Rivista Anarchica Online
IL '68 TRA RIVOLTA, PROGETTO POLITICO
E TRASFORMAZIONE CULTURALE
a cura di Centro Culturale "L. Mercier Vega"
In vista di un convegno di studi,
previsto a Torino in autunno, il Centro Culturale "L. Mercier
Vega" organizza un primo incontro il 19-20 marzo. In questo minidossier, una sintesi
delle tre relazioni-base.
Il periodo che va dalla seconda metà
degli anni '60 alla fine degli anni '70 di cui l'ormai mitico 1968
rappresenta la data simbolica, ha segnato il tentativo di una
profonda modificazione culturale, modificazione che in parte, anche
se spesso stravolta rispetto ai contenuti originari, si è
sedimentata nella nostra società. Il '68 non è stato solamente
l'esplicitazione di un progetto politico rivoluzionario, ma anche una
trasformazione dei comportamenti individuali e sociali che ha
investito i rapporti interpersonali, la famiglia, la sessualità,
l'educazione. Il desiderio di partecipazione e la riscoperta
dell'egalitarismo hanno creato lo spazio per una critica al concetto
stesso di autorità che è ancor oggi l'aspetto più
pregnante e vitale del '68. Tale critica ha permeato di sé
l'immaginario sociale in maniera profonda, tanto da riaffermarsi al
di là del venir meno dei miti e delle ideologie politiche cui
si è ispirato il '68. Riscoprire la dimensione di
trasformazione culturale del '68 può essere oggi un'operazione
molto proficua. Fare questo significa però affrontare diversi
problemi. Innanzitutto, quali rapporti ci sono stati tra la
trasformazione culturale e il progetto politico, che spesso hanno
convissuto nelle medesime persone? In qualche misura questi sono
stati complementari, oppure si può supporre che il trasportare
sul piano esclusivamente politico le tensioni di mutazione culturale
espresso dal corpo sociale ha finito per soffocare ed inaridire
queste ultime? È
legittimo ipotizzare che sia stata la mancanza di una progettualità
politica di segno libertario a spingere il movimento a far propria
l'unica strada conosciuta, il marxismo, creando il paradosso di una
rivolta culturale antiautoritaria che si è mossa sotto il
segno di un'ideologia politica autoritaria? Se è corretto
parlare per il '68 di trasformazione culturale, quali ne sono state
le cause? Si può parlare di un processo di mutazione della
cultura, oppure il '68 va letto come un evento, un momento di rottura
dell'immaginario sociale che ha provocato la nascita di nuovi
immaginari? Il sedimentarsi di alcuni momenti di questa
trasformazione culturale va interpretato come un allargamento della
sfera della libertà oppure come un'abile manovra di recupero
effettuato dal sistema? Come si pone il '68, momento che si presenta
come estremamente ideologizzato, con la successiva crisi delle
ideologie politiche? Su queste tematiche il centro culturale
"L. Mercier Vega" (Corso Palermo 46, 10152 Torino)
organizza due momenti di riflessione: 19/20 marzo, Incontro
di studi, presso la sede del Centro, con inizio alle ore 15 di sabato
19. Le relazioni-base saranno svolte da Roberto Ambrosoli (Torino),
da Ada Monteverde e Tobia Imperato (Torino)
e da Marianne Enckell (Ginevra). Un
sunto di queste tre relazioni viene pubblicato qui di
seguito. 1-2 ottobre (data indicativa), Convegno di
studi.
