Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 17 nr. 143
febbraio 1987


Rivista Anarchica Online

C'era una volta Timor
di Francesco Lamendola

Da undici anni è in corso a Timor una lotta coraggiosa e disperata per riaffermare il diritto dei popoli, anche i più piccoli, all'autodeterminazione. La pesante eredità del colonialismo europeo.

Timor è un'isola dell'arcipelago della Sonda, nell'estremo Sudest asiatico. La sua metà orientale, ex-colonia portoghese, ha una superficie di circa 15.000 kmq. e una popolazione di forse 600.000 abitanti (la Sicilia, tanto per fare un confronto, ha una superficie di 25.000 kmq. e 5 milioni d'abitanti). Poche persone in Europa saprebbero localizzarla davanti al mappamondo, anche fra coloro che hanno una discreta cultura geografica e che leggono il giornale tutti i giorni. Una terra lontana, povera, arretrata: un nome che ai più non dice nulla.
Eppure proprio quest'isola lontana e dimenticata è teatro, da ormai undici anni, di una lotta coraggiosa e disperata per riaffermare il diritto di tutti i popoli, anche i più piccoli, all'autodeterminazione. La lotta del popolo di Timor orientale non è diretta contro l'antica madrepatria portoghese, che dal 1975 ha sgomberato anche da quest'ultimo brandello della sua passata potenza coloniale, bensì contro l'Indonesia. Forse per questo, certa opinione pubblica "progressista" dell'Occidente ha preferito chiudere occhi e orecchi davanti alla tragedia di Timor. Come nel caso del popolo Sarawi nell'ex Sahara Spagnolo, occupato illegalmente dal Marocco, riesce sgradevole ammettere che un ex-paese coloniale, una volta conquistata la propria indipendenza, si sia trasformato a sua volta in oppressore sub-coloniale d'un altro popolo. Riesce oltremodo imbarazzante riconoscere che a più di trent'anni dalla grande conferenza di Bandung (ironia della sorte, proprio in Indonesia!), il movimento dei paesi afroasiatici non abbia saputo liberarsi dalle suggestioni di egemonia coloniale ricevute in eredità dall'Occidente.
Eppure è proprio così, e la causa di ciò risiede nel fatto che il movimento di liberazione fra i popoli del Terzo Mondo non ha saputo elaborare una dottrina politica alternativa al modello statalistico, burocratico e militarizzato, ricevuto dall'Europa durante la dominazione coloniale.

Dopo Lisbona Giacarta
Dopo che nell'aprile 1974 la cosiddetta "rivoluzione dei garofani" ebbe ristabilito la democrazia in Portogallo, il governo di Lisbona accelerò i tempi per lo smantellamento del suo impero, minato - specialmente in Guinea, Angola e Mozambico - da un'attivissima guerriglia indipendentista. In Asia vi erano ancora, dopo la seconda guerra mondiale, tre piccole colonie portoghesi: Goa, Timor e Macao. Goa era stata annessa con la forza dall'India nel 1961, Macao - legata com'è da ragioni economiche e politiche al destino della vicina Hong Kong - rimane tuttora portoghese. I due settori lusitani dell'isola di Timor - oltre alla parte orientale, con capoluogo Dili, anche una enclave sulla costa occidentale, il distretto di Occussi-Ambeno (*) - vennero sgomberati nel corso del 1975.
La fretta dei Portoghesi nel lasciare questa loro lontana colonia, così poco fruttuosa economicamente, così arretrata (circa 20.000 iscritti alla scuola primaria, su oltre mezzo milione d'abitanti!), aveva una duplice ragione. La prima era dovuta a considerazioni di politica estera; salvaguardare i rapporti diplomatici con l'Indonesia, padrona dell'altra metà dell'isola, ed evitare assolutamente una umiliazione come quella patita a Goa. La seconda era dovuta all'intricata e spinosa situazione venutasi a creare nella provincia d'oltremare.
Tre movimenti politico-militari si erano costituiti e avevano già incominciato a lottare fra loro per raccogliere il vuoto d'autorità creatosi col ritiro imminente del Portogallo. Due di essi, l'Apodeti e l'U.D.T., erano filo-indonesiani e loro obiettivo dichiarato era la riunificazione alla "madrepatria", cioè al governo di Giacarta - guidato, è bene non dimenticarlo, da un regime fanaticamente anticomunista, controllato dai militari sul piano interno e dagli Stati Uniti (oltre che dal Giappone) su quello politico-economico internazionale. Il terzo raggruppamento era il FRETILIN (Fronte di Liberazione Nazionale del Timor orientale), d'ispirazione marxista, che perseguiva l'obiettivo della indipendenza immediata e totale sia dal Portogallo, sia dall'Indonesia.
Per quasi tutta l'estate e parte dell'autunno del 1975 divampò la guerra civile. Dopo quattro mesi di lotta ebbe la meglio il FRETILIN, che il 28 novembre dichiarò l'indipendenza e affidò la carica di presidente al suo leader F. Xavier do Amaral. La neonata repubblica ebbe vita quanto mai breve. Con un tempismo che tradiva una lunga preparazione, il 7 dicembre successivo l'esercito indonesiano varcò la frontiera ed invase nel corso di pochi giorni tutto il territorio dell'isola. Il ministro degli esteri di Giacarta, Malik, recitò per conto del presidente Suharto la solita sceneggiata, assicurando che l'occupazione militare avrebbe avuto carattere "temporaneo". Le truppe indonesiane sono ancora lì, impegnate più che mai in una guerriglia contro il FRETILIN che sembra non dover finire mai.
Il 14 dicembre 1975, esattamente una settimana dopo l'inizio dell'invasione, l'Indonesia proclamò l'annessione del distretto di Occussi-Ambeno. Il 18 fu annunciata la costituzione di un sedicente governo provvisorio di Timor orientale, dominato dall'Apodeti e presieduto da Arnaldo des Reis Araujo. Il parlamento-fantoccio eletto poi col compito specifico di ratificare l'annessione di Timor orientale all'Indonesia, la approvò all'unanimità il 31 maggio 1976. Come suo ultimo atto ufficiale, il "governo provvisorio" il 24 giugno rimise il territorio alle autorità di Giacarta, e si sciolse. Per des Reis Araujo ci fu subito però un gettone di consolazione: i suoi protettori indonesiani gli sostituirono la carica di capo del governo con quella di governatore di Timor orientale. Il 15 luglio il parlamento indonesiano approvò una legge che trasformava l'ex-colonia portoghese nella ventisettesima provincia degli Stati Uniti d'Indonesia, e il 16 agosto Suharto (sì, quello stesso che nel 1965 aveva guidato lo sterminio di oltre mezzo milione di comunisti) proclamò ufficialmente l'annessione. Politicamente, per Giacarta la questione era chiusa.
Per tutto quel periodo l'attività di guerriglia era continuata violentissima, e nel corso di tutti questi anni l'esercito indonesiano non è ancora riuscito a venire a capo di niente. Già impegnato in un'altra guerra d'occupazione sub-coloniale nelle immense regioni dell'Irian Barat (Nuova Guinea Occidentale), che si trascina ormai da circa venticinque anni, esso ha subito a Timor degli scacchi clamorosi. Varie volte ha tentato la soluzione di forza con delle offensive massicce, e sempre invano. Nel marzo del 1983 il comandante militare indonesiano, Purwanto, era giunto a un accordo col FRETILIN per un cessate-il-fuoco. Ma in agosto 15 militari indonesiani caddero in un agguato e poco dopo Purwanto fu rimosso e sostituito dal "duro" Rudito. Suo obiettivo era la repressione definitiva della guerriglia indipendentista: un obiettivo che né allora, né oggi è stato peraltro raggiunto.

