Rivista Anarchica Online
C'era una volta
Timor
di Francesco Lamendola
Da undici anni è
in corso a Timor una lotta coraggiosa e disperata per riaffermare il
diritto dei popoli, anche i più piccoli, all'autodeterminazione. La
pesante eredità del colonialismo europeo.
Timor è un'isola
dell'arcipelago della Sonda, nell'estremo Sudest asiatico. La sua
metà orientale, ex-colonia portoghese, ha una superficie di circa
15.000 kmq. e una popolazione di forse 600.000 abitanti (la Sicilia,
tanto per fare un confronto, ha una superficie di 25.000 kmq. e 5
milioni d'abitanti). Poche persone in Europa saprebbero localizzarla
davanti al mappamondo, anche fra coloro che hanno una discreta
cultura geografica e che leggono il giornale tutti i giorni. Una
terra lontana, povera, arretrata: un nome che ai più non dice nulla. Eppure proprio
quest'isola lontana e dimenticata è teatro, da ormai undici anni, di
una lotta coraggiosa e disperata per riaffermare il diritto di tutti
i popoli, anche i più piccoli, all'autodeterminazione. La lotta del
popolo di Timor orientale non è diretta contro l'antica madrepatria
portoghese, che dal 1975 ha sgomberato anche da quest'ultimo
brandello della sua passata potenza coloniale, bensì contro
l'Indonesia. Forse per questo, certa opinione pubblica "progressista"
dell'Occidente ha preferito chiudere occhi e orecchi davanti alla
tragedia di Timor. Come nel caso del popolo Sarawi nell'ex Sahara
Spagnolo, occupato illegalmente dal Marocco, riesce sgradevole
ammettere che un ex-paese coloniale, una volta conquistata la propria
indipendenza, si sia trasformato a sua volta in oppressore
sub-coloniale d'un altro popolo. Riesce oltremodo imbarazzante
riconoscere che a più di trent'anni dalla grande conferenza di
Bandung (ironia della sorte, proprio in Indonesia!), il movimento dei
paesi afroasiatici non abbia saputo liberarsi dalle suggestioni di
egemonia coloniale ricevute in eredità dall'Occidente. Eppure è proprio
così, e la causa di ciò risiede nel fatto che il movimento di
liberazione fra i popoli del Terzo Mondo non ha saputo elaborare una
dottrina politica alternativa al modello statalistico, burocratico e
militarizzato, ricevuto dall'Europa durante la dominazione coloniale.
Dopo Lisbona
Giacarta
Dopo che
nell'aprile 1974 la cosiddetta "rivoluzione dei garofani"
ebbe ristabilito la democrazia in Portogallo, il governo di Lisbona
accelerò i tempi per lo smantellamento del suo impero, minato -
specialmente in Guinea, Angola e Mozambico - da un'attivissima
guerriglia indipendentista. In Asia vi erano ancora, dopo la seconda
guerra mondiale, tre piccole colonie portoghesi: Goa, Timor e Macao.
Goa era stata annessa con la forza dall'India nel 1961, Macao -
legata com'è da ragioni economiche e politiche al destino della
vicina Hong Kong - rimane tuttora portoghese. I due settori lusitani
dell'isola di Timor - oltre alla parte orientale, con capoluogo
Dili, anche una enclave sulla costa occidentale, il distretto
di Occussi-Ambeno (*) - vennero sgomberati nel corso del 1975. La fretta dei
Portoghesi nel lasciare questa loro lontana colonia, così poco
fruttuosa economicamente, così arretrata (circa 20.000 iscritti alla
scuola primaria, su oltre mezzo milione d'abitanti!), aveva una
duplice ragione. La prima era dovuta a considerazioni di politica
estera; salvaguardare i rapporti diplomatici con l'Indonesia, padrona
dell'altra metà dell'isola, ed evitare assolutamente una umiliazione
come quella patita a Goa. La seconda era dovuta all'intricata e
spinosa situazione venutasi a creare nella provincia d'oltremare. Tre movimenti
politico-militari si erano costituiti e avevano già incominciato a
lottare fra loro per raccogliere il vuoto d'autorità creatosi col
ritiro imminente del Portogallo. Due di essi, l'Apodeti e l'U.D.T.,
erano filo-indonesiani e loro obiettivo dichiarato era la
riunificazione alla "madrepatria", cioè al governo di
Giacarta - guidato, è bene non dimenticarlo, da un regime
fanaticamente anticomunista, controllato dai militari sul piano
interno e dagli Stati Uniti (oltre che dal Giappone) su quello
politico-economico internazionale. Il terzo raggruppamento era il
FRETILIN (Fronte di Liberazione Nazionale del Timor orientale),
d'ispirazione marxista, che perseguiva l'obiettivo della indipendenza
immediata e totale sia dal Portogallo, sia dall'Indonesia. Per quasi tutta
l'estate e parte dell'autunno del 1975 divampò la guerra civile.
Dopo quattro mesi di lotta ebbe la meglio il FRETILIN, che il 28
novembre dichiarò l'indipendenza e affidò la carica di presidente
al suo leader F. Xavier do Amaral. La neonata repubblica ebbe vita
quanto mai breve. Con un tempismo che tradiva una lunga preparazione,
il 7 dicembre successivo l'esercito indonesiano varcò la frontiera
ed invase nel corso di pochi giorni tutto il territorio dell'isola.
Il ministro degli esteri di Giacarta, Malik, recitò per conto del
presidente Suharto la solita sceneggiata, assicurando che
l'occupazione militare avrebbe avuto carattere "temporaneo".
Le truppe indonesiane sono ancora lì, impegnate più che mai in una
guerriglia contro il FRETILIN che sembra non dover finire mai. Il 14 dicembre
1975, esattamente una settimana dopo l'inizio dell'invasione,
l'Indonesia proclamò l'annessione del distretto di Occussi-Ambeno.
