Rivista Anarchica Online
Il rischio
"istituzioni"
di Fausta Bizzozzero
Giannozzo Pucci,
verde "fondamentalista" della prima ora, non crede a un
concetto di potere assoluto che bisogna prendere o distruggere. E
propone una "soluzione omeopatica". Che, però, non
ci sembra per niente originale.
Tu sei stato uno
dei promotori di questo convegno che a noi anarchici, inguaribilmente
allergici a ogni forma di potere, è sembrato un segno estremamente
positivo. A Pescara la sensazione che avevo avuto era che non
esistesse coscienza dell'esistenza di questo problema, ma
evidentemente il convegno di Finale Ligure lo ha portato alla luce.
Ogni convegno, come
ogni pubblicazione, è un animale diverso e a seconda delle
caratteristiche che ha questo animale suscita e stimola certe energie
e certi rapporti tra le persone oppure altri. Pescara, pur essendo un
convegno diverso da questo in quanto ha dato molto spazio anche a
gente (ministri, sindacalisti, uomini politici) al di fuori dell'area
verde, ha comunque indicato uno stile, e cioè che i nostri incontri
dovrebbero essere molto più di riflessione che non animati dalla
volontà di decidere qualcosa tutti insieme. Ora, poiché a
Finale è stato votato lo statuto di una Federazione che assomiglia
troppo a un partito senza una sufficiente riflessione, poiché
incombono delle decisioni per quanto riguarda le elezioni, poiché a
Pescara come a Finale i metodi utilizzati per discutere sono stati
abbastanza tradizionali, si è cercato di organizzare questo convegno
per cominciare a dimostrare come si può farlo in maniera diversa da
un lato e per cominciare ad affrontare questi temi fuori
dall'immediata decisionalità dall'altro. Questo convegno, quindi, ha
lo scopo di mostrare un metodo di lavoro diverso, di mettere le
persone a lavorare insieme, di superare le contrapposizioni nette,
dimostrare che ci sono delle cose comuni e che il lavoro sulle cose
pratiche deve essere privilegiato rispetto al puro discorso di
potere. Infatti esiste la tendenza, appena si tende ad
istituzionalizzare, all'emergere di un tipo di persone interessate ad
avere in mano il potere, ad escludere gli altri e a far passare tutte
le decisioni attraverso di loro, facendo in questo modo calare la
tensione fattiva tra la gente.
Rispetto alla
Federazione decisa a Finale che effettivamente prefigura la forma
partito tu, voi della lista verde di Firenze che posizione avete
assunto?
Non ci siamo
entrati. Anche rischiando, perché ovviamente loro hanno il timbro, e
quindi l'ufficialità, e noi no. E non vi entreremo finché non ci
saranno date sufficienti garanzie di un reale rispetto della
sovranità delle liste locali. Il cerchio ormai è stato disegnato,
ci sono quelli che sono dentro e quelli che sono fuori, quindi finché
non si cambia questa struttura io sono convinto che non esiste lo
spazio per una crescita diversa che invece può fondarsi solo sul
lavoro e sull'autonomia di un gruppo di vita, sulla condivisione di
un ambito territoriale e dei suoi problemi. Ovviamente organizzarsi
in modo diverso, orizzontale, implica anche affrontare delle
difficoltà oggettive poiché non esiste una strada già tracciata e
tutto è da sperimentare, ma si tratta di difficoltà che ci faranno
crescere e in una direzione diversa da quella del partito. La
direzione a cui io penso è quella di una confederazione di realtà
locali assolutamente sovrane, cioè di far deperire lo stato
nazionale attraverso la parcellizzazione del potere e la sua
distribuzione a livello locale.
Sul deperimento
dello stato ho seri dubbi storicamente convalidati. Ma a proposito
di questo potere di cui tanto si è parlato in questi giorni, io
continuo ad essere perplessa poiché ho sentito un continuo
sovrapporsi di piani e di significati diversi che a questa parola si
possono attribuire e questa confusione concettuale rende ovviamente
difficile la comprensione reale delle posizioni. Tu citi Alce Nero
per cui il potere si muove sempre circolarmente, ma Alce Nero parla
di un potere che è il potere di fare. Mentre, a grandi linee, perché
il problema è ben più complesso, esiste un'altra forma del potere
che è quella istituzionale - cioè del non far fare - e mi sembra
sia questo il problema che andrebbe analizzato a fondo.
In effetti io
intendo il potere di fare e di decidere. È un chiarimento molto
importante quello che hai fatto perché, ad esempio, io sono
favorevole ad entrare nelle istituzioni - e quindi a presentarsi alle
elezioni politiche - proprio per favorire il fare fuori dalle
istituzioni.
Questo me lo
devi spiegare perché proprio mi risulta incomprensibile per non dire
assurdo.
