggi ci viene raccontato dai sopravvissuti, sia pur con qualche adeguamento di circostanza.
Ma esiste anche un '68 sotterraneo, ufficioso, non dichiarato, che ha lasciato scarse tracce di sé nei documenti, e pure non è meno importante del primo al fine di capire il senso di un passato recente che già ci appare irrimediabilmente lontano, perso nell'accidioso presente in cui ci tocca vivere.
Infatti, mentre il '68 "politico" precisava l'ambito della sua ribellione, e perseguiva il suo progetto/sogno di trasformazione della società, un'altra trasformazione aveva luogo, parallela anche se non necessariamente coincidente con quella auspicata, collegata ad essa anche se non sempre "politicamente" coerente con essa, non programmata, inconsapevole e forse in parte accidentale, ma comunque profondamente influenzata dalle scosse del sommovimento in atto. Una trasformazione culturale che ha interessato il costume, le abitudini e la mentalità, i rapporti tra i sessi e più in generale i rapporti umani, il modo di pensare e di pensarsi degli individui. Una trasformazione che non ha sovvertito l'assetto della produzione, né ha indebolito il potere o attenuato la disuguaglianza, e nondimeno ha contribuito, nel bene e nel male, a dar vita ad una società diversa da quella di vent'anni fa, segnata da diversi problemi e diverse tensioni.
Sarebbe esagerato attribuire esclusivamente al '68 la responsabilità di tale trasformazione. Essa si è certamente avviata prima della data fatidica, in conseguenza della "naturale" evoluzione degli Stati industrialmente avanzati. Da questo punto di vista, sembra più corretto sostenere che sia stato il progressivo mutamento culturale a determinare l'esplosione sessantottesca, e non viceversa. Ma è indubitabile che l'esplosione, una volta prodottasi, abbia funzionato da catalizzatore del processo in atto, accelerandolo incredibilmente e dotandolo di imprevista energia propulsiva, fornendo ad esso contenuti, occasioni, pretesti, che ne hanno sconvolto l'iniziale carattere di moderazione, di circospetto adeguamento. Al di là delle intenzioni e delle coloriture ideologiche, il '68 ha posto all'ordine del giorno un'esigenza di svecchiamento della società in cui si sono riconosciute non solo le minoranze che l'hanno interpretata nelle versioni più estremistiche, ma anche ampie porzioni della maggioranza filo-istituzionale, che pur senza propositi eversivi si sono lasciate coinvolgere nella demolizione immaginaria dei vincoli (morali, pedagogici, estetici...) della tradizione. E questa demolizione ha generato un clima di indeterminazione positiva, di disponibilità al nuovo, di "libertà possibile", non tale da mettere in discussione i pilastri dello status quo (come ben si è visto) ma tuttavia sufficiente a indurre nelle persone una condizione psicologica atta a ricercare e sperimentare nuovi modelli culturali di comportamento quotidiano.
Non è questa la sede per descrivere nei dettagli le modificazioni di costume che la diffusione di questo atteggiamento ha provocato, da allora fino ai giorni nostri. Ciò che importa è notare che, mentre il '68 "politico" bruciava le sue ideologie nel tentativo di trasformare per mezzo di esse la società, il '68 sotterraneo insegnava agli individui a liberarsi dal peso dell'eterodeterminazione e faceva intravvedere la possibilità di un'esistenza senza destino, di un'identità non data e come tale accettata, ma scelta, voluta, inventata. Forse è da qui che bisogna partire per rendere meno accidioso il presente in cui ci tocca vivere.

