Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 145
aprile 1987


Rivista Anarchica Online

Ma quale pazzia?
di Giuseppe Bucalo

Alla base di qualsiasi impostazione psicologica o psichiatrica c'è la convinzione che ci siano persone che "meglio", "per" e "su" di noi sanno quel che siamo, sentiamo, vogliamo. L'alternativa è una "nuova mente", che nasca da una prassi di condivisione della follia. In altre parole, l'azione diretta.

Iniziare a svolgere una matassa non è cosa facile, ma è necessario se vogliamo seguire il filo di un discorso e uscire da labirinto in cui inevitabilmente entreremo, poiché la psichiatria è parte di una complessità di rapporti che regolano gli scambi fra chi ha e chi non ha, chi può e chi non può, chi sa e chi non sa, chi è e chi non è.
Ciò che intendo fare è semplice: dimostrare l'inutilità e l'assurdità di ogni teoria e pratica psichiatrica. È una verità semplice ed elementare, come è semplice ed elementare che lo specchio deformante del luna-park non ci ingrassa, né ci allunga nella realtà. Ma sarei semplicista se proponessi di abolire gli specchi deformanti senza tenere conto delle esigenze che le persone esprimono nello specchiarvisi. Lo stesso avviene per la psichiatria: il suo rifiuto non può passare se non si analizzano le basi della sua legittimazione sociale.
Per liberarsi dalla necessità della psichiatria non occorre una antipsichiatria o una improbabile psichiatria alternativa, ma poche ed elementari verità pratiche, una pratica nella/della complessità, una politica della differenza.
Confesso che è duro per chi ha visto, come me, la barbarie psichiatrica agire senza limiti e senza coscienza, etica, umanità, evitare di arrivare subito al punto e distruggere con quanta forza si ha in corpo i muri teorici e pratici che essa ha saputo creare, lanciando slogan e parole di fuoco per incendiare e radere al suolo oltre un secolo di storia. Se mi trattengo dal sommergere il lettore con tutta la rabbia che ho accumulato (e che è infinitesima rispetto a quella accumulata da ciascun folle internato dentro o fuori il proprio corpo), è perché stare davanti ad un foglio bianco è sicuramente diverso dal trovarsi di fronte uno psichiatra nell'esercizio delle sue funzioni (inquadramento, sezionamento, controllo ed eliminazione); ma soprattutto perché penso che la mia rabbia potrebbe coinvolgere direttamente e concretamente solo quei pochi lettori che hanno avuto l'occasione o la sfortuna di incappare nel circuito psichiatrico, come spettatori, carnefici o vittime.
E questo dà anche il senso dell'urgenza di quello che sto scrivendo (e tento di fare): il mondo dell'assistenza/distruzione psichiatrica ci è del tutto estraneo, sfugge al nostro controllo, opera incondizionatamente.
A mio avviso l'esperienza è l'unica forza attiva che ci unisce, e per questo ci può anche dividere. Le verità elementari sono quelle di ogni giorno, quelle che possono essere sperimentate da tutti, che hanno un impatto pratico immediato nella nostra esistenza. Il compito storico di ogni psichiatria/psicologia è stato quello di impedire l'esperienza di queste verità, sbarrando la possibilità di una esperienza della follia e coi folli.
A mio avviso la lotta contro la psichiatria ha utilizzato troppo spesso la logica psichiatrica degli opposti: la psichiatria ufficiale descrive il folle come incapace di intendere e di volere, l'antipsichiatria le fa eco affermando che egli è invece cosciente di sé e della violenza subita; la psichiatria ufficiale definisce il folle come un "homo natura", una bestia pericolosa, l'antipsichiatria invece ne fa l'annunciatore del vero, il cristo, l'ideale. Paradossalmente sul filo dei contrari non si esce dall'invalidazione e dalla negazione del folle: con la psichiatria abbiamo la violenza, l'esclusione, la repressione, ma con l'antipsichiatria spesso arriviamo all'indifferenza. Ciò che occorre è invece puro e semplice interesse umano, quotidiano e pratico.
Ho conosciuto tantissime persone, fuori e dentro il manicomio, interessati alla follia mentre è dei folli che ci si dovrebbe e potrebbe interessare. Anche fra i lettori ci saranno quelli che stanno scorrendo l'articolo per vedere delle verità ortodosse, coerenti, sicure, anarchiche, per trovare delle risposte a questioni esistenziali e politiche scottanti. Questo tipo di interesse può gratificare (o no) l'autore ma non cambia niente nell'assetto del reale. L'interesse umano diretto, il coinvolgimento, la condivisione, la ricerca di modi nuovi di convivenza, del resto, non possono nascere dalla lettura di un articolo o di un libro.
Nella mia esperienza l'interesse nasce sempre nella/dalla pratica, è interesse specifico per persone in carne ed ossa, con una storia, modi di parlare, di delirare, di vedere, di sorridere, di sperare o di disperare. Non ci si può interessare al "folle" (come categoria) né tantomeno alla "malattia mentale", non c'è interesse genuino che nasca da un'idea astratta e unilaterale. Non mi interessano i "pazzi" mi interessano Mario con il suo dio, Antonio coi suoi passettini, Anna col suo corpo martoriato, Pippo con la sua paura di perdermi e perderci; mi interessa che loro siano interessati a me, al mio modo di perdermi dietro alle parole credendo ancora che serva parlare, esprimersi, comunicare.
Quello che intendo fare è aiutare il lettore (e farmi aiutare da lui) ad attivare e rendere possibile una esperienza coi folli. Non so, né posso, dire che tipo di esperienza, conoscenza, coscienza porterà per ciascuno incontrarsi o scontrarsi con Mario, con Anna, con Antonio e gli altri: a me interessa renderlo possibile poiché questo significa presa in carico dei problemi, significa ritiro della delega ai tecnici, significa autogestione del disagio, significa trasformare la nostra vita, incidere sul reale, realizzare l'unica rivoluzione che vale: quella che si attua "fra" e "con" le persone per la gioia, la vita, l'affettività, il futuro.