Contro la realpolitik delle superpotenze
Come spiegare una resistenza così lunga ed efficace da parte del FRETILIN, se non ammettendo un atteggiamento sostanzialmente favorevole da parte della popolazione? Tatticamente, il terreno dell'isola si presta assai poco alla guerriglia: pochi lembi di foresta a galleria lungo i corsi d'acqua, e, per il resto, colline e montagne calcaree e savana arborata. Anche sul piano internazionale il FRETILIN è isolato. A parte una protesta formale da parte del Portogallo, il governo indonesiano non ha mai incontrato resistenze o difficoltà dalla diplomazia internazionale.
Se a Timor si continua a lottare e a morire, è perché i suoi abitanti sono in larga misura contrari all'annessione. Essi vogliono poter decidere il proprio destino e rifiutano l'"inevitabilità" della logica secondo la quale il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Rifiutano di rassegnarsi perché credono nella giustezza della causa per cui si battono, e sanno che nell'Indonesia di oggi, militarista e para-fascista, non c'è spazio per alcuna autonomia o dialettica politica.
Il caso di Timor offre un ennesimo esempio della cecità e spietatezza della logica degli stati. In Europa ci son voluti secoli di conflitti e, da ultimo, due guerre mondiali, per ricomporre i contrasti territoriali e le politiche antagoniste di potenza: e lo stallo attuale (che è di vera pace non è lecito parlare) non è dovuto a buona volontà, come tutti sanno. Nel Terzo Mondo, erede dei confini coloniali, i conflitti territoriali e le contrapposte politiche di potenza sono appena agli inizi, ed è difficile prevedere se e quando potranno essere ricomposti. Difficile se non impossibile dire quando finirà la guerra del Golfo tra Iran e Iraq, o quando la Libia cesserà di voler sottrarre il Tibesti al Ciad. Tanto più che il Terzo Mondo assolve oggi al ruolo di valvola di sfogo delle tensioni fra le due superpotenze, e tutto il mercato internazionale delle armi (una voce ormai fondamentale dell'economia mondiale) è fondato su tale presupposto.
Ma - ci si potrà chiedere - ha senso, oggi, morire per l'indipendenza di una piccola isola del Sudest asiatico, anzi di una parte di essa; ha senso in un mondo dominato dai "grandi", lottare per una causa tanto "piccola", tanto remota e dimenticata da tutti?
Gli esempi recenti dell'Afghanistan e del Nicaragua, del resto, ribadiscono la volontà dei popoli "piccoli" di non sottostare alla logica delle grandi potenze, alla realpolitik dei Reagan e dei Gorbaciov.

Ma il cerchio va spezzato
Tuttavia, opporsi a una siffatta realpolitik non basta. Occorre contestare globalmente il diritto degli stati, che perpetuamente innesca la spirale della repressione politica e sociale. La generazione del '68 ha visto con dolore il suo mito per eccellenza, il Vietnam, trasformarsi, subito dopo la vittoria sull'imperialismo, in stato burocratico e imperialista (a spese della Cambogia, e in parte del suo stesso popolo). È questo il cerchio che va spezzato.
Occorre abbattere la concezione stessa di stato, quella concezione che ha condotto i "piccoli" e perfino gli affamati, come l'India o il Pakistan, sulla strada demenziale dell'arma atomica, né più né meno dei "grandi" e dei ricchi.