Roberto Ambrosoli

Quel magico sapore

Nel '68 lo spettro della rivoluzione ricompare sulla scena della vecchia Europa ma è solo un fantasma.
Nonostante nessun evento insurrezionale di grande portata sia in atto, avviene la più grande esplosione di spirito rivoluzionario dell'ultimo dopoguerra. Un'esplosione così vasta e generalizzata da causare profondi mutamenti nella vita e nel comportamento di migliaia di giovani.
In quegli anni nelle società tardo-capitaliste il potere si avviava ad una trasformazione radicale dei modelli di vita precedenti (la scolarizzazione di massa, il consumismo, l'invasione dei mass-media). Il movimento del '68 fu una reazione a tutto questo, il canto del cigno delle ideologie rivoluzionarie in un mondo che procedeva verso il crollo totale delle ideologie. Fu un cocktail di nostalgie rivoluzionarie sostenute non più da una classe (il proletariato) ma da una generazione (gli studenti). La gioventù simbolicamente rappresenta il nuovo, il sovversivo, l'anticapitalismo, l'anticonsumismo, la sperimentazione, la rivolta di fronte alla passività, all'acquiescenza, al riformismo, all'imborghesimento delle altre generazioni.
Il '68 colse tutti di sorpresa, sia i partiti storici della sinistra sia i gruppi rivoluzionari (anarchici inclusi); nessuno comprese quello che stava accadendo, nessuno capì che si trattava di una rivolta esistenziale che come tale voleva mettere tutto in discussione (dal modo di vestirsi al come fare l'amore, ai rapporti di produzione), ma tutti cercarono di analizzare il fenomeno secondo la vecchia (d'altronde unica disponibile) concezione della lotta di classe. E quella che era una rivolta antiautoritaria, il rifiuto generalizzato di accettare passivamente il ruolo di produttori/consumatori diventò, nei sogni di alcuni e nei timori di altri, uno scontro di classe.
Allora vennero rispolverate le vecchie teorie marxiste sulla dittatura del proletariato da cui nacquero i diversi miti (Che Guevara, Mao-tse-tung, Ho Chi Min) destinati a crollare miseramente qualche anno più tardi.
E la rivoluzione? Non c'era né nel '68 né nel '77 né dopo. Questo è stato il tragico errore di quegli anni: il non rendersi conto che il tempo delle rivoluzioni era finito. Forse la consapevolezza di non avere nessuna rivoluzione dietro l'angolo e di voler quindi solo incominciare a vivere autonomamente la propria vita ci avrebbe reso più liberi e disincantati, ma tutto ciò non toglie al '68 il suo sapore magico d'avventura forse irripetibile dell'ultima illusione rivoluzionaria.
E così ci siamo ritrovati tutti nelle piazze. Questo era l'aspetto più esaltante, il fare della strada il luogo della politica. Non c'era la rivoluzione, non importa, era dentro di noi e prorompeva possente negli insulti e nelle pietre lanciate ai poliziotti. La rivoluzione era un gioco, ma solo in quel gioco ritrovavamo l'esatta dimensione della nostra esistenza.
Ogni occasione era buona per incontrarsi: lo sciopero, il corteo, l'occupazione, il volantinaggio, il sit-in, l'assemblea, gli scontri con la polizia. Questi non erano solo momenti di lotta politica, erano la nostra vita. In quel periodo non vi era frattura tra personale e politico, perché fare politica significava vivere, e la vita veniva modellata dai principi della politica.
L'esistenza non aveva confini, le case non avevano serrature, si divideva ciò che si aveva in tasca, si dormiva nel sacco a pelo, si rubava nei supermercati, si faceva l'autostop e la sera ci si ritrovava sempre attorno ad un tavolo per discutere. Più importante delle piccole o grandi vittorie politiche fu il tentativo inconsapevole di creare uno stile di vita che ci differenziasse da tutti quelli che non riconoscevano la necessità di un cambiamento rivoluzionario.
In questa dimensione i pavè e le molotov erano realmente una forza d'urto sovversiva non tanto per la portata dei loro obiettivi ma per quello che rappresentavano simbolicamente. Per la prima volta nella storia l'ideale di rivoluzione si universalizzava diventando patrimonio non di una classe ma di tutti.
La rivoluzione non era più l'insurrezione armata, non era l'assalto al palazzo d'inverno ma era il clima generale, era una condizione esistenziale, era uno stato d'animo.
La rivoluzione è morta ma lo spirito rivoluzionario risorgerà dalle sue ceneri, solo se sapremo reinventare dei modelli culturali esistenziali tanto forti da riuscire a mettere in discussione tutti i valori del vecchio mondo.

Tobia Imperato, Ada Monteverde

Eravamo dinosauri, ma...

Che importanza davano i protagonisti al movimento del maggio '68 e cosa resta oggi di tutto ciò? Non si tratta di passare in rivista le varie interpretazioni che le riviste ci trasmettono bensì di esaminare il senso delle parole, dei valori, le referenze trasmessaci.
Nel maggio '68 si giocava senza tregua su due piani: la rivoluzione futura era più importante della mutazione in corso oppure si trattava di cambiare la vita anche se un po' a discapito del progetto rivoluzionario?
Il maggio '68 ha indubbiamente avuto un'importanza "culturale" profonda, un'influenza tellurica sui comportamenti, sui rapporti personali, nei riguardi del sapere e delle istituzioni. Queste mutazioni sono state, per larga parte, integrate ai comportamenti attuali; ciò che vent'anni fa ci sembrava incredibilmente nuovo e osé, sembra assolutamente innocente oggi.
Ma il movimento ha avuto un seguito? Si è allargato? Gli autodenominatisi eredi del '68 ne hanno troppo spesso esaltato un aspetto a scapito di altri, fino a snaturarne i valori: sono i campioni della libera impresa, dell'individualismo egoista della realpolitik. Altri continuano a credere nei valori del maggio - la libertà dello spirito, l'autonomia individuale, l'auto-organizzazione - che sono i fondamenti della vita quotidiana e del militantismo, anche se le parole sono cambiate e i referenti sociali si sono spostati.
Vorrei spiegare tutto questo in particolare, prendendo come esempio il movimento delle donne, nato all'interno della corrente sessantottesca ma anche contro questa: i volantini del maggio parlano di rivoluzione sessuale, ne parlano spessissimo ma non lasciano quasi mai spazio alla voce delle donne. Il movimento delle donne è avanzato, retrocesso, è stato recuperato, integrato... Fin dove e come è riuscito a tradurre e trasmettere i valori e il senso del maggio'68?
Nel maggio '68 eravamo dei dinosauri, ma è anche vero che i colpi inferti al dominio e alla gerarchia sono stati così forti che tutte le speranze anarchiche ne hanno avuto conferma.

Marianne Enckell