"Non c'è niente di peggio del manicomio" mi confessa Pippo. "Qualcosa c'è" aggiungo "la psichiatria!".
Il manicomio è dal mio punto di vista solo una realizzazione storicamente determinata di un' impostazione teorico-ideologica di fondo implicita in ogni psichiatria/psicologia: che ci siano, cioè persone che "meglio", "per" e "su" di noi sanno quello che siamo, sentiamo, vogliamo, speriamo o disperiamo; persone che possano, sulla base di questa scienza, decidere del nostro futuro e della nostra vita passata e presente.
Ci sono stati senz'altro profondi sconvolgimenti teorici e pratici nell'orizzonte psichiatrico, ma il tutto nel segno di una continuità che, raramente e minoritariamente, ha messo in discussione l'esistenza stessa della psichiatria (oltre che della "malattia mentale") come scienza della mente e della sua "cura".
Chiudendo il manicomio non si è fatto altro che chiudere uno degli infiniti luoghi (forse il più eclatante) in cui il folle può essere rinchiuso e distrutto dalla psichiatria. In primis c'è la "malattia" ad imprigionarlo, tutto ciò che fa, dice, pensa è il risultato delle alterazioni del suo cervello; non c'è modo attraverso il quale egli possa convincere chi gli sta intorno dell'esattezza delle sue osservazioni, della verità delle sue sensazioni ed emozioni. Il folle resta imprigionato nelle immagini stereotipate date dalla tradizione popolare o dai libri di testo psichiatrici (o antipsichiatrici), tutta la sua comunicazione viene alterata e fraintesa: egli è interamente assorbito dal suo stigma.
La psichiatria imprigiona il folle nello spazio angusto del suo corpo, immobilizzandolo coi legacci chimici delle terapie farmacologiche: il folle il manicomio se lo porta dietro, un manicomio privato fatto di piccole e grosse violenze, di grandi aspettative e abissali delusioni, di cose e persone che non si sono mai avute, di illusioni che non si sono mai potute realizzare. Il manicomio è il cerchio, la gabbia, i muri che gli psichiatri hanno disegnato e costruito intorno all'evento della follia, lo specchio deformante che hanno posto fra noi e i folli, così da tranciare tutti i nessi che legano la follia al sistema dei rapporti sociali, alla ovvietà della divisione del potere e dell'essere.
La follia non è un evento eccezionale o patologico. È piuttosto una esperienza di vita comprensibile solo a partire dal punto di vista del soggetto che la vive. È la psichiatria a creare una peculiarità della follia (che chiama "malattia mentale") per creare una peculiarità di rapporto e di cura che contraddistingue lo psichiatra, il terapeuta, da un qualsiasi altro individuo. L'ipotesi psichiatrico-psicologica alla fin fine è uguale per tutte le teorie, gli indirizzi, le correnti di pensiero: che l'individuo sia incapace di intendere la propria esperienza e di volere, quindi, un cambiamento necessario della sua condotta e della sua mente, per cui lo psichiatra-terapeuta deve spiegargli la sua malattia, convincerlo della necessità di un cambiamento e indirizzare il suo volere verso situazioni e condizioni socialmente accettabili.
La pratica psichiatrica è così sempre tesa a rendere oggetto ciò che non può essere oggettivato, a rinchiudere in un luogo ciò che è di tutti, a riportare nella norma ciò che è fuori dalla norma. Se la follia è differenza irriducibile e qualitativa, allora la psichiatria non è che indifferenza quantitativa e massificante.
Certo se per noi la follia fosse una "malattia" del cervello, allora niente potrebbe essere messo in discussione: la psichiatria è la cura di quella malattia. Ma se bazzicando un po' in giro, con la voglia e il tempo di approfondire i propri e altrui vissuti, ci sorge il dubbio, prima incerto, poi sempre più articolato, che questa famosa "malattia mentale" sia in realtà una truffa, allora ci risulterà chiaro che lo psichiatra è solo un "medico immaginario" di una patologia "immaginifica".
Affermare che qualcuno ha dei "disturbi psichici" significa che i suoi problemi si riferiscono alla sua "mente", ad essa soltanto, ad un suo modo errato di vedere e leggere la realtà. Trattare un individuo come se abbia dei "disturbi psichici" vuol dire renderlo incapace di intendere e di volere, significa chiuderlo nella sua follia e la follia in lui, gettando via la chiave, lontano dal suo sguardo e dalla possibilità di trovarla. Dalla follia non si esce per il semplice fatto che essa è l'esistenza che ci hanno costruito intorno, l'unica esistenza/esperienza possibile. È un circolo vizioso in cui la psichiatria crea l'oggetto della sua ricerca e attività, producendo la follia con le sue tecniche di negazione, di distruzione, di disconferma, di incomprensione, di arbitrio, in un continuum oppressivo in cui il folle e la sua esperienza vengono sistematicamente scacciati e schiacciati da una normalità "obbligatoria" e "inumana".