Il 18 fu annunciata la costituzione di un sedicente governo
provvisorio di Timor orientale, dominato dall'Apodeti e presieduto da
Arnaldo des Reis Araujo. Il parlamento-fantoccio eletto poi col
compito specifico di ratificare l'annessione di Timor orientale
all'Indonesia, la approvò all'unanimità il 31 maggio 1976. Come suo
ultimo atto ufficiale, il "governo provvisorio" il 24 giugno
rimise il territorio alle autorità di Giacarta, e si sciolse. Per
des Reis Araujo ci fu subito però un gettone di consolazione: i suoi
protettori indonesiani gli sostituirono la carica di capo del governo
con quella di governatore di Timor orientale. Il 15 luglio il
parlamento indonesiano approvò una legge che trasformava
l'ex-colonia portoghese nella ventisettesima provincia degli Stati
Uniti d'Indonesia, e il 16 agosto Suharto (sì, quello stesso che nel
1965 aveva guidato lo sterminio di oltre mezzo milione di comunisti)
proclamò ufficialmente l'annessione. Politicamente, per Giacarta la
questione era chiusa. Per tutto quel
periodo l'attività di guerriglia era continuata violentissima, e nel
corso di tutti questi anni l'esercito indonesiano non è ancora
riuscito a venire a capo di niente. Già impegnato in un'altra guerra
d'occupazione sub-coloniale nelle immense regioni dell'Irian Barat
(Nuova Guinea Occidentale), che si trascina ormai da circa
venticinque anni, esso ha subito a Timor degli scacchi clamorosi.
Varie volte ha tentato la soluzione di forza con delle offensive
massicce, e sempre invano. Nel marzo del 1983 il comandante militare
indonesiano, Purwanto, era giunto a un accordo col FRETILIN per un
cessate-il-fuoco. Ma in agosto 15 militari indonesiani caddero in un
agguato e poco dopo Purwanto fu rimosso e sostituito dal "duro"
Rudito. Suo obiettivo era la repressione definitiva della guerriglia
indipendentista: un obiettivo che né allora, né oggi è stato
peraltro raggiunto.
Contro la
realpolitik delle superpotenze
Come spiegare una
resistenza così lunga ed efficace da parte del FRETILIN, se non
ammettendo un atteggiamento sostanzialmente favorevole da parte della
popolazione? Tatticamente, il terreno dell'isola si presta assai poco
alla guerriglia: pochi lembi di foresta a galleria lungo i corsi
d'acqua, e, per il resto, colline e montagne calcaree e savana
arborata. Anche sul piano internazionale il FRETILIN è isolato. A
parte una protesta formale da parte del Portogallo, il governo
indonesiano non ha mai incontrato resistenze o difficoltà dalla
diplomazia internazionale. Se a Timor si
continua a lottare e a morire, è perché i suoi abitanti sono in
larga misura contrari all'annessione. Essi vogliono poter decidere il
proprio destino e rifiutano l'"inevitabilità" della logica
secondo la quale il pesce grosso mangia il pesce piccolo. Rifiutano
di rassegnarsi perché credono nella giustezza della causa per cui si
battono, e sanno che nell'Indonesia di oggi, militarista e
para-fascista, non c'è spazio per alcuna autonomia o dialettica
politica. Il caso di Timor
offre un ennesimo esempio della cecità e spietatezza della logica
degli stati. In Europa ci son voluti secoli di conflitti e, da
ultimo, due guerre mondiali, per ricomporre i contrasti territoriali
e le politiche antagoniste di potenza: e lo stallo attuale (che è di
vera pace non è lecito parlare) non è dovuto a buona volontà, come
tutti sanno. Nel Terzo Mondo, erede dei confini coloniali, i
conflitti territoriali e le contrapposte politiche di potenza sono
appena agli inizi, ed è difficile prevedere se e quando potranno
essere ricomposti. Difficile se non impossibile dire quando finirà
la guerra del Golfo tra Iran e Iraq, o quando la Libia cesserà di
voler sottrarre il Tibesti al Ciad. Tanto più che il Terzo Mondo
assolve oggi al ruolo di valvola di sfogo delle tensioni fra le due
superpotenze, e tutto il mercato internazionale delle armi (una voce
ormai fondamentale dell'economia mondiale) è fondato su tale
presupposto. Ma - ci si potrà
chiedere - ha senso, oggi, morire per l'indipendenza di una piccola
isola del Sudest asiatico, anzi di una parte di essa; ha senso in un
mondo dominato dai "grandi", lottare per una causa tanto
"piccola", tanto remota e dimenticata da tutti? Gli esempi recenti
dell'Afghanistan e del Nicaragua, del resto, ribadiscono la volontà
dei popoli "piccoli" di non sottostare alla logica delle
grandi potenze, alla realpolitik dei Reagan e dei Gorbaciov.
Ma il cerchio va
spezzato
Tuttavia, opporsi a
una siffatta realpolitik non basta. Occorre contestare
globalmente il diritto degli stati, che perpetuamente innesca la
spirale della repressione politica e sociale. La generazione del '68
ha visto con dolore il suo mito per eccellenza, il Vietnam,
trasformarsi, subito dopo la vittoria sull'imperialismo, in stato
burocratico e imperialista (a spese della Cambogia, e in parte del
suo stesso popolo). È
questo il cerchio che va spezzato. Occorre abbattere
la concezione stessa di stato, quella concezione che ha condotto i
"piccoli" e perfino gli affamati, come l'India o il
Pakistan, sulla strada demenziale dell'arma atomica, né più né
meno dei "grandi" e dei ricchi.
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