Rivista Anarchica Online
Cerchiamo
finalmente di guardare al presente
Vorremmo provare a
mettere per iscritto alcune riflessioni che ci nascono in seguito,
più che agli episodi di "euroterrorismo" in sé, ai commenti
di vario tipo che ne sono seguiti. Ci siamo detti allora che forse le
esperienze di questi anni non sono state una dimostrazione, e vengono
invece vissute semplicemente come un'esperienza soggettiva.
L'esperienza della lotta armata (politica e umana) viene da alcune
parti vista oggi, nel "post-terrorismo", come un errore di
forma e non, più complessivamente, come un errore di metodologia e
teoria. Si imputa cioè il fallimento alle forme organizzative
pensando non che esse deviassero dall'ideologia di fondo, ma che
fossero sovraimposte al fenomeno, soggettivamente di chi viveva
quest'esperienza. In questo modo si dice "loro hanno fatto degli
incidenti di percorso, noi non li faremo". La nostra
riflessione ci fa dire invece che l'esperienza della lotta armata non
poteva produrre altro da quel che ha prodotto. Certo in teoria poteva
andare anche diversamente e le O.C.C. potevano anche vincere lo
scontro militare, anziché perderlo. Non crediamo che questo avrebbe
cambiato significativamente lo scenario del risultato, politico e
umano. Umano nel senso di relazioni personali distrutte o
falsificate, ma anche nel senso di una cultura espressasi nella
violenza e che della stessa si nutre. Tutto questo era
insito nei modelli interpretativi e trasformativi, nelle ideologie
che hanno guidato la lotta armata e avrebbero dato i loro frutti nel
caso di una vittoria così come li hanno dati nella sconfitta. Sorge
legittima una sorta di interrogativo e cioè: perché non provare a
sganciarsi da simili modelli, pur conservando coscienza di quello che
è stato e la tensione ad esprimere istanze libertarie e di
trasformazione? Interrogativo al quale seguono riflessioni che
riteniamo di carattere generale e necessarie a superare, in senso
positivo, gli accadimenti. Le utopie sono tra
di loro fondamentalmente simili, sia che si tratti di utopie
"progressiste" sia che si tratti invece di quelle
"conservatrici". La fondamentale identità sta nel carattere
proprio dell'Utopia, che è quello di rimandare a un futuro in cui si
realizzerà quella determinata forma sociale. Così è per le Utopie
che prefigurano una trasformazione dell'esistente come per quelle che
reggono lo Status quo. Infatti anche l'utopia del Capitale prevede
una società posta nel futuro, in cui la forza economica e
scientifica del progresso porterà ad un benessere diffuso. Ogni
Uomo, insomma, cerca la felicità, vorrebbe possederla, ma non
trovandola si costruisce dei mondi futuri, siano essi frutto di
trasformazione o di evoluzione del presente, sempre allontanati nello
spazio e nel tempo. Ed ecco che comunque, sia nelle teorie della
liberazione che in quelle della conservazione o della restaurazione,
il presente scompare, viene annullato nello spazio mitico del futuro
assoluto o del passato altrettanto assoluto. È
qui il nocciolo della questione. Viviamo in un mondo
che tutti coloro che lo abitano, sia che lo governino o che siano
governati, reputano bruttissimo e invivibile. E, infatti, le
prospettive concrete di questa società si situano tra la distruzione
nucleare catastrofica e la più lenta ma non meno tragica morte
ecologica per esaurimento delle fonti energetiche e per inquinamento. Cerchiamo allora di
guardare finalmente al presente, perché altrimenti il futuro in cui
collocare l'Utopia rischia di scomparire veramente nell'Utopia. Con
la distruzione definitiva del mondo non ci sono più spazi né tempi
in cui collocare sogni e/o desideri; e guardare al presente vuol dire
distogliersi dai Grandi Progetti e avere il coraggio di guardare al
particolare. Salvare il salvabile in un mondo che va a pezzi è una
strategia che può permettere di pensare ancora ad un possibile
futuro, una possibilità di schivare la catastrofe. Salvare il
salvabile può significare concretamente la riappropriazione del
territorio geografico, sociale, relazionale, in cui ognuno di noi
vive. Recupero di una dimensione umana dei rapporti, ma anche
recupero ed invenzione di sistemi abitativi e produttivi che non
distruggano l'ambiente e anzi lo arricchiscano. Questa società è un
serpente che si morde la coda e all'interno dei suoi modi-sistemi non
c'è speranza, è solo ponendosi fuori, concretamente, che ci si può
salvare. Non solo perché si renderebbe possibile un futuro migliore,
ma soprattutto perché si renderebbe vivibile il presente. Le
soddisfazioni non andrebbero poste nell'utopico "Futuro
Paradiso" ma nel concreto processo creativo del vivere in
armonia con gli altri e col mondo. Tutto ciò in
coerenza con l'interrogativo iniziale, finalizzato allo sganciarsi da
modelli che tendono ad aderire al sistema e da altri che vorrebbero
creare la vita producendo però morte. In tutto ciò la lotta armata
non ha alcun senso, non solo per i motivi già detti, ma anche in
caso di difesa di "territori liberati" (una comunità che
si difende presuppone già l'idea di Esercito Patria e Stato), e
soprattutto perché questa logica del salvare il salvabile non si
pone contro ma al di fuori, in un altro territorio che non prevede
collisioni con questo. E, detto tra parentesi, ci si domanda sa non
sia il caso di abbandonare l'immagine di una società divisa in
classi, che oltre ad essere vecchia, riflette solamente l'utopia
economicistica di uomini prodotti dalle merci, per rivolgersi invece
all'immagine di una società di uomini/persone. Pur nella
contraddittorietà e limitatezza del discorso, il senso che ne nasce
è la segreta speranza che qualcuno voglia ascoltare...
Nella Montanini, Valeria Vecchi, Ivan Zerlotti (Parma)
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