Il '68 sotterraneo
Esiste un '68 più conosciuto, e
quindi riconosciuto anche se variamente interpretato, ed è
quello che si è espresso nei cortei e nelle occupazioni, nella
contestazione del sistema, nella rivolta più o meno radicale
contro le istituzioni vigenti, nelle ambizioni rivoluzionarie di
segno marxista o libertario, nel risveglio generale e multiforme di
una sensibilità riformatrice. È
un '68 politicamente connotato, così come, all'epoca, si è
autodefinito, autoproclamato, per bocca dei suoi protagonisti, e che
oggi ci viene raccontato dai sopravvissuti, sia pur con qualche
adeguamento di circostanza. Ma esiste anche un '68 sotterraneo,
ufficioso, non dichiarato, che ha lasciato scarse tracce di sé
nei documenti, e pure non è meno importante del primo al fine
di capire il senso di un passato recente che già ci appare
irrimediabilmente lontano, perso nell'accidioso presente in cui ci
tocca vivere. Infatti, mentre il '68 "politico"
precisava l'ambito della sua ribellione, e perseguiva il suo
progetto/sogno di trasformazione della società, un'altra
trasformazione aveva luogo, parallela anche se non necessariamente
coincidente con quella auspicata, collegata ad essa anche se non
sempre "politicamente" coerente con essa, non programmata,
inconsapevole e forse in parte accidentale, ma comunque profondamente
influenzata dalle scosse del sommovimento in atto. Una trasformazione
culturale che ha interessato il costume, le abitudini e la mentalità,
i rapporti tra i sessi e più in generale i rapporti umani, il
modo di pensare e di pensarsi degli individui. Una trasformazione che
non ha sovvertito l'assetto della produzione, né ha indebolito
il potere o attenuato la disuguaglianza, e nondimeno ha contribuito,
nel bene e nel male, a dar vita ad una società diversa da
quella di vent'anni fa, segnata da diversi problemi e diverse
tensioni. Sarebbe esagerato attribuire
esclusivamente al '68 la responsabilità di tale
trasformazione. Essa si è certamente avviata prima della data
fatidica, in conseguenza della "naturale" evoluzione degli
Stati industrialmente avanzati. Da questo punto di vista, sembra più
corretto sostenere che sia stato il progressivo mutamento culturale a
determinare l'esplosione sessantottesca, e non viceversa. Ma è
indubitabile che l'esplosione, una volta prodottasi, abbia funzionato
da catalizzatore del processo in atto, accelerandolo incredibilmente
e dotandolo di imprevista energia propulsiva, fornendo ad esso
contenuti, occasioni, pretesti, che ne hanno sconvolto l'iniziale
carattere di moderazione, di circospetto adeguamento. Al di là
delle intenzioni e delle coloriture ideologiche, il '68 ha posto
all'ordine del giorno un'esigenza di svecchiamento della società
in cui si sono riconosciute non solo le minoranze che l'hanno
interpretata nelle versioni più estremistiche, ma anche ampie
porzioni della maggioranza filo-istituzionale, che pur senza
propositi eversivi si sono lasciate coinvolgere nella demolizione
immaginaria dei vincoli (morali, pedagogici, estetici...) della
tradizione. E questa demolizione ha generato un clima di
indeterminazione positiva, di disponibilità al nuovo, di
"libertà possibile", non tale da mettere in
discussione i pilastri dello status quo (come ben si è
visto) ma tuttavia sufficiente a indurre nelle persone una condizione
psicologica atta a ricercare e sperimentare nuovi modelli culturali
di comportamento quotidiano. Non è questa la sede per
descrivere nei dettagli le modificazioni di costume che la diffusione
di questo atteggiamento ha provocato, da allora fino ai giorni
nostri. Ciò che importa è notare che, mentre il '68
"politico" bruciava le sue ideologie nel tentativo di
trasformare per mezzo di esse la società, il '68 sotterraneo
insegnava agli individui a liberarsi dal peso
dell'eterodeterminazione e faceva intravvedere la possibilità
di un'esistenza senza destino, di un'identità non data e come
tale accettata, ma scelta, voluta, inventata. Forse è da qui
che bisogna partire per rendere meno accidioso il presente in cui ci
tocca vivere.
Roberto Ambrosoli
Quel magico sapore
Nel '68 lo spettro della rivoluzione
ricompare sulla scena della vecchia Europa ma è solo un
fantasma. Nonostante nessun evento
insurrezionale di grande portata sia in atto, avviene la più
grande esplosione di spirito rivoluzionario dell'ultimo dopoguerra.
Un'esplosione così vasta e generalizzata da causare profondi
mutamenti nella vita e nel comportamento di migliaia di giovani. In quegli anni nelle società
tardo-capitaliste il potere si avviava ad una trasformazione radicale
dei modelli di vita precedenti (la scolarizzazione di massa, il
consumismo, l'invasione dei mass-media). Il movimento del '68 fu una
reazione a tutto questo, il canto del cigno delle ideologie
rivoluzionarie in un mondo che procedeva verso il crollo totale delle
ideologie. Fu un cocktail di nostalgie rivoluzionarie sostenute non
più da una classe (il proletariato) ma da una generazione (gli
studenti). La gioventù simbolicamente rappresenta il nuovo, il
sovversivo, l'anticapitalismo, l'anticonsumismo, la sperimentazione,
la rivolta di fronte alla passività, all'acquiescenza, al
riformismo, all'imborghesimento delle altre generazioni. Il '68 colse tutti di sorpresa, sia i
partiti storici della sinistra sia i gruppi rivoluzionari (anarchici
