Rivista Anarchica Online
Maltornata
psichiatria!
di Stefano Fabbri d'Errico
L'Italia è
l'unico Paese al mondo ad aver abolito i manicomi. Sarà, ma ci
sono ancora migliaia di reclusi psichiatrici. Le responsabilità del
riformismo. Questo dossier
intende offrire un piccolo spaccato di quanto alcuni stanno
concretamente facendo, al di fuori della logica istituzionale. E
contro le tendenze alla ri-psichiatrizzazione della vita sociale.
Le notizie che
provengono dall'arcipelago manicomi (o ex-manicomi, se
preferite) non trovano in genere molto spazio sui mass-media. A non
molti - pensiamo - sarà capitato nelle scorse settimane di leggerne
una riguardante l'ex-ospedale psichiatrico di Imola. La procura di
Bologna ha avviato una procedura per l'interdizione di circa 500
persone che vi sono ancora ricoverate. Il tutto ha avuto origine da
un'interpellanza in consiglio comunale da parte di esponenti del MSI,
indignati perché, invece di trattenere i soldi della pensione -
com'è consuetudine - la direzione dell'ex-manicomio aveva deciso di
darli direttamente ai ricoverati, affinché liberamente possano
comprarsi ciò che vogliono. I consiglieri missini hanno gridato allo
scandalo. I "matti" si sarebbero dati alle pazze spese,
comprando anche cose inutili. La magistratura si
è mossa all'unisono. L'interdizione dei ricoverati, una volta
sancita, non solo impedirebbe loro definitivamente di disporre del
loro danaro, ma li relegherebbe per sempre nel manicomio. Un nuovo
tassello, dunque, per pratiche di istituzionalizzazione e comunque di
emarginazione. La cura di un paziente interdetto, infatti, porrebbe
il medico curante in una situazione favorevole all'internamento, onde
evitare possibili conseguenze penali per "abbandono di incapace". L'episodio di
Imola, pur gravissimo in sé, non è che un aspetto della più
generale, subdola e violenta campagna tendente alla
ri-psichiatrizzazione della vita sociale. Ne abbiamo accennato
recentemente in occasione di un'altra vicenda specifica, quella
legata alla tentata "perizia psichiatrica" all'anarchico
ragusano Franco Leggio. Torniamo ad
occuparcene con questo dossier, che intende richiamare l'attenzione
su un aspetto spesso trascurato della "questione psichiatrica":
lo scandalo dei lungodegenti, cioè di quelle decine di migliaia di
persone ancora oggi rinchiuse negli ospedali psichiatrici pubblici,
in barba alla tanto sbandierata legge 180. Ne abbiamo già
parlato poco più di un anno fa, su "A" 133 (dicembre
85/gennaio '86), con l'articolo/denuncia L'ossessione manicomiale.
Padiglioni
chiusi
Dimostrammo sin da
allora che, come sempre, l'apparato istituzionale, invece di riparare
i danni che provoca, ne aggiunge altri a catena e che quando le lotte
non sono davvero gestite "dal basso" senza mediazioni e
rappresentanze politiche di potere, vengono immancabilmente
stravolte, recuperate e sconfitte. Lamentammo la logica perversa dei
meccanismi di delega che ha portato, una volta cambiate sulla carta
le normative, troppi fra coloro che si erano battuti per distruggere
un sistema arcaico e nefando a "rientrare nei ranghi", come se
tutto il lavoro fosse già stato compiuto. Il più delle volte nei
vari comitati "per l'attuazione della 180" ci si sente dire
che una lotta per far sparire il "residuo manicomiale"
rischierebbe "oggi" di compromettere la battaglia per la
salvaguardia della legge vigente, sottoposta agli attacchi dei
settori più retrivi e conservatori. Oggi, pubblicando
fra le altre cose i risultati di una "ricerca scomoda",
dimostriamo cifre alla mano come in effetti in questi anni non si è
fatto che ristrutturare (senza peraltro neanche "razionalizzarlo")
l'apparato di segregazione esistente. Infatti i reparti di
contenzione sono stati soppressi solamente a Trieste, ove lavorò
Basaglia. Là si sono anche create realmente tutte le infrastrutture
previste per l'accoglienza e la risocializzazione degli ex-degenti.