Nella "casa" della psichiatria
Il folle non è incomprensibile per una "malattia" che altera le sue funzioni cerebrali, ma piuttosto perché noi non vogliamo (o possiamo) comprenderlo. Così come appare a molti impossibile comprendere parole come autogestione, intimità, parità e uguaglianza delle possibilità, libertà, autonomia... Realtà che noi rivendichiamo e per cui ci battiamo e che il folle rivendica e per cui si batte. Arturo che dice che quel tronco all'interno del manicomio è un'isola, la "sua" isola; Giacomo che dopo l'ennesimo rifiuto da parte della sorella di poter vivere fuori dal manicomio la accoltella; Antonio che finisce in manicomio per aver bastonato sua madre da cui non si è mai sentito voluto e amato, quella stessa che, ventenne, gli ha fatto ottenere una pensione di invalidità che gli precluderà il lavoro e quindi l'autonomia futura; Francesco che mi racconta di come lo ricoveravano in manicomio quando tentava di evitare le cure (insulinoterapia, elettroshock...) e scappava; tutti lottano disperatamente per un cambiamento nel loro contesto di vita. La psichiatria e le persone, al contrario, lottano contro di loro.
È così che si resta pazzi per tutta la vita. Le esperienze del folle vengono distrutte una per una, pezzo per pezzo: così egli si ritirerà fino a chiudere qualsiasi possibilità di rapporto col mondo, praticamente morto, polverizzato, scomparso dalla scena della vita. Per questo il folle che si agita e grida, e vede e delira, non deve spaventarci o impressionarci, egli sta lanciando la cima della sua comunicazione, la possibilità di comprenderlo, i termini della sua esperienza.
Allora non ci può essere alcuna "psichiatria" che tenga (ufficiale o alternativa), alcun punto di vista obbligato, alcun vocabolario standard, alcun quadro sintomatico, alcuna malattia. Occorre piuttosto una alternativa pratica di rapporto e di partecipazione, ove si dimostri l'inutilità di una schiera di specialisti in relazioni umane competenti per i piccoli e grossi nodi che si formano nella trama delle nostre relazioni sociali. Del resto solo chi fa parte del problema prenderà parte nella soluzione. Lo sforzo deve essere quindi individuare in che modo noi c'entriamo nella follia dell'altro, piuttosto che sforzarci di entrarci e di curare.
Con questo non voglio sminuire l'intelligente e proficuo apporto dato da personaggi come Basaglia, non solo all'apertura dei manicomi, ma anche a quanto oggi ho la possibilità di dire e di sperimentare e fare; ma occorre, a mio avviso, portare a compimento e alle sue conseguenze un discorso che sembra invece essersi arrestato con l'approvazione della riforma, anche a prezzo di distruggere qualche "mito".
Chi, come me, ha seguito o ha letto il lungo travaglio che dalle prime sperimentazioni ha portato alla legge 180 con cui si è posto fine, almeno nella forma, all'esperienza manicomiale, avrà avuto la netta sensazione che, con il manicomio, si sgretolasse pezzo per pezzo anche un'impostazione culturale che aveva sempre visto la follia come il negativo della normalità, come una malattia da opporre alla salute, come un evento da curare, da reintegrare, da socializzare. Insomma sembrava che la lotta fosse per togliere legittimità ad un sistema di rapporti che produceva la follia, per poi diagnosticarla come patologia del cervello di quell'individuo, obbligandolo a seguire una cura che altro non era che una via di espiazione e di pena. Parole d'ordine erano "ridare soggettività al folle", il che significa ridargli il controllo della propria esistenza e confrontarci con lui senza gli alibi del delirio, dell'allucinazione, della incomprensibilità, dell'incapacità di intendere e di volere.
Si dimostrava giorno dopo giorno, nella quotidianità che il rapporto col folle era possibile solo se reciproco, paritario, affettivo, significativo, legato all'esperienza comune dei problemi e della vita. Pezzo dopo pezzo cadeva la costruzione della psichiatria manicomiale e della pratica sociale che l'aveva voluta e alimentata. Ma con essa cadeva anche qualsiasi possibilità di dire l'ultima parola sulla follia, qualsiasi possibilità aprioristica di definirla, trattarla, curarla secondo schemi e metodi dati, secondo una scienza, secondo delle tecniche, in servizi pubblici più o meno aperti, con professionalità più o meno alternative.
Il confronto era nella pratica quotidiana fra modi differenti di essere e di esistere che nascevano da una storia comune di oppressione, di silenzi,di non affettività, di isolamento e di solitudine, ma anche dalla voglia di dire, di fare, di cambiare. Distruggendo i manicomi si intendeva distruggere i "luoghi" comuni e separati in cui si era rinchiusa la follia, si ritornava allo spazio aperto, uomini fra uomini, senza giudizi dati prima, senza che la ragione fosse sempre e necessariamente da una parte sola, senza che ci fossero più neanche le parti, le contrapposizioni, l'indifferenza: si delineava infatti un progetto comune.
Si apriva una grande occasione, quella di legare le sorti delle norme sociali alla vita e alle sofferenze concrete delle persone; facendo a meno di una Normalità assurta a norma si faceva a meno della psichiatria. Tolta di mezzo ogni mediazione e giustificazione razionale ci si trovava di fronte alla follia e al folle, di fronte all'irriducibilità della sua esperienza. La psichiatria aveva esaurito il suo corso, quella che andava sotto il nome di psichiatria alternativa o di antipsichiatria non era altro che una serie di indicazioni operative estese, praticabili a livello allargato da tutti, così come la conoscenza e la comprensione della follia diventava patrimonio comune, da conquistare nella vita fuori dalle sedi di informazioni, dalle università, dai servizi psichiatrici.
La psichiatria alternativa appariva come una tappa intermedia, un modo di gestire l'esistente fino alla sua scomparsa, sperimentando e costruendo una nuova cultura e una nuova prassi sociale. Del resto si poteva chiedere agli psichiatri di criticare la loro formazione, di cancellare la loro storia, di socializzare il loro potere, ma non di cancellarsi, di auto-annullarsi all'interno del contesto sociale, diventare uno di noi, partecipare in orizzontale a ciò che ci stava accadendo.