inclusi); nessuno comprese quello che stava accadendo, nessuno capì
che si trattava di una rivolta esistenziale che come tale voleva
mettere tutto in discussione (dal modo di vestirsi al come fare
l'amore, ai rapporti di produzione), ma tutti cercarono di analizzare
il fenomeno secondo la vecchia (d'altronde unica disponibile)
concezione della lotta di classe. E quella che era una rivolta
antiautoritaria, il rifiuto generalizzato di accettare passivamente
il ruolo di produttori/consumatori diventò, nei sogni di
alcuni e nei timori di altri, uno scontro di classe. Allora vennero rispolverate le vecchie
teorie marxiste sulla dittatura del proletariato da cui nacquero i
diversi miti (Che Guevara, Mao-tse-tung, Ho Chi Min) destinati a
crollare miseramente qualche anno più tardi. E la rivoluzione? Non c'era né
nel '68 né nel '77 né dopo. Questo è stato il
tragico errore di quegli anni: il non rendersi conto che il tempo
delle rivoluzioni era finito. Forse la consapevolezza di non avere
nessuna rivoluzione dietro l'angolo e di voler quindi solo
incominciare a vivere autonomamente la propria vita ci avrebbe reso
più liberi e disincantati, ma tutto ciò non toglie al
'68 il suo sapore magico d'avventura forse irripetibile dell'ultima
illusione rivoluzionaria. E così ci siamo ritrovati tutti
nelle piazze. Questo era l'aspetto più esaltante, il fare
della strada il luogo della politica. Non c'era la rivoluzione, non
importa, era dentro di noi e prorompeva possente negli insulti e
nelle pietre lanciate ai poliziotti. La rivoluzione era un gioco, ma
solo in quel gioco ritrovavamo l'esatta dimensione della nostra
esistenza. Ogni occasione era buona per
incontrarsi: lo sciopero, il corteo, l'occupazione, il volantinaggio,
il sit-in, l'assemblea, gli scontri con la polizia. Questi non erano
solo momenti di lotta politica, erano la nostra vita. In quel periodo
non vi era frattura tra personale e politico, perché fare
politica significava vivere, e la vita veniva modellata dai principi
della politica. L'esistenza non aveva confini, le case
non avevano serrature, si divideva ciò che si aveva in tasca,
si dormiva nel sacco a pelo, si rubava nei supermercati, si faceva
l'autostop e la sera ci si ritrovava sempre attorno ad un tavolo per
discutere. Più importante delle piccole o grandi vittorie
politiche fu il tentativo inconsapevole di creare uno stile di vita
che ci differenziasse da tutti quelli che non riconoscevano la
necessità di un cambiamento rivoluzionario. In questa dimensione i pavè e
le molotov erano realmente una forza d'urto sovversiva non tanto
per la portata dei loro obiettivi ma per quello che rappresentavano
simbolicamente. Per la prima volta nella storia l'ideale di
rivoluzione si universalizzava diventando patrimonio non di una
classe ma di tutti. La rivoluzione non era più
l'insurrezione armata, non era l'assalto al palazzo d'inverno ma era
il clima generale, era una condizione esistenziale, era uno stato
d'animo. La rivoluzione è morta ma lo
spirito rivoluzionario risorgerà dalle sue ceneri, solo se
sapremo reinventare dei modelli culturali esistenziali tanto forti da
riuscire a mettere in discussione tutti i valori del vecchio mondo.
Tobia Imperato, Ada Monteverde
Eravamo
dinosauri, ma...
Che importanza davano i protagonisti
al movimento del maggio '68 e cosa resta oggi di tutto ciò?
Non si tratta di passare in rivista le varie interpretazioni che le
riviste ci trasmettono bensì di esaminare il senso delle
parole, dei valori, le referenze trasmessaci.
Nel maggio '68 si giocava senza tregua
su due piani: la rivoluzione futura era più importante della
mutazione in corso oppure si trattava di cambiare la vita anche se un
po' a discapito del progetto rivoluzionario? Il maggio '68 ha indubbiamente avuto
un'importanza "culturale" profonda, un'influenza tellurica
sui comportamenti, sui rapporti personali, nei riguardi del sapere e
delle istituzioni. Queste mutazioni sono state, per larga parte,
integrate ai comportamenti attuali; ciò che vent'anni fa ci
sembrava incredibilmente nuovo e osé, sembra assolutamente
innocente oggi. Ma il movimento ha avuto un seguito?
Si è allargato? Gli autodenominatisi eredi del '68 ne hanno
troppo spesso esaltato un aspetto a scapito di altri, fino a
snaturarne i valori: sono i campioni della libera impresa,
dell'individualismo egoista della realpolitik. Altri continuano a
credere nei valori del maggio - la libertà dello spirito,
l'autonomia individuale, l'auto-organizzazione - che sono i
fondamenti della vita quotidiana e del militantismo, anche se le
parole sono cambiate e i referenti sociali si sono spostati. Vorrei spiegare tutto questo in
particolare, prendendo come esempio il movimento delle donne, nato
all'interno della corrente sessantottesca ma anche contro questa: i
volantini del maggio parlano di rivoluzione sessuale, ne parlano
spessissimo ma non lasciano quasi mai spazio alla voce delle donne.
Il movimento delle donne è avanzato, retrocesso, è
stato recuperato, integrato... Fin dove e come è riuscito a
tradurre e trasmettere i valori e il senso del maggio'68? Nel maggio '68 eravamo dei dinosauri,
ma è anche vero che i colpi inferti al dominio e alla
gerarchia sono stati così forti che tutte le speranze
anarchiche ne hanno avuto conferma.
Marianne Enckell
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