Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 145
aprile 1987


Rivista Anarchica Online

Il rischio "istituzioni"
di Fausta Bizzozzero

Giannozzo Pucci, verde "fondamentalista" della prima ora, non crede a un concetto di potere assoluto che bisogna prendere o distruggere. E propone una "soluzione omeopatica". Che, però, non ci sembra per niente originale.

Tu sei stato uno dei promotori di questo convegno che a noi anarchici, inguaribilmente allergici a ogni forma di potere, è sembrato un segno estremamente positivo. A Pescara la sensazione che avevo avuto era che non esistesse coscienza dell'esistenza di questo problema, ma evidentemente il convegno di Finale Ligure lo ha portato alla luce.

Ogni convegno, come ogni pubblicazione, è un animale diverso e a seconda delle caratteristiche che ha questo animale suscita e stimola certe energie e certi rapporti tra le persone oppure altri. Pescara, pur essendo un convegno diverso da questo in quanto ha dato molto spazio anche a gente (ministri, sindacalisti, uomini politici) al di fuori dell'area verde, ha comunque indicato uno stile, e cioè che i nostri incontri dovrebbero essere molto più di riflessione che non animati dalla volontà di decidere qualcosa tutti insieme.
Ora, poiché a Finale è stato votato lo statuto di una Federazione che assomiglia troppo a un partito senza una sufficiente riflessione, poiché incombono delle decisioni per quanto riguarda le elezioni, poiché a Pescara come a Finale i metodi utilizzati per discutere sono stati abbastanza tradizionali, si è cercato di organizzare questo convegno per cominciare a dimostrare come si può farlo in maniera diversa da un lato e per cominciare ad affrontare questi temi fuori dall'immediata decisionalità dall'altro. Questo convegno, quindi, ha lo scopo di mostrare un metodo di lavoro diverso, di mettere le persone a lavorare insieme, di superare le contrapposizioni nette, dimostrare che ci sono delle cose comuni e che il lavoro sulle cose pratiche deve essere privilegiato rispetto al puro discorso di potere. Infatti esiste la tendenza, appena si tende ad istituzionalizzare, all'emergere di un tipo di persone interessate ad avere in mano il potere, ad escludere gli altri e a far passare tutte le decisioni attraverso di loro, facendo in questo modo calare la tensione fattiva tra la gente.

Rispetto alla Federazione decisa a Finale che effettivamente prefigura la forma partito tu, voi della lista verde di Firenze che posizione avete assunto?

Non ci siamo entrati. Anche rischiando, perché ovviamente loro hanno il timbro, e quindi l'ufficialità, e noi no. E non vi entreremo finché non ci saranno date sufficienti garanzie di un reale rispetto della sovranità delle liste locali. Il cerchio ormai è stato disegnato, ci sono quelli che sono dentro e quelli che sono fuori, quindi finché non si cambia questa struttura io sono convinto che non esiste lo spazio per una crescita diversa che invece può fondarsi solo sul lavoro e sull'autonomia di un gruppo di vita, sulla condivisione di un ambito territoriale e dei suoi problemi. Ovviamente organizzarsi in modo diverso, orizzontale, implica anche affrontare delle difficoltà oggettive poiché non esiste una strada già tracciata e tutto è da sperimentare, ma si tratta di difficoltà che ci faranno crescere e in una direzione diversa da quella del partito. La direzione a cui io penso è quella di una confederazione di realtà locali assolutamente sovrane, cioè di far deperire lo stato nazionale attraverso la parcellizzazione del potere e la sua distribuzione a livello locale.

Sul deperimento dello stato ho seri dubbi storicamente convalidati.
Ma a proposito di questo potere di cui tanto si è parlato in questi giorni, io continuo ad essere perplessa poiché ho sentito un continuo sovrapporsi di piani e di significati diversi che a questa parola si possono attribuire e questa confusione concettuale rende ovviamente difficile la comprensione reale delle posizioni. Tu citi Alce Nero per cui il potere si muove sempre circolarmente, ma Alce Nero parla di un potere che è il potere di fare. Mentre, a grandi linee, perché il problema è ben più complesso, esiste un'altra forma del potere che è quella istituzionale - cioè del non far fare - e mi sembra sia questo il problema che andrebbe analizzato a fondo.

In effetti io intendo il potere di fare e di decidere. È un chiarimento molto importante quello che hai fatto perché, ad esempio, io sono favorevole ad entrare nelle istituzioni - e quindi a presentarsi alle elezioni politiche - proprio per favorire il fare fuori dalle istituzioni.

Questo me lo devi spiegare perché proprio mi risulta incomprensibile per non dire assurdo.