L'alternativa alla psichiatria è lo svolgersi storico di questo processo, l'azzeramento del potere dei tecnici e l'assunzione estesa, orizzontale, paritaria, della nostra quotidianità. Questa alternativa non può essere realizzata da psichiatri, ma deve essere una presa in carico collettiva e individuale di come e perché esistere in questo mondo e tempo attuali.
Con il rifluire dell'onda contestataria, gli psichiatri alternativi da semplici gestori del transeunte si sono trasformati negli psichiatri ufficiali, scontrandosi direttamente con le questioni dell'isolamento sociale e dell'esercizio del potere, vittime di una delega assoluta da parte del corpo sociale nelle questioni di "follia". Mentre la vecchia psichiatria genetica, biologica, manicomiale ha ripreso quota, rispolverando le vecchie teorie di spiegazione e gestione della "malattia mentale" che sono tanto care ai potenti.
La follia è ritornata nella "casa" della psichiatria, forse solo perché non ne era mai uscita.

Potere ed essere
Il nodo che sta alla base della psichiatria risiede nel significato che il Potere acquista nel contesto in cui viviamo. Il rifiuto della psichiatria non è altro che rifiuto di questo Potere (del Potere di decidere della vita altrui, degli altrui sentimenti, dell'altrui futuro).
Tutto questo è ovvio e se non lo sperimentassimo quotidianamente ci potrebbe sembrare inverosimile. Ma il Potere non è solo questo e sarebbe un errore misconoscere la sua dimensione più profonda. Troppo spesso confondiamo il Potere con l'esercizio di Potere, come se tutto il Potere fosse quello esercitato dallo Stato o dalle sue istituzioni. Certo affrontare il problema da questa angolazione è necessario, ma non è esaustivo del problema. Il problema del Potere non è quello dello Stato, o non solo, c'è qualcosa di più essenziale e che nell'indagine macro-sociale ci sfugge.
Prendiamo il caso dello psichiatra. Egli esercita un potere poiché è un tecnico che conosce ed è competente in un determinato ambito di problemi, perché appartiene all'istituzione pubblica, perché ha un ruolo gerarchico all'interno dell'organizzazione dei servizi, perché la psichiatria stessa è un'istituzione dello stato per rispondere ad un malessere diffuso. Tutto questo è molto ma non è tutto e, a volte, non è neppure abbastanza per comprendere appieno il potere dello psichiatra. Il suo vero potere non sta negli psicofarmaci o nell'avere a disposizione una serie di leggi, strutture e personale per rinchiudere ed isolare la "malattia mentale": il suo Potere è poter essere.
In questo senso la psichiatria dà un potere aggiunto allo psichiatra che lo assume in quanto sano e normale, in quanto può essere uno psichiatra. Questo unisce e lega lo psichiatra a ciascuno di noi: io posso essere un anarchico, tu puoi essere un direttore d'orchestra etc. Il folle non può essere che folle. (Non dimentichiamoci che le basi di ciò che oggi chiamiamo razionalità stanno in quell'affermazione cartesiana per cui sono in quanto penso, da cui il folle non è in quanto non ragiona).
Tutti quindi, per esistere come soggetti, esercitiamo un potere, pratichiamo una possibilità di esistenza che ci è data o che ci conquistiamo, influenziamo e veniamo influenzati da altri, trasformiamo e veniamo trasformati, subiamo il fascino e affasciniamo, determiniamo con la nostra esistenza e il nostro affetto la vita altrui e gli altri determinano e costruiscono la nostra vita. Poter essere vuol dire avere la possibilità di un rapporto, avere i mezzi e gli strumenti per farsi ascoltare, per comunicare i nostri sentimenti, per fare innamorare di noi le persone, per poter soddisfare i nostri e gli altrui bisogni, le nostre e le altrui aspettative. Poter essere significa essere in condizione di dirigere la propria vita anche nel momento in cui le nostre scelte mettono in crisi un contesto umano come quello familiare, poter affrontare il dolore o il risentimento dei propri genitori, poter continuare anche se non ci si è sentiti voluti, anche se si pensa di non aver mai avuto il diritto di esistere. Poter essere vuol dire comprendere il senso e la direzione della propria esistenza, anche quando questa è costretta lungo i binari di una normalità inumana, poterla sempre chiamare e sentire come la "mia" esistenza. Poter essere è potere scrivere, esporsi, comunicare senza aver paura di un rifiuto, senza sentirsi frantumare, andare a pezzi o soffocare nel momento in cui qualcuno inavvertitamente entra nella nostra vita, alla fermata del metrò, nei marciapiedi o nei locali pubblici.
Essere sani e normali significa essere. Ma non si è se non si può. Sanità e potere si inseguono, si originano a vicenda. Chi ha potere è sano. Chi è sano ha potere. Così il folle non perde il proprio potere nel momento in cui è diagnosticato, l'ha perso già prima (se l'ha mai avuto). La diagnosi non fa che sancire questa perdita e l'annessione al Potere Pubblico.
Il potere è, da questo punto di vista, un fatto tutto umano e positivo. Non è il Potere (con la maiuscola) immodificabile e super-individuale dello Stato, ma la possibilità di esistere come individui, come persone fra persone: del primo potremmo benissimo fare a meno, del secondo per farlo dovremmo essere (per l'appunto) pazzi. Così è anche nel caso della psichiatria: potremmo benissimo farne a meno, ma non dell'uomo che dobbiamo recuperare all'esistenza e al rapporto paritario e orizzontale. Il Potere dello Stato è massificante e impersonale, è un processo che soggioga l'umano, in cui le persone (anche quelle che lo esercitano) sono pedine di una partita a scacchi che si gioca secondo leggi e regole date, immutabili, inumane.