Cercherò di
spiegarmi con un esempio. Esistono diversi enti pubblici che si
occupano delle acque e del loro inquinamento in modo ovviamente
centralistico. Ecco, secondo me le acque sono il primo gradino per la
ricostruzione di un potere locale legato a una cultura locale e
quindi noi possiamo cominciare da un lato a livello istituzionale ad
intervenire per bloccare degli interventi o per spingerne altri
cercando di diffondere questa cultura. Dall'altro si può spingere
verso un decentramento della responsabilità delle acque per bacini o
per aree geografiche delegando dal centro verso la periferia e questo
porterebbe a un grado maggiore di controllo e a una maggiore
possibilità di intervento. Poi io vedrei,
sempre a livello istituzionale, l'applicazione di due pesi e due
misure per coloro che scelgono una vita "povera" (nel senso
economico, di autosussistenza, non di valori) e per coloro che invece
vogliono continuare a produrre, vendere, consumare coi meccanismi
attuali. Questi ultimi dovrebbero sottostare a tutti gli obblighi che
già esistono (fiscali, finanziari, ecc.) mentre i primi dovrebbero
esserne liberati. Io non credo a un
concetto di potere assoluto che bisogna prendere o distruggere; io
credo molto di più in una concezione omeopatica in cui non si
distrugge la malattia - perché altrimenti essa rinasce - ma
semplicemente si costruisce uno spazio nonostante la malattia, dentro
la malattia e inizia una interrelazione. Questo significa che la
malattia, cioè il potere, continua ad esistere ma che ci sono cose
pratiche che si possono fare per neutralizzarla.
Proprio non ti
capisco. I guasti della società sappiamo bene da cosa derivano e
sappiamo quali sono i valori che regolano questo processo di
sviluppo. Il problema è: questi valori vanno bene o non vanno bene?
Ci si deve limitare solo a risanare le acque o ci si deve porre il
problema dei valori? Se tu decidi di partecipare alle elezioni
politiche, di entrare in quegli ingranaggi - e sappiamo bene tutti
che sono gli ingranaggi a modificare le persone e non viceversa - che
senso ha che ci siano quattro o quattromila che fanno una scelta
diversa, che coltivano il loro orticello, si scambiano i loro
prodotti biologici lasciati in pace dal potere centrale? Cosa hanno
cambiato in realtà?
Ti faccio l'esempio
concreto della Francia dove dal '70 all'80 c'era il movimento
ecologico più avanzato d'Europa, che raccoglieva e catalizzava
l'energia e la spinta al cambiamento del paese intero, ma abbiamo
visto cosa è successo con Mitterand con cui quel movimento si è
trasformato nel fanalino di coda. Quindi abbiamo una responsabilità
molto grossa. Se non ci andiamo noi ci vanno gli altri, col rischio
di finire come la Francia. È vero che noi rischiamo di essere
cambiati dalle strutture, ma credo sia un rischio che vale la pena di
correre. Sono proprio quelli che credono meno nelle istituzioni che
devono entrarci per evitare che ci entrino quelli che invece ci
credono e quindi taglierebbero la testa a tutta questa realtà.
L'ipotesi è che si possa fare un gioco collegato dall'interno e
dall'esterno delle istituzioni per far crescere questo discorso delle
autonomie locali legato alle etnie e alle culture locali. Questo è
il centro del nostro obiettivo politico. È una scommessa e come tale
non si sa come andrà a finire. Il fatto è che noi non possiamo
vincere l'imperatore in una realtà imperiale, possiamo solo cercare
di erodere il suo potere.
Dai Quaderni di
Ontignano ai verdi. Da molti anni tu
svolgi una funzione significativa nell'ambito della
controcultura e costituisci un punto di riferimento per un'area
ecologico-pacifista. Come sei arrivato al tuo attuale
impegno nel movimento dei verdi?
Non sto qui a
riassumere il percorso dei Quaderni d'Ontignano. Ti dico soltanto che
sono ancora dubbioso rispetto al mio impegno nei verdi - che pure
esiste - e che vi sono stato spinto dal fatto che vedevo da un lato
la sua strumentalizzazione come l'ultima tigre da cavalcare,
dall'altro la limitatezza e parzialità con cui il discorso veniva
portato avanti, mentre secondo me era necessario arricchirlo e
ampliarlo, inserirlo in una visione del mondo più globale. Io sono
conscio che non si può continuare a vivere in una società
consumista eliminando solo le cose che non ci piacciono e che sono il
risultato di questo consumismo. Se noi vogliamo affrontare veramente
la società del rischio noi dobbiamo sapere che dobbiamo fare dei
sacrifici, che dobbiamo assumerci delle responsabilità che non sono
comode, che si inseriscono in un modo di vivere la libertà a cui noi
non siamo abitati. Mentre mi sembra che molti vivono l'impegno
"verde" come la nuova forma di cui si veste il potere.
All'interno di
questo arcipelago verde così diversificato ti sembra che esistano
gruppi, associazioni, individui, portatori di un progetto di
cambiamento globale delle società? La mia impressione, che deriva da
Pescara, dalle cose che ho letto e anche da questo convegno, è che
in realtà questo modello di sviluppo basato sul profitto non va bene
ma esiste e non si può rifiutare sino in fondo.