L'unica eccezione si ha, a quanto pare, ad Arezzo. Gli altri
"ospedali" continuano ad operare come dei veri e propri manicomi
ed hanno al massimo ridotto il numero dei padiglioni chiusi. Il solo
istituto realmente liquidato in toto è stato quello di Gorizia. Non parliamo poi
delle cliniche private, rimaste senza controllo alcuno al medioevo, i
cui interessi prosperano quanto mai. Anche la legge più avanzata del
mondo (quale in effetti la "180" è) ha potuto ben poco. Di tutto ciò però
nessuno pare accorgersi: sbarre, letti di contenzione, elettroshock
vengono presentati dai mass-media come scomodi ricordi di un buio
passato. Il contenzioso deve rimanere nei cassetti di oscure
commissioni "riformatrici", sottratto ad utenti ed
operatori. A tale proposito
pare assai significativo che sia, nel silenzio generale, proprio una
rivista anarchica a sollevare la questione. Gli anarchici sono gli
unici a non essersi mai fatti illusioni sulla bontà delle "riforme"
poiché hanno sempre creduto che si tratti, nel migliore dei casi, di
sterili innesti di speranza su di un albero già rinsecchito dal
dominio. "Di buone
intenzioni è lastricata la via dell'inferno" recita un antico
detto. Parimenti sofferenza e delusione sono immancabili punti
d'arrivo per ogni movimento che si accontenti di una mera
formalizzazione istituzionale dei propri contenuti. Uniche garanzie
reali di progresso rimangono l'attenzione critica ed iniziative di
lotta costanti tese ad un cambiamento radicale: gestire l'esistente
accontentandosi di come esso è significa votarsi al gesuitismo o al
suicidio politico. Oggi che si parla
tanto (ed anche a sproposito) di "liberalsocialismo" pare
invece, all'atto pratico, che i veri "riformisti" siano
proprio coloro che meno ambiscono a definirsi tali: i
"rivoluzionari". Questo apparente paradosso sembra venir
dimostrato dal fatto che le conquiste più alte nella storia del
nostro paese sono sempre la conseguenza di periodi di grande
conflittualità e di movimenti di massa tesi ad una trasformazione
globale. Viceversa i momenti più bassi hanno sempre avuto come
contraltare da un canto quello svuotamento di senso di ogni progetto
d'alternativa autogestionaria, determinato da un'asettica fiducia
negli apparati dello stato e nei suoi gestori (di qualsiasi "colore"
essi fossero), e dall'altro quel cieco furore massimalista imperniato
su di un rivoluzionarismo "tout court", incapace di far
nascere aggregazione e coscienza dalle esigenze reali ed immediate
delle società civili.
Qui ed
ora
La caratteristica
di questo dossier è quella di aver riunito opinioni e proposte di
operatori e gruppi di base presenti nelle più diverse situazioni,
qui ed ora, sul difficile terreno "dell'antipsichiatria".
Operatori e gruppi di base impegnati in prima persona e non più
disposti a cedere alle lusinghe ed all'attendismo o dell'onda di
risacca di quell'ottuso conformismo istituzional-partitico a causa
del quale la "consapevolezza sociale" del cittadino medio si è
così rarefatta da divenire "impalpabile". Quello che forniamo
è quindi, pur con i suoi limiti, un piccolo spaccato di quanto (al
di là di tante dotte ma sterili diatribe) si sta concretamente
muovendo in Italia. A fronte di una
prospettiva abolizionista ormai completamente disattesa ed
abbandonata, la cui fine si vorrebbe addirittura formalizzare in
parlamento, desta particolare interesse quanto ad esempio prospetta
il "Comitato d'Iniziativa Psichiatrica" di Messina nella
sua "ipotesi di accoglienza", che prevede fra l'altro la
creazione di "case di pre-dimissione" onde rompere il cerchio
della coazione forzata che tante persone, solo perché abbandonate a
loro stesse o prive di una famiglia che le prenda in carico, sono
costrette a vivere. Questo dossier è
stato reso possibile dall'opera di Fabrizio Parboni che ne ha
raccolto e coordinato i contributi. Impegnato da anni in una
battaglia contro la segregazione dei degenti psichiatrici, ha
dapprima agito all'interno del CARM (Collettivo per L'Abolizione di
Regolamenti Manicomiali e manicomi criminali), struttura all'epoca
federata al Partito Radicale, il disinteresse e la strumentalità del
quale ne determinò la chiusura dopo che erano state raccolte
settecentomila firme per l'abolizione dei manicomi. Con i suoi
compagni portò avanti nell'83 una serie di iniziative contro il
direttore del cronicario di Ceccano, prof. Carlo Citterio, che fu
allora destituito ed incriminato per il decesso di un ricoverato
causato, a quanto sembra, da maltrattamenti. Durante lo scorso
anno la campagna per Ceccano venne ripresa (di nuovo presente come
controparte il Citterio, già reintegrato nelle sue funzioni) e
sviluppata in collaborazione con il "Comitato Democratico Contro
l'Emarginazione" di Viterbo, un appello del quale è anche
riportato su queste pagine. Tale collaborazione ha però avuto
termine nel novembre dell'86, per divergenze insorte all'interno del
Comitato stesso rispetto alle modalità ed ai contenuti della lotta
in corso. Attualmente Fabrizio fa di nuovo riferimento al CARM ora
ricostituitosi ed operante nell'ambito del Circolo Anarchico "Franco
Serantini" di Roma.
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