Il potere d'esistere invece passa fra le persone, è qui che ciascuno di noi deve conquistarsi un suo spazio e un suo significato, deve costruire la sua storia, deve mostrare e dimostrare compresenza, affetto, disponibilità; è qui che deve verificarsi continuamente non potendo dare il suo "potere" per scontato, per acquisito; è qui che per avere deve dare e trovare sintesi irrinunciabili, norme che soddisfino l'esigenza di verità e di autonomia propria di ciascuno.
Una delle ragioni più immediate su cui si basa la necessità di un'alternativa alla psichiatria è che essa è inadeguata a dare risposte umane e comprensibili ad un'esperienza così intima e complessa qual è la follia. A nulla vale aver formulato l'ipotesi di una "malattia mentale" come causa e forma della follia, poiché questa ipotesi non sta in piedi, se non in quanto fornisce una serie di risposte valide per l'ordine sociale e familiare minacciato dalla follia.
Cominciamo col dire che la "malattia mentale" è una ipotesi indimostrata. In quanto tale essa non è reale, né può essere trattata come se esistesse. Seguendo la stessa logica "scientifica" dei fautori di questa teoria, possiamo affermare senza tema di smentita che è totalmente illogico costruire su una "malattia ipotetica" tutto un insieme di dottrine, di teorie, di diagnosi e di prognosi, di servizi, di personale, di psicofarmaci e psico-tecniche. Il folle, per lo psichiatra, è un oggetto di studio che può coi suoi comportamenti confermare o meno le sue teorie, una cavia su cui si sperimentano terapie senza sapere, anche dopo anni di applicazione, in che cosa consista la loro azione o il loro beneficio (vedi il caso dell'elettroshock, ancora praticato in diverse cliniche psichiatriche nostrane e d'oltreoceano).
Eppure l'ipotesi di una "malattia mentale" quale causa della follia, pur se aprioristica e indimostrata al pari di altre teorie pre-scientifiche o mistiche, si è diffusa rapidamente assumendo la conformazione di una realtà di fatto, accettata e ovvia per tutti. Di fatto la "malattia mentale" mette d'accordo tutti (tranne il folle naturalmente). L'umanitario vede in essa il trionfo della ragione che strappa il folle dalle catene della superstizione e gli conferisce lo status di "malato" abbisognevole di cure; lo psichiatra fonda su di essa la sua legittimità scientifica e il suo sapere/potere; tutti gli altri trovano nella "malattia" una spiegazione onnicomprensiva, immediata e facilmente utilizzabile della follia e delle sue bizzarrie, deresponsabilizzandosi e neutralizzando, allo stesso tempo, quanto il folle può dire o fare.
Spesso quando tento di sviluppare questa tesi, qualcuno obietta che mi formalizzo troppo sul linguaggio e che, in fondo, quando si parla, ci si riferisce alla stessa realtà di fatto. Io ritengo che si stia parlando di due cose diverse, concretamente e umanamente diverse, quando si parla di e con Antonio e quando si parla sulle sue "idee dissociate".
Chiarisco meglio. Se la follia è una "malattia" ne deriva che:
1) Antonio, quando parla di cose che non comprendo o vede cose che io non vedo, lo fa contro la sua volontà, poiché la "malattia" lo fa sragionare (come la nostra temperatura sale, senza che noi possiamo farci niente, quando abbiamo la febbre);
2) da ciò deriva che Antonio è incapace di intendere ciò che gli succede o succede intorno a lui, né di volerlo (se mi accusa, quindi, non è lui a parlare);
3) quello che Antonio dice e vede è del tutto incomprensibile, non significa altro se non che è in preda ad un delirio e dice le prime cose sconnesse che gli passano per la testa;
4) le cose che dice o che vede sono del tutto inesistenti; quando non dirà più quello che dice, né vedrà quello che vede, allora sarà guarito (da cui l'uso di psicofarmaci inibenti o stimolanti);
5) Antonio può perdere in ogni istante il controllo di sé, indipendentemente dalla situazione in cui vive, dalla persona che ha accanto, da quello che gli si dice, da ciò che ha vissuto (per cui è opportuno ospitarlo in luoghi "protetti");
6) a causa della sua malattia egli è pericoloso a sé e agli altri e deve essere tenuto costantemente sotto controllo dagli psichiatri, dai familiari, dai vicini, dagli amici, dal prete, dai carabinieri, etc.
Una lettura attenta fa emergere chiaramente come l'idea psichiatrica non sia altro che un tentativo di fornire di basi scientifiche i pregiudizi popolari circa l'incapacità di intendere e di volere e la pericolosità dei folli, circa la necessità di rinchiuderli "per il loro bene".
Antonio si porta addosso il marchio infamante di "schizofrenico", per i medici è affetto dalla più terribile e distruttiva delle "malattie mentali", quella da cui non si ritorna quasi mai alla normalità.
Ma se Antonio non è "malato di mente", allora che cosa ha, perché è rinchiuso in un manicomio piuttosto che essere coi suoi coetanei chiuso in un'aula universitaria a prepararsi per la vita? Perché dice che il manicomio è un seminario e che lui deve farsi prete per ritrovare la sua anima?
Un modo per impostare bene questo problema è, a mio avviso, quello di chiarire che la follia è una esperienza. Ciò significa che Antonio è consapevole di ciò che vive e di come lo vive, di ciò che dice e di ciò che intende. A differenza di altre esperienze, comunque, sembra che la follia sia più difficile da comunicare e soprattutto da ascoltare/accettare. Ciò non toglie che Antonio sente e vive, che Antonio comunica qualcosa che noi possiamo imparare ad intendere.
Già il brano citato della schizofrenica di Laing ci ha mostrato che i folli hanno e vivono problemi simili ai nostri, solo li vivono con una radicalità e una irriducibilità a noi incomprensibile.
La schizofrenica di cui abbiamo parlato è riuscita solo a posteriori ad esprimere e comunicare chiaramente il suo disagio, nel momento in cui ha trovato chi le ha offerto la possibilità e l'occasione di essere, di riemergere; da pazza i suoi comportamenti non erano meno bizzarri di quelli di Antonio.