Cercherò di spiegarmi con un esempio. Esistono diversi enti pubblici che si occupano delle acque e del loro inquinamento in modo ovviamente centralistico. Ecco, secondo me le acque sono il primo gradino per la ricostruzione di un potere locale legato a una cultura locale e quindi noi possiamo cominciare da un lato a livello istituzionale ad intervenire per bloccare degli interventi o per spingerne altri cercando di diffondere questa cultura. Dall'altro si può spingere verso un decentramento della responsabilità delle acque per bacini o per aree geografiche delegando dal centro verso la periferia e questo porterebbe a un grado maggiore di controllo e a una maggiore possibilità di intervento.
Poi io vedrei, sempre a livello istituzionale, l'applicazione di due pesi e due misure per coloro che scelgono una vita "povera" (nel senso economico, di autosussistenza, non di valori) e per coloro che invece vogliono continuare a produrre, vendere, consumare coi meccanismi attuali. Questi ultimi dovrebbero sottostare a tutti gli obblighi che già esistono (fiscali, finanziari, ecc.) mentre i primi dovrebbero esserne liberati.
Io non credo a un concetto di potere assoluto che bisogna prendere o distruggere; io credo molto di più in una concezione omeopatica in cui non si distrugge la malattia - perché altrimenti essa rinasce - ma semplicemente si costruisce uno spazio nonostante la malattia, dentro la malattia e inizia una interrelazione. Questo significa che la malattia, cioè il potere, continua ad esistere ma che ci sono cose pratiche che si possono fare per neutralizzarla.

Proprio non ti capisco. I guasti della società sappiamo bene da cosa derivano e sappiamo quali sono i valori che regolano questo processo di sviluppo. Il problema è: questi valori vanno bene o non vanno bene? Ci si deve limitare solo a risanare le acque o ci si deve porre il problema dei valori? Se tu decidi di partecipare alle elezioni politiche, di entrare in quegli ingranaggi - e sappiamo bene tutti che sono gli ingranaggi a modificare le persone e non viceversa - che senso ha che ci siano quattro o quattromila che fanno una scelta diversa, che coltivano il loro orticello, si scambiano i loro prodotti biologici lasciati in pace dal potere centrale? Cosa hanno cambiato in realtà?

Ti faccio l'esempio concreto della Francia dove dal '70 all'80 c'era il movimento ecologico più avanzato d'Europa, che raccoglieva e catalizzava l'energia e la spinta al cambiamento del paese intero, ma abbiamo visto cosa è successo con Mitterand con cui quel movimento si è trasformato nel fanalino di coda. Quindi abbiamo una responsabilità molto grossa. Se non ci andiamo noi ci vanno gli altri, col rischio di finire come la Francia. È vero che noi rischiamo di essere cambiati dalle strutture, ma credo sia un rischio che vale la pena di correre. Sono proprio quelli che credono meno nelle istituzioni che devono entrarci per evitare che ci entrino quelli che invece ci credono e quindi taglierebbero la testa a tutta questa realtà. L'ipotesi è che si possa fare un gioco collegato dall'interno e dall'esterno delle istituzioni per far crescere questo discorso delle autonomie locali legato alle etnie e alle culture locali. Questo è il centro del nostro obiettivo politico. È una scommessa e come tale non si sa come andrà a finire. Il fatto è che noi non possiamo vincere l'imperatore in una realtà imperiale, possiamo solo cercare di erodere il suo potere.

Dai Quaderni di Ontignano ai verdi. Da molti anni tu svolgi una funzione significativa nell'ambito della controcultura e costituisci un punto di riferimento per un'area ecologico-pacifista. Come sei arrivato al tuo attuale impegno nel movimento dei verdi?

Non sto qui a riassumere il percorso dei Quaderni d'Ontignano. Ti dico soltanto che sono ancora dubbioso rispetto al mio impegno nei verdi - che pure esiste - e che vi sono stato spinto dal fatto che vedevo da un lato la sua strumentalizzazione come l'ultima tigre da cavalcare, dall'altro la limitatezza e parzialità con cui il discorso veniva portato avanti, mentre secondo me era necessario arricchirlo e ampliarlo, inserirlo in una visione del mondo più globale. Io sono conscio che non si può continuare a vivere in una società consumista eliminando solo le cose che non ci piacciono e che sono il risultato di questo consumismo. Se noi vogliamo affrontare veramente la società del rischio noi dobbiamo sapere che dobbiamo fare dei sacrifici, che dobbiamo assumerci delle responsabilità che non sono comode, che si inseriscono in un modo di vivere la libertà a cui noi non siamo abitati. Mentre mi sembra che molti vivono l'impegno "verde" come la nuova forma di cui si veste il potere.

All'interno di questo arcipelago verde così diversificato ti sembra che esistano gruppi, associazioni, individui, portatori di un progetto di cambiamento globale delle società? La mia impressione, che deriva da Pescara, dalle cose che ho letto e anche da questo convegno, è che in realtà questo modello di sviluppo basato sul profitto non va bene ma esiste e non si può rifiutare sino in fondo.