Questo è vero,
almeno per quanto riguarda la concezione ambientalista. Ma anche i
più sensibili tra loro si rendono conto della limitatezza insita in
questa concezione, della continua rincorsa del nemico attraverso
battaglie che inseguono i danni da lui provocati. E infatti alcuni
cominciano a dire che bisogna andare oltre una concezione
ambientalista ma si fermano lì, perché andare oltre significherebbe
porsi il problema di una politica diversa e di una società diversa.
E non tutti si sentono ancora pronti o capaci di porselo e di porselo
possibilmente a livello collettivo. In realtà il
problema del potere si pone automaticamente quando si agisce
concretamente: ad esempio il movimento ha bisogno degli esperti, ma
la loro esistenza costituisce anche un pericolo di accentramento di
potere e di delega, un pericolo che verrà superato solo quando quel
sapere sarà passato, almeno in parte, a tutti gli ambientalisti.
Perché gli esperti, i tecnici, non possono cambiare il mondo. Vedi, esiste ed è
diffusa una concezione manichea della politica che non mi trova
d'accordo perché io ritengo invece che sia importante agire e
muoversi su molti piani e in molti spazi in modo che se ti trovi un
muro davanti puoi sempre riprovarci da un'altra parte. E questo non è
semplice operativismo perché io ho una precisa ipotesi di lavoro e
mi muovo in quella direzione pur utilizzando metodi diversificati.
Già, ma i mezzi
dovrebbero essere comunque compatibili o coerenti con il fine che tu
ti prefiggi.
Più che altro
debbo essere coerente io mentre ci passo dentro.
Mi sembra un
discorso molto pericoloso, questo, poiché le esperienze passate
dimostrano che quando si scelgono dei mezzi non coerenti anche i fini
ne vengono stravolti, oltre alle persone.
Questo è vero, ma
io sono molto d'accordo con quanto diceva Franco La Cecla sulla
"politica": il politico è nato con la centralizzazione del
potere poiché prima politica e vita erano la stessa cosa, ma ora
esiste, come esistono le ideologie, e inoltre abbiamo raggiunto il
limite, il punto di non ritorno. Allora non siamo solo noi con la
nostra morale e con le strutture che ci cambiano, ma siamo noi con la
nostra morale, con le strutture che ci cambiano e con la natura che
però ci dà una mano in quanto ricasca addosso a noi come alle
strutture. Quindi i limiti raggiunti danno una mano a chi vuole agire
in una certa direzione.
Una cosa che mi
ha molto colpito leggendo alcuni tuoi interventi, e che non mi trova
per niente d'accordo, è la tua concezione che dà alla "vita"
una importanza centrale tanto poi da farti arrivare a una posizione
antiabortista. Puoi spiegare su quali valori si fonda?
È necessaria una
premessa. La concezione corrente è quella che riduce l'uomo a una
somma di bisogni da soddisfare, ma i bisogni non sono alberi senza
radici, i bisogni nascono dai valori. Questa cultura del bisogno è
talmente entrata dentro di noi da bloccarci e determinare
comportamenti e sensazioni. Qual è uno dei valori fondamentali che
sta dietro alla vita umana e ai bisogni soddisfatti attraverso i
valori d'uso e non attraverso i mercati? È
il valore della gratuità della natura, della gratuità della vita
che ti viene data senza che tu abbia deciso di nascere. È una sorta
di scambio universale privo di qualsiasi risvolto utilitaristico. E
allora il fatto di sottoporre la vita alla mia concezione di bene o
di male, alla mia concezione di utilità o disutilità io lo sento
come un profondo disvalore che poi viene spacciato per diritto
civile.
Non sono affatto
d'accordo. Basta pensare ad esempio proprio alle società primitive a
cui tu spesso fai riferimento e in cui certo esisteva un rapporto
armonico e corretto uomo-natura. Ebbene proprio quelle società per
regolare la loro demografia utilizzavano vari metodi, dalle erbe,
all'aborto, all'infanticidio, molto tranquillamente e senza problemi
morali.
Ma io non prendo
queste società come un modello. Esistono degli spazi naturali al cui
interno l'uomo ha libertà di fare una scelta piuttosto di un'altra.
Forse questo può
essere vero (ma ne dubito) per gli uomini, non certo per le donne che
sono state considerate, almeno nella nostra cultura, macchine da
riproduzione e non persone.
Ogni popolo ha la
sua cultura e i suoi valori e risponde alle domande fondamentali
dell'esistenza secondo modalità diverse, per cui in alcuni popoli
l'aborto è condannato e in altri no, ma è comunque un discorso che
riguarda la coscienza dell'uomo.
Una coscienza
che non è certo universale, visto che cambia radicalmente a seconda
dei popoli e soprattutto, delle religioni che questi popoli si
danno...
Secondo me le
religioni non servono a niente se non quando aiutano la coscienza a
capire; il loro compito è quello di fornire delle risposte alle
domande che l'uomo si pone, poi ciascuna religione ha la sua
evoluzione, i suoi compromessi...
La cassetta è
finita e comunque siamo su posizioni così distanti che molto
difficilmente potremmo trovare un punto d'incontro
continuando la discussione. Ma è stato comunque interessante
confrontarci e, forse, è servito in qualche misura ad arricchire
entrambi.
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