Possiamo dire che il folle vive la realtà e sé stesso in una maniera differente dalla nostra, con tonalità emotive, significati ed esperienze proprie. Ciò che va messo in evidenza e compreso è proprio questa differenza che è scarto qualitativo dalla normalità che costituisce la peculiarità di ogni essere umano rispetto ad un altro essere umano . La differenza opera in senso orizzontale, non separa, né divide, nemmeno spezza; rappresenta la base di ogni relazione fra le persone, costruisce l'unicità e l'irripetibilità di ogni incontro.
La diversità invece opera in senso verticale, dispone gli esseri umani secondo dei giudizi di valore, secondo coppie dicotomiche come normale/folle, malato/sano, razionale/irrazionale, buono/cattivo.. La psichiatria produce diversità. Essa blocca ogni possibile scambio fra noi e i folli; ricostruisce i percorsi attraverso cui si passa dalla salute alla malattia, definisce le strade attraverso cui si ritorna nella normalità. La psichiatria è una linea netta, un confine invalicabile che separa due mondi, due modi di esistere, inconciliabili e estranei l'uno all'altro.
Vedere la follia nella sua realtà di esperienza/differenza ci permette di superare molti luoghi comuni, impegnandoci in un rapporto diretto col folle, nella sua vita quotidiana, confrontandoci con lui sulle piccole e le grosse scelte che ciascuno di noi fa per vivere o sopravvivere. Così si riesce anche a superare il giudizio tutto negativo che è stato sempre aprioristicamente formulato nei riguardi del folle ("indemoniato", "criminale", "malato", "disperato"). La follia non è sempre, comunque e necessariamente una esperienza di sofferenza, sicuramente non lo è in sé. La maggior parte delle sofferenze derivano al folle dall'impossibilità di comunicare la propria esperienza, di essere ascoltato e accettato, specie dal momento in cui viene diagnosticato e stigmatizzato come "pazzo".
Se lo psichiatra ricerca le cause della "malattia" per poter cambiare e far diventare "logico" il folle, una politica della differenza è invece interessata a capire come le persone vivono, come affrontano e spiegano i propri problemi, come è possibile vivere insieme costruendo una prospettiva comune. La politica della differenza non tende ad escludere alcuna esperienza o persona, cerca di sperimentare forme diverse di convivenza che si basino su norme flessibili strettamente legate alle esigenze e alle aspettative delle persone e da loro direttamente emanate.
Uno dei possibili modi con cui si è risposto e si risponde a questa differenza della follia è sicuramente l'indifferenza della normalità. Una indifferenza attiva che si è manifestata con una negazione violenta e distruttiva di ogni differenza (non si spiegherebbero se no i manicomi, le insulinoterapie, gli elettroshock, le camicie di forza, gli psicofarmaci...): una in-differenza per l'appunto. La normalità è una massa compatta, una trama dalle maglie strettissime, che non si lascia penetrare dalla differenza. La follia è come una goccia d'acqua che da millenni cerca di intaccare la roccia. Lo specchio è ormai incrinato, non rimanda più indietro la nostra immagine nitida, sempre uguale a se stessa. Lo specchio va rotto, solo allora potremo iniziare a guardare e a vedere fuori di noi, oltre l'orizzonte del nostro Essere e Potere.

In una realtà invivibile
Fiumi d'inchiostro sono già passati sotto i ponti della psichiatria, ma la sua presenza sinistra non si è indebolita, anzi, con l'aumentare dell'incertezza e della confusione, si è imposta con rinnovata veemenza di violenza e arbitrio.
Ho visto, e continuo a vedere, moltissima gente divorare avidamente articoli e libri e poi nella vita d'ogni giorno continuare a far impazzire e ad umiliare gli altri, distruggendoli e non lasciando loro spazio, per cui non riesco a nutrire alcuna speranza di trasformare in maniera radicale con quanto ho scritto la vita di nessuno. Ciò che non voglio è che qualcuno arrivi alla fine di questo articolo e possa rifugiarsi dietro generiche (e ideologiche) adesioni alla idea di fondo, in senso antiautoritario e libertario. Che la psichiatria esprima ed eserciti un potere brutale è cosa ovvia a ciascuno. Il problema qui è un altro: come farne a meno.
Il problema è che, smesso di scorrere questo articolo, alcuni di noi continueranno a sbattersi in una vita che perde sempre più di significato; altri faranno i conti con la loro depressione galoppante, instancabile, inarrestabile; qualcuno vedrà amici o parenti che stanno impazzendo, egli stesso si sentirà impazzire; altri andranno a far visita ai desaparecidos nei manicomi chiusi; qualcuno comincerà a domandare in giro dove è andato a finire caio o sempronio; qualcuno si ricorderà come quel tale andò fuori di testa mentre faceva il militare; altri penseranno di essere fortunati a non avere niente a che fare con queste storie.
Il problema è se ritorneremo alla pratica nel solco che ci siamo tracciati. Se continueremo a delegare ad altri tutti questi problemi come abbiamo fatto sinora, attivamente oppure lasciando sequestrare e distruggere persone a noi vicine entro i "luoghi" della terapia psichiatrica.
Quanti di noi, sentendosi impazzire o sentendo impazzire qualcuno accanto, si sono consigliati, hanno consigliato, hanno avuto per consiglio quello di rivolgersi ad un psico-qualcuno, magari "compagno", magari ottenendo dei risultati? Succede che una "buona psiche" riesca ad aiutarci, spesso in maniera del tutto non voluta, irrazionale e paradossale. Ma quando questa "psiche" appartiene ad un terapeuta i vantaggi sono ben poca cosa rispetto all'occasione perduta.
Quando uno sta male, sta male e basta, mi si obietterà: quello che vuole è stare bene e subito, a qualunque prezzo, non pensa certamente alla rivoluzione, quella è lenta e lontana dal venire.
Potrei rispondere, a parità di retorica, che non si può stare mai bene in una realtà invivibile, una realtà a cui ci si adatta per sopravvivere, una realtà che perpetuiamo con le nostre scelte, ma mi sembrerebbe pura ideologia e cinismo di fronte a chi si sbatte per un istante di serenità e di normalità. La rivoluzione non si fa sulle sofferenze ma nelle sofferenze, fianco a fianco, momento dopo momento.
I cambiamenti di sostanza non avvengono "nella" nostra testa, ma "fra" di noi: poiché i problemi sono di tutti, la soluzione deve coinvolgere tutti.
Emilio ha idee aperte e libertarie, eppure, per non affrontare la sua situazione familiare, è capace di tutto. Si deprime fino al punto da non capire più niente, comincia a credere in dio, assume psicofarmaci, filosofeggia su di essi. Alla fine resta solo con la sua depressione e noi impotenti di fronte a lui: la cima della matassa gli è sfuggita.
Le idee, anche le più perfette, non aiutano a vivere. Così ricadiamo costantemente nelle grinfie di quel potere che diciamo di combattere. Vero in teoria e falso in pratica. Nel momento in cui non ce la facciamo più ci affidiamo a chiunque prometta di darci sollievo.
Non serve fare gli ortodossi, i moralisti, i coerenti con Emilio, quasi ci nutrissimo delle sue contraddizioni. Occorre impegnarci in prima persona con lui affrontando una dopo l'altra, giorno dopo giorno, le sue crisi. Se non lo si fa è meglio tacere, poiché è inutile dare consigli o apostrofare qualcuno, quando noi siamo e stiamo lontani anni luce da lui.
Il cerchio si stringe e nessuno può sottrarsi al nodo che ci stritola.

Azione diretta vuol dire...
La psichiatria, come la follia, è un nostro retaggio culturale, un modo in cui abbiamo affrontato la questione della differenza. Essa fa parte della trama della nostra esistenza. Non c'è ideologia che tenga: al di là delle vuote affermazioni di principio, ognuno di noi fa parte di quella massa compatta che compete per poter essere schiacciando chi non può/sa/è.
La psichiatria è l'ovvio. Farne a meno non è meno pazzesco che fare a meno dell'esercito o dello Stato: ma è, allo stesso modo, urgente.
L'alternativa alla psichiatria non è una nuova teoria sulla follia o una nuova disciplina, una nuova tecnica, nuovi servizi, nuovi farmaci, nuovi "luoghi" in cui chiudere il cerchio intorno alla follia. L'alternativa alla psichiatria è una nuova mente che nasce da una prassi estesa a tutti di condivisione della follia e del suo progetto. L'alternativa alla psichiatria è l'azione diretta.
Azione diretta è ricerca di un rapporto, volontà di mantenerlo fuori e dentro le crisi; un rapporto paritario che sia presenza l'uno all'altro, profondo rispetto per le reciproche esperienze, empatia, coinvolgimento, conoscenza reciproca.
Nei fatti il folle ha da insegnarci come vincere la nostra paura di impazzire, noi a come vincere la sua paura del mondo.
Basta poco a volte per spezzare questo cerchio. La comprensione della follia non deriva dalla conoscenza di una teoria; è piuttosto il corollario di un'azione con il folle, nel suo campo di riferimento, rispetto ai suoi problemi di vita, lavoro, affetto. Agendo fianco a fianco ciò che il folle dice, sente e vede acquista di nuovo il suo valore di comunicazione e di scambio. Perciò bisogna sostituire sistematicamente all' indifferenza l'affettività, alla sfiducia la volontà, all'isolamento il coinvolgimento, nell'arbitrio della cura il rispetto della differenza, all'incomprensione il confronto.
Non è che cancellando la psichiatria si cancellerà la sofferenza fra degli individui, ma sicuramente nessuno avrà il potere di fare dei folli quello che vuole, rinchiudendoli, sezionandoli, umiliandoli; nessuno potrà erigersi a difensore della normalità come norma (quando la norma è la differenza); nessuno potrà sottrarsi al confronto con le idee "deliranti" di Antonio, nessuno potrà rifugiarsi dietro il mito della sua malattia, esonerandosi dal cambiare. Poiché si impazzisce quando non è più possibile un cambiamento e si resta pazzi perché la gente invece di cambiare tenta incomprensibilmente di cambiarti.
Così continuiamo a mettere in conto alle manie di persecuzione quello che va in conto alla nostra ipocrisia.
Pippo continua a ripetere ogni giorno che noi lo vogliamo scacciare, che non lo vogliamo con noi, che non lo vogliamo fra i piedi. Neghiamo naturalmente. Poi non si va con lui a mangiare o si è a disagio quando ci si incontra in piazza. Eppure ognuno tace e Pippo "delira" le nostre persecuzioni. "Manie di persecuzione": quando sentite questa definizione andate a cercare senza dubbi i persecutori!
Il problema non è di essere perfetti, bravi, onesti. Quello che Pippo ci chiede è di affrontare (noi che possiamo) le nostre responsabilità.
Alternativa alla psichiatria è condivisione. Ma cosa c'è da condividere con Sara che grida tutta la notte lanciando tutto ciò che trova dalla finestra? Oppure con Maurizio che nell'ospedale psichiatrico gioca con le sue e altrui feci? Che cosa ci unisce a quel pazzo di Mario che è posseduto da un dio che fa di lui un barbone e un vagabondo? Cosa ci unisce a Maria che si spoglia e si mostra nelle pubbliche vie?
Nella mia vita sono riuscito a trovare dei nessi con loro. La scoperta di questi legami è folgorante, inquietante, intima e, in parte, incomunicabile. Estendere questo tipo di esperienza/coscienza/conoscenza è però indispensabile se si vuole spezzare il cerchio che soffoca i folli ed isola chi si sforza di trovare con loro un'unità perduta.
Non ci sono uomini che stiano agli antipodi dell'umana esistenza. Gli strumenti del comunicare (fra i quali il linguaggio e il corpo) sono uguali per tutti: non ci deve inibire il modo spesso bizzarro e provocatorio con cui i folli ci comunicano la loro esperienza, del resto abbiamo negato a tal punto la follia che non si conoscono modi e vocaboli diversi da quelli della psichiatria o del senso comune per esprimerla.
Un passo avanti sarebbe quello di lavorare sui nessi, sulle corrispondenze, su ciò che ci unisce, cercando di tollerare e comprendere quei comportamenti che ci appaiono, per il momento, del tutto irrazionali. Capire che irrazionale è solo ciò a cui non troviamo un nesso, è comprendere che la follia non è incomprensibilità ma un linguaggio abbandonato, una crisi messa ai margini e isolata dalla nostra coscienza civile.
Non ci deve stupire se gli psichiatri ci attaccheranno violentemente, affermando che noi non abbiamo titolo o preparazione per dire quello che diciamo, o fare quello che facciamo; che rischiamo noi di fare danno invece di aiutare (scordandosi che la storia della psichiatria è cosparsa di cadaveri e di vite distrutte). Il nostro modo di rispondere è nella pratica, lavorando senza psichiatri, né psicofarmaci, né psicoterapie; attingendo le nostre conoscenze dalla saggezza popolare e le nostre "tecniche" direttamente dal rapporto quotidiano, diretto, paritario e affettivo; rispettando e promuovendo la differenza, realizzando il progetto che ogni follia sottende.
Poiché l'alternativa alla psichiatria è presenza attiva, chiara, non persecutoria, né moralista o curativa. Una alternativa che passi fra le persone, che riallacci la follia alla vita, che non cerchi un posto, un qualsiasi posto, per il folle in questa società, ma che cerchi di creare una società in cui valga la pena di vivere.

Pazzi, visionari deliranti
Scivoliamo sul retorico? Cadiamo preda dell'Utopia? Ci avviamo ad un finale di rito? Gli slogan spesso non rendono giustizia alla complessità, come i finali retorici non fanno che sollevare lettore e autore dalla responsabilità pratica che deriva da quanto scritto/letto.
La società di cui parlo non è il macrosistema onnipotente e onnipresente, ma è la trama dei rapporti in cui quotidianamente viviamo. Quella quotidianità in cui sembra che si aspetti che la gente impazzisca, o si droghi, o invecchi prima di prestargli ascolto. Quella quotidianità dove spesso, dopo essere impazziti, drogati, invecchiati, rimane intorno il solito silenzio, le solite frasi di rito, i soliti luoghi comuni, in cui rinchiudere la differenza.
La mia esperienza non potrà certo riallacciare i vostri nessi con la follia, ma può documentare il fatto che ciò è possibile. L'unico rischio è di essere presi per pazzi, visionari, deliranti. Niente male perché noi questa follia, prima o poi, la realizzeremo.


Quel sovrappiù di umanità

Ho ascoltato pochi anni orsono una notizia che mi ha fatto molto pensare: un compagno arrestato per motivi politici era finito dal carcere al manicomio criminale. Ad un certo punto le autorità hanno offerto la propria disponibilità alla liberazione, ma nessuno si è fatto avanti.
Immaginando risolto il problema a monte, mi pongo quello del "dopo liberazione" o del "non internamento", e lo pongo soprattutto a chi nello stile di vita, vuole essere alternativo a questo tipo di società.
Mi pare che in questo momento due delle massime forze antiumane ed antisociali - il consumismo economico ed il burocratismo statuale - stiano concorrendo felicemente tra loro nel sequestro capillare del tempo di ognuno di noi. Non parlo tanto del tempo di lavoro studio, quanto del tempo libero. Oggetti da comprare, "godere", riparare o far riparare, ricomprare più belli e più grandi e costosi, code per la USL, il certificato di nascita che scade (!), per pagare le tasse rendono le nostre agende sempre più insufficienti a contenere tutti gli impegni.
Mi chiedo se i compagni sono ben consapevoli della prevaricazione di cui sono oggetto minuto per minuto, se stanno lottando, ed è possibile, almeno individualmente, per la liberazione effettiva di quote crescenti del proprio tempo di vita, se non dal lavoro indispensabile, e dalle trafile burocratiche coatte, almeno da tutto il resto. Solo così si avranno le condizioni necessarie - anche se non sufficienti - per poter porre un certo distacco tra sé e il mondo di oggetti che vorrebbe succhiarci tutto, per riprovare il senso dello spessore della nostra umanità, per poter preparare in essa, tra l'altro, anche un posto per la sofferenza dell'anima altrui.
"Le medicine dell'anima sono i bei discorsi" diceva Platone. In comunità primitive, ancor oggi in certi villaggi, il peso del sofferente psichico è distribuito tacitamente fra tutti, in modo che tutti lo aiutino a vivere. Come da un eccesso di disumanità sociale nasce la sofferenza pscichica, da un sovrappiù di umanità può guarire. Qui c'è poco da delegare, poco da scaricare.
Questo senza affatto rinunciare all'opera ed al patrimonio di conoscenze ed esperienze degli esperti in buona fede, né tanto meno al portare avanti, anche così, insieme a tante altre formazioni, che si battono su tanti altri fronti, un movimento di riumanizzazione totale, che rigeneri tutti i rapporti sociali.

Pier Luigi Starace Bertacchi