Questo è vero, almeno per quanto riguarda la concezione ambientalista. Ma anche i più sensibili tra loro si rendono conto della limitatezza insita in questa concezione, della continua rincorsa del nemico attraverso battaglie che inseguono i danni da lui provocati. E infatti alcuni cominciano a dire che bisogna andare oltre una concezione ambientalista ma si fermano lì, perché andare oltre significherebbe porsi il problema di una politica diversa e di una società diversa. E non tutti si sentono ancora pronti o capaci di porselo e di porselo possibilmente a livello collettivo.
In realtà il problema del potere si pone automaticamente quando si agisce concretamente: ad esempio il movimento ha bisogno degli esperti, ma la loro esistenza costituisce anche un pericolo di accentramento di potere e di delega, un pericolo che verrà superato solo quando quel sapere sarà passato, almeno in parte, a tutti gli ambientalisti. Perché gli esperti, i tecnici, non possono cambiare il mondo.
Vedi, esiste ed è diffusa una concezione manichea della politica che non mi trova d'accordo perché io ritengo invece che sia importante agire e muoversi su molti piani e in molti spazi in modo che se ti trovi un muro davanti puoi sempre riprovarci da un'altra parte. E questo non è semplice operativismo perché io ho una precisa ipotesi di lavoro e mi muovo in quella direzione pur utilizzando metodi diversificati.

Già, ma i mezzi dovrebbero essere comunque compatibili o coerenti con il fine che tu ti prefiggi.

Più che altro debbo essere coerente io mentre ci passo dentro.

Mi sembra un discorso molto pericoloso, questo, poiché le esperienze passate dimostrano che quando si scelgono dei mezzi non coerenti anche i fini ne vengono stravolti, oltre alle persone.

Questo è vero, ma io sono molto d'accordo con quanto diceva Franco La Cecla sulla "politica": il politico è nato con la centralizzazione del potere poiché prima politica e vita erano la stessa cosa, ma ora esiste, come esistono le ideologie, e inoltre abbiamo raggiunto il limite, il punto di non ritorno. Allora non siamo solo noi con la nostra morale e con le strutture che ci cambiano, ma siamo noi con la nostra morale, con le strutture che ci cambiano e con la natura che però ci dà una mano in quanto ricasca addosso a noi come alle strutture. Quindi i limiti raggiunti danno una mano a chi vuole agire in una certa direzione.

Una cosa che mi ha molto colpito leggendo alcuni tuoi interventi, e che non mi trova per niente d'accordo, è la tua concezione che dà alla "vita" una importanza centrale tanto poi da farti arrivare a una posizione antiabortista. Puoi spiegare su quali valori si fonda?

È necessaria una premessa. La concezione corrente è quella che riduce l'uomo a una somma di bisogni da soddisfare, ma i bisogni non sono alberi senza radici, i bisogni nascono dai valori. Questa cultura del bisogno è talmente entrata dentro di noi da bloccarci e determinare comportamenti e sensazioni. Qual è uno dei valori fondamentali che sta dietro alla vita umana e ai bisogni soddisfatti attraverso i valori d'uso e non attraverso i mercati? È il valore della gratuità della natura, della gratuità della vita che ti viene data senza che tu abbia deciso di nascere. È una sorta di scambio universale privo di qualsiasi risvolto utilitaristico. E allora il fatto di sottoporre la vita alla mia concezione di bene o di male, alla mia concezione di utilità o disutilità io lo sento come un profondo disvalore che poi viene spacciato per diritto civile.

Non sono affatto d'accordo. Basta pensare ad esempio proprio alle società primitive a cui tu spesso fai riferimento e in cui certo esisteva un rapporto armonico e corretto uomo-natura. Ebbene proprio quelle società per regolare la loro demografia utilizzavano vari metodi, dalle erbe, all'aborto, all'infanticidio, molto tranquillamente e senza problemi morali.

Ma io non prendo queste società come un modello. Esistono degli spazi naturali al cui interno l'uomo ha libertà di fare una scelta piuttosto di un'altra.

Forse questo può essere vero (ma ne dubito) per gli uomini, non certo per le donne che sono state considerate, almeno nella nostra cultura, macchine da riproduzione e non persone.

Ogni popolo ha la sua cultura e i suoi valori e risponde alle domande fondamentali dell'esistenza secondo modalità diverse, per cui in alcuni popoli l'aborto è condannato e in altri no, ma è comunque un discorso che riguarda la coscienza dell'uomo.

Una coscienza che non è certo universale, visto che cambia radicalmente a seconda dei popoli e soprattutto, delle religioni che questi popoli si danno...

Secondo me le religioni non servono a niente se non quando aiutano la coscienza a capire; il loro compito è quello di fornire delle risposte alle domande che l'uomo si pone, poi ciascuna religione ha la sua evoluzione, i suoi compromessi...

La cassetta è finita e comunque siamo su posizioni così distanti che molto difficilmente potremmo trovare un punto d'incontro continuando la discussione. Ma è stato comunque interessante confrontarci e, forse, è servito in qualche misura ad arricchire entrambi.