Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 129
giugno 1985


Rivista Anarchica Online

Arcobaleno comuni
di Fausta Bizzozzero / Massimo Panizza

Viaggio tra alcune tribù della nuova era: storie personali e collettive, progetti, speranze di sei comunità sugli Appennini e in Toscana

Quando Giovanni Rossi nel lontano 1890 partì per il Brasile e fondò la Colonia Cecilia (cfr. "A" 24) le reazioni degli anarchici italiani, pur con diverse sfumature, non furono in genere entusiaste.
Erano anni di lotte sociali, di tentativi insurrezionali, di grandi speranze rivoluzionarie, quindi la decisione di andarsene per tentare di realizzare il sogno di "vivere l'anarchia" poteva anche essere vissuta come una fuga, un abbandonare il proprio posto di combattimento nella guerra sociale. Ma Giovanni Rossi e i suoi compagni di avventura in realtà non erano "disertori", erano solo dei precursori, degli anticipatori di un anarchismo esistenziale, tant'è vero che ancor oggi vengono ricordati proprio per aver proposto - ed attuato - il modello comunitario come mezzo per ii cambiamento sociale: costruire una micro società in cui praticare le proprie idee nella vita quotidiana, nei rapporti interpersonali (liberandosi di tutti i condizionamenti social-culturali), nell'organizzazione del lavoro; insomma, trasformare la vita in politica e la politica in vita, ecco in sintesi gli scopi della Colonia Cecilia.
Un esperimento decisamente anticipatore, almeno per l'Italia, dove bisognerà aspettare il '68 perché queste esigenze rifacciano capolino ed altri tentativi comunitari vengano attuati. In quegli anni si riaccende, in un'infima minoranza del movimento anarchico, l'interesse e il dibattito su questi temi, ma senza arrivare a sbocchi concreti: qualche progetto mai realizzato, qualche documento, qualche discussione, tutto finisce lì. Mentre per la maggioranza le critiche, che a suo tempo venivano fatte alla Colonia Cecilia, restano sostanzialmente immutate. Fino a questi ultimi anni, in cui la crisi generalizzata del modo tradizionale di "far politica" ha portato ad un necessario ripensamento del nostro modo d'essere e di fare, all'emergere di tensioni verso un anarchismo globale - non solo ideologico ma "stile di vita" - e, di conseguenza, a un interesse per tutto ciò che si muove fuori e tra le maglie del sistema esprimendo - più o meno confusamente - valori simili ai nostri.
Da tempo avevamo intenzione di affrontare il tema "comuni" ma l'incontro con i compagni di Huehuecoyotl (di cui abbiamo pubblicato un'intervista sull'altro numero di "A") e le informazioni che da loro abbiamo avuto ci hanno fatto decidere. Ne abbiamo scelte alcune che per un motivo o per l'altro ci sembravano interessanti nell'Appenino Tosco-Emiliano e nella zona di Siena, ci siamo messi in contatto con loro e abbiamo approfittato delle vacanze pasquali per andarci. Ecco il resoconto di questo viaggio che vi proponiamo così come noi l'abbiamo vissuto, nella speranza che anche chi legge possa trovarvi gli stimoli, gli spunti, l'interesse che vi abbiamo trovato noi.

Qui inizia una nuova vita

I compagni di Forlì, da cui pernottiamo, ci indicano la strada per arrivare all'imbocco del sentiero per Pian Baruccioli. Riusciamo comunque a sbagliare e chiediamo informazioni presso un gruppo di case. Il sentiero scende a fondo valle - ci dicono - attraversa il ruscello e risale fino alla cresta. Fino alla cresta? Non è possibile! Invece è vero, e seguiamo sbuffanti il sentiