Rivista Anarchica Online
Trasformativa,
concreta, alternativa
di Fausta Bizzozzero
Così, secondo
Michele Boato, consigliere regionale verde veneto, deve proporsi
l'azione dei verdi. La questione
organizzativa: centralizzazione o decentramento locale? Secondo Boato, i
verdi non dovrebbero partecipare per ora alle elezioni
politiche. Ma in futuro... limiti e ambiguità di una concezione
"pragmatica".
Nel panorama
verde tu ci sembri uno dei più attenti ai pericoli insiti in un
ulteriore coinvolgimento istituzionale. Prove ne sono
le tue posizioni, espresse tra l'altro su "Azione
Nonviolenta", sull'assemblea di
Finale Ligure (15-16/11/'86) e sulle
risoluzioni adottate. Da quali
considerazioni nascono queste tue sacrosante preoccupazioni? E sono
condivise anche da altri?
La decisione di
entrare nella politica, e quindi di presentare le liste verdi ed
operare anche dentro alle istituzioni, è stata presa nell'ottobre
dell'84 in una riunione dell'arcipelago verde, cioè del
coordinamento di vari gruppi ecologisti e di molti gruppi
antimilitaristi, e in quell'occasione abbiamo deciso di convocare la
prima assemblea nazionale per il dicembre '84 col titolo "Liste
verdi: parlano i protagonisti". Con questa definizione volevamo
ribadire la nostra diffidenza rispetto a proposte già fatte negli
anni precedenti dal centro, da Roma: gli Amici della Terra avevano
allora proposto a Italia Nostra, WWF, Lega Ambiente, PdUP, DP e
radicali di non presentare i propri candidati alle amministrative
come PdUP, DP e radicali bensì di presentare liste verdi ovunque. Allora molti di noi
si sono ribellati a questa impostazione (ed effettivamente la cosa
non aveva avuto seguito) perché ci sembrava frutto di una operazione
tipicamente politica, calata dal centro, decisa a tavolino da un
interpartiti. Come se si volesse mettere una camicia di forza al
movimento verde. Noi, invece, volevamo vedere se la strada delle
liste verdi era praticabile ma partendo da noi, da ogni singola
situazione locale, dalla nostra volontà. A questa iniziativa, per la
verità, noi non abbiamo mai dato una rilevanza eccessiva ma
l'abbiamo sempre considerata al pari delle altre nostre attività,
come le università verdi o le associazioni degli amici della
bicicletta, che potevamo mettere in campo per ampliare l'incidenza
del movimento ecologista e nonviolento. Da quel momento in
poi, nella seconda assemblea nazionale e nella terza che si è tenuta
dopo il "successo" elettorale - un successo che,
soprattutto dove esisteva un consistente lavoro di base precedente,
si è espresso in un impatto interessantissimo con la gente al di là
di ogni discorso di percentuali - già si poteva vedere un fenomeno di
arrembaggio da parte di persone che, fiutando l'aria, vedevano nel
movimento un buon business politico e quindi ci si buttavano. Alcuni
in buona fede, magari scottati da attività politiche precedenti,
altri no, ma comunque spesso senza che vi fosse una frattura, uno
iato tra l'attività precedente, sempre legata comunque agli
schieramenti politici e non all'attività sociale, e questa scelta.
Mentre per me e per tantissimi altri è assolutamente pregiudiziale
che qualsiasi attività, anche di tipo istituzionale come le liste
verdi, sia la diretta - non la indiretta - conseguenza
dell'attività sociale, sia essa ecologista, nonviolenta,
antimilitarista o di altro tipo. Quando ci chiedono quali sono i
presupposti, le regole del gioco fondamentali dei verdi è proprio
questa regola che io metto al primo posto, altrimenti salta l'essenza
stessa dell'esperienza verde che è una esperienza di tipo
trasformativo, concreto, alternativo rispetto alla struttura sociale,
ambientale, economica esistente. La Federazione
delle liste verdi è stata anch'essa un'operazione politica scaturita
da una concezione "romana", e con questo termine intendo il
considerare la politica nazionale come referente principale delle
nostre scelte, i tempi della politica, i tempi delle elezioni; la
fretta di fare questa federazione, la fretta di non discutere lì a
Finale Ligure tutta una serie di meccanismi statutari considerati da
molti sbagliati perché troppo vincolanti e di meccanismi dettati
dall'impatto con l'elemento elettorale istituzionale, ecco, tutto
questo non ha trovato d'accordo me e moltissimi altri (a Finale
Ligure sembrava che i contrari fossero solo il 20%, ma poi abbiamo
verificato che era la maggioranza dell'arcipelago verde), soprattutto
quelli che svolgono realmente attività verdi in campo sociale.
Dopo quello che
hai detto mi viene spontanea una domanda: le forme organizzative
possono trasformare il senso di un movimento o non è piuttosto il
movimento che attraverso la scelta di una piuttosto che di un'altra
forma organizzativa definisce se stesso?
In realtà noi non
ci siamo contrapposti all'idea di federazione in sé, ma ci siamo
detti: anche il PCI ha le federazioni, anche i repubblicani, eppure
più monocratico del partito repubblicano non ce n'è. Quindi non
basta la parola magica di federazione, bisogna vedere quali sono i
suoi contenuti, come nasce, lo spirito che l'anima, i tempi, gli
elementi statutari. Secondo noi una
federazione non può nascere da una assemblea di delegati locali che
diventa un congresso, che decide a livello nazionale le scelte
politiche e designa la segreteria che dura in carica un anno; non
vediamo proprio la differenza tra questa struttura e un qualsiasi
congresso del PSI o della DC. In realtà, per come intendiamo noi una
reale struttura federale, tutte le liste debbono essere indipendenti
e autonome e fare le loro scelte; poi si possono certo coordinare, ma
una volta poste sul tappeto tutte le proposte non sono i delegati a
decidere, bensì le liste nella loro sede locale che è
sostanzialmente quella comunale perché è questa la dimensione vera
delle liste, che corrisponde anche alla dimensione reale di vita
della gente. Questo può essere visto come un caos, ma in realtà è
l'unico modo in cui noi concepiamo il funzionamento di una
federazione. Per quanto riguarda
la segreteria, questo compito, se e quando lo si ritiene necessario,
dovrebbe essere svolto a rotazione da ogni lista locale per sei mesi;
questo significa non istituzionalizzare nessun centro, ma anzi
potenziare tutte le periferie facendole crescere coll'assunzione di
responsabilità. Poi, a rotazione avvenuta, cioè dopo tre o quattro
anni, si può fare un bilancio e si può decidere se e come
modificarne il funzionamento. Non siamo neppure contrari a dei
referenti per ambiti di competenza (sull'energia piuttosto che sui
rifiuti o sulle biciclette) ma l'importante è che non siano inseriti
in un centro decisionale, ma dei terminali in contatto con tutti. A
questo punto si potrebbero utilizzare in modo intelligente parte dei
soldi di cui le liste dispongono per un collegamento modem tra tutte
le liste tramite un computer per poter comunicare in tempo reale e
rafforzare così la rete già esistente.
L'attenzione e
la critica che emerge dai tuoi discorsi sulla delega o sulla
rappresentatività, sulla rotazione degli incarichi, sui criteri
decisionali, i tuoi dubbi e le tue preoccupazioni rivelano una
sensibilità che mi sembra di segno libertario. O mi sbaglio?
Il tipo di
organizzazione che io vedo non so se sia libertaria, so solo che
vorrebbe non castrare il potenziale che esiste; in questo momento,
secondo me, i terminali debbono essere in maggior numero possibile e
l'organizzazione deve essere più decentrata possibile, anche a
livello locale. Un problema che non abbiamo ancora risolto è quello
dell'appartenenza, cioè di chi fa parte dei verdi e chi no, che
potrà diventare in futuro il problema della tessera (tutte le
organizzazioni nazionali utilizzano il sistema delle tessere in modo
più o meno limpido); io e altri non siamo d'accordo perché
riteniamo che il problema vada inserito nel discorso più ampio che
riguarda la funzione dei verdi nella società italiana e, di
conseguenza, quale organizzazione si devono dare. In questo momento,
a mio avviso, le liste verdi hanno la funzione di gridare più forte
cose che la società riesce a sussurrare o a dire a malapena e devono
avere come referente un mondo che è fatto di acque, di alberi, di
animali ma anche di persone che parlano; se questo mondo venisse
recintato in un'organizzazione (di cui si fa parte perché si ha una
tessera) si ricreerebbero dei meccanismi - che sono i meccanismi di
partito sostanzialmente - per cui ci sarebbero i veri verdi (quelli
con la tessera) e gli altri che stanno fuori con cui ci si confronta.
Si tratta di meccanismi perversi che possono caratterizzare purtroppo
anche la Federazione delle liste verdi e che noi intendiamo
contrastare cercando di mantenere aperte - magari anche attraverso
rapporti di forza - tutte le porte che si vorrebbero chiudere.
Infatti più di metà delle liste non hanno aderito alla Federazione
e questo ha fatto sì che quelli che hanno aderito, molti in buona
fede, hanno deciso che si deve riconsiderare tutto quanto.
Ho la netta
impressione che la tua preoccupazione maggiore consista nell'evitare
che si mettano in moto i meccanismi del potere e che proprio per
questo tu utilizzi tutta una serie di strumenti organizzativi (detto
per inciso, tipicamente libertari) allo scopo di evitare e/o di
controllare possibili concentrazioni di potere. Come, ad esempio, la
rotazione degli incarichi.
Da un punto di
vista puramente efficientistico il principio della rotazione può
apparire irrazionale perché sappiamo che l'efficienza, in ogni campo
scientifico, pedagogico, politico è strettamente collegata alla
professionalità.
Certo, ma
dipende dai fini che ci si pone il privilegiare l'efficienza oppure
l'efficacia.
Ecco, io stesso mi
rendo conto che con la rotazione si perde necessariamente in
funzionalità e l'ho sperimentato direttamente perché mi rendo conto
che ora, dopo un anno e mezzo di presenza nel consiglio regionale, mi
muovo molto più agilmente, conosco meglio i regolamenti, faccio il
doppio delle cose rispetto all'inizio. Ma mi rendo anche conto che se
anche ne facessi il triplo o il quadruplo ma diventassi un
politicante e mi distaccassi dal movimento, il gioco non varrebbe la
candela. Io vedo quindi la rotazione come un buon deterrente contro
ogni tipo di professionalismo. Un altro elemento
che ritengo importante a questo scopo è quello economico, nel senso
che in nessun modo il fatto di far parte di una lista deve costituire
un ricatto o un incentivo nel volerci rimanere. Ciascuno cioè deve
avere il suo lavoro che lo sostiene economicamente e deve tornare a
farlo dopo la parentesi della lista, in modo da non creare nessun
tipo di legami economici. E infatti qui nel Veneto abbiamo deciso di
cominciare una rotazione in consiglio regionale dandoci come tempo 5
anni: un primo delegato vi rimane tre anni perché deve imparare, il
secondo due ma comincia ad affiancare il primo sei mesi prima, in modo
da consentire la trasmissione delle conoscenze e rendere il passaggio
indolore.
Si discute molto
all'interno del movimento verde su una possibile partecipazione alle
elezioni politiche. Tu cosa ne pensi?
Direi che ho il 99%
di dubbi in merito. Per lo meno per quanto riguarda l'oggi, in futuro
forse potrò cambiare idea. Questi dubbi riguardano il rischio di cui
si parlava anche prima, cioè di trasformare le liste verdi in un
gruppo chiuso di professionisti sradicati dalle rispettive realtà
locali, dai loro rapporti sociali, dalle loro famiglie; e poi
l'esigenza per una piccola forza di mettersi a fare i saltimbanchi in
Parlamento per farsi sentire (come hanno fatto Pannella e poi
Capanna); e poi il livello di aggressività che esiste in queste
istituzioni dove tutto si gioca su rapporti di potere, dove non
esiste più né cultura locale né rapporti con la gente. È vero che la
gente si sente lontanissima anche dalla Regione e dalle altre
istituzioni locali ma in queste comunque esiste un rapporto dovuto
proprio al fatto geografico, al territorio e ai suoi problemi
concreti che obbliga a rimanere coi piedi per terra e ad agire,
mentre il rapporto col Parlamento favorirebbe sempre più questo
sradicamento degli eventuali parlamentari verdi che somiglierebbero
sempre più a un gruppo di radicali. All'interno del
dibattito in corso mi si rinfaccia di privilegiare un problema micro,
quasi un problema di rapporti personali, rispetto al problema macro,
cioè dell'esistere e del contare come forza a livello nazionale, di
avere maggiore accesso agli organi di informazione, di avere maggiori
strumenti. Per quanto riguarda gli strumenti in più, io ritengo che
ad esempio i soldi che le liste verdi regionali ricevono mensilmente
(qualche milione) siano più che sufficienti per fare
controinformazione, per stampare i giornali locali e per le varie
attività che le liste fanno. E poi avere più soldi di quanti ne
servono porta inevitabilmente a creare funzionari, e questo è un
altro pericolo a cui già accennavo prima. E su questo secondo me
bisogna essere durissimi dentro le liste verdi, è un principio da
cui non si può derogare. Esiste infine un
altro motivo per cui sono contrario e cioè la nostra concezione
ecologica della vita individuale e collettiva che significa la
ricerca di un'armonia nella vita di ciascuno; questa è la nostra
essenza per cui non è concepibile che i rappresentanti verdi siano
degli squilibrati mentali, gente che vive di politica e basta.
Tu hai detto che
oggi sei contrario ma che in futuro potresti anche cambiare idea. La
cosa mi lascia un po' perplessa perché mi sembra che le motivazioni
che tu hai dato del tuo essere contrario siano valide al di là di
ogni specifica situazione o tempo. Non credi?
Può darsi che sia
così ma è un fatto che io ho spesso cambiato idea, cosa di cui
peraltro non mi vergogno: ad esempio non ero nonviolento (ho fatto il
militare e ho fatto attività in caserma come "Proletari in
divisa") e ora lo sono profondamente. Non so se fosse più giusto
prima oppure ora, non l'ho ancora capito perché sono essenzialmente
un pragmatico e mi muovo più emotivamente che razionalmente. Adesso, d'istinto,
sento il pericolo di presentarsi alle elezioni, il pericolo di una
mutazione "genetica" delle liste verdi in senso
centralistico, intellettuale e politico-burocratico.
Tu sostieni
anche che fare politica deve continuare ad essere un gioco, immagino
nel senso che la somma del piacere che si ricava facendo delle cose
deve essere maggiore della somma dei costi in senso lato che si
devono pagare, insomma che non lo si deve fare per senso del dovere.
Sì, è proprio
così, e secondo me non può essere diversamente proprio per quella
concezione ecologica globale umana di cui parlavo prima. Mi capita a
volte di non aver voglia di andare in Consiglio e allora, pur
criticato da vari "colleghi", non ci vado. Ma se ci andassi
per senso del dovere forse il giorno dopo non avrei voglia di andare
nel paesino di 600 abitanti a parlare di rifiuti e loro sarebbero
pronti a giustificarmi, a ritenere più importante la mia attività
istituzionale nel Consiglio rispetto al loro paese dimenticato da
tutti, mentre per me è molto più significativo andare lì. È
proprio tutta una scala di valori che va ribaltata.
Ecco, a
proposito di valori e di ideali - una merce oggi sempre più rara -
quali sono i tuoi punti di riferimento, cosa ti ha portato ad essere
quello che sei oggi?
Se ripenso al
percorso compiuto non vedo grandi salti ma piuttosto un lento
processo evolutivo senza scosse. All'inizio, fino ai vent'anni, ho
lavorato nell'Azione Cattolica e i miei referenti erano quei preti
che mettevano ai primi posti i problemi sociali (come oggi fa padre
Zanotelli, direttore di "Nigrizia"); poi all'Università, in
cui sono entrato nel '67, c'è stato l'incontro con "Lettera a
una professoressa" di Don Milani e, successivamente con Che
Guevara. Un incontro determinante, soprattutto con la sua filosofia
dell'uomo nuovo, che mi ha fatto saltare a piè pari il
marxismo-leninismo. Questa vena marxista-libertaria mi ha
accompagnato per tutta l'università e poi anche dopo, in Lotta
Continua, fino al '72 quando in L.C. ha cominciato a soffiare un'aria
di marxismo-leninismo ed ho deciso di andarmene a fare il militare
prima, dove ho lavorato molto in senso antimilitarista, poi a
Brindisi e a Bari per quattro anni. Restavo formalmente in L.C. ma
non ero affatto d'accordo su come si stava trasformando, sulla
tendenza a diventare un partito, su certe posizioni "guerrigliere"
che cominciavano ad emergere. Finché non si è arrivati allo
scioglimento di L.C. a cui ho contribuito con estrema convinzione. Allora - ma anche
ora - avevo molti amici anarchici a Venezia che mi dicevano che ero
un anarchico. Non so se sia vero perché la mia conoscenza
dell'anarchismo (a parte Murray Bookchin) è molto limitata. Dopo la
terribile esperienza del Salvador e le riflessioni sulla guerriglia
che mi ha suscitato, ho abbandonato anche Che Guevara. Ma debbo
confessare che, a parte alcune cose di Illich che condivido, non
sento di avere dei "padri" e, anzi mi dà un po' fastidio
l'idea stessa. Mi fanno un po'
ridere quelli che hanno letto tre libri di F. Capra o di altri e
usano continuamente gli aggettivi "olistico" e "sistemico"
solo per fare un inutile sfoggio di cultura, quando gli stessi
concetti si possono benissimo esprimere con termini più
comprensibili. A me piace la cultura che può capire anche il mio
vicino di casa - che raccoglie carta e stracci e quindi svolge un
lavoro utilissimo - e con lui riesco a rapportarmi benissimo.
Certamente alcuni problemi teorici vanno affrontati, ma io credo
soprattutto in un confronto di esperienze diverse, di culture
diverse, di storie diverse. Qualche anno fa mi è capitato di leggere
Gandhi ed ho scoperto che era ecologista nel senso più profondo del
termine nel 1922, ma non mi considero gandhiano, né lo mitizzo.
E qui entriamo
in un aspetto - quello del misticismo - che ci sembra permeare parte
del movimento.
Io parlo spesso dei
comuni, della dimensione comunale come di una dimensione in cui è
possibile cominciare a realizzare alcuni dei nostri desideri o dei
nostri valori, che poi sono anche quelli di Gandhi, con la concezione
del villaggio, dell'importanza del lavoro manuale,
dell'autosufficienza; certo non si può e non si deve riproporre un
modello gandhiano di comunità di villaggio tout-court perché non
avrebbe senso in una società come la nostra, ma quello che è
possibile fare da ora nelle strutture comunali che già esistono è
trasformarle inserendovi quegli stessi valori. Se è vero, come è
vero, che esiste un certo misticismo all'interno del movimento, è
anche vero che c'è una grossa allergia verso ogni tentativo di
mettere una cappa piuttosto che un'altra. Io, oltre ad essere un
pragmatico - ma la maggior parte dei verdi lo è - sono anche un
inguaribile ottimista per cui sono convinto che se le cose concrete
che si fanno sono vere - e per vere intendo sane, giuste,
"ecologiche" - e si riescono a portare alla luce le
contraddizioni, questo agire porterà al dissolvimento delle cappe
religiose preesistenti. Poi ciascuno deve essere libero di avere la
religione che vuole, l'importante è che non diventi la
religione dei verdi, cioè che non si tenti di imporla agli altri.
Piuttosto io vedo il rischio opposto, derivante da un eccessivo
scientismo che può portare a un tecnicismo fine a se stesso.
Secondo te
esiste non dico una progettualità globale ma una spinta, un'esigenza
di cambiamento che vada al di là dei cambiamenti
contingenti o d'urgenza per vivere un po'
meglio, un rifiuto del modello di
sviluppo economico che ci ha portato allo sfascio attuale e dei suoi
valori?
Non posso
rispondere per gli altri perché siamo così diversi! Quello che
posso dire è che nel mio peregrinare (quest'anno ho partecipato ad
almeno 100 assemblee, tutte molto affollate e partecipate) ho sempre
sentito da parte della gente questa spinta: che si parlasse di
rifiuti piuttosto che di porcilaie, sempre il discorso si allargava a
temi che necessariamente coinvolgono la società intera, il suo
funzionamento, la sua economia ed i suoi valori. Certo si tratta di
una spinta magari inconscia, ma io sento che esiste, che la cultura
della gente sta cambiando, gradualmente ma in misura molto maggiore
di quanto noi stessi possiamo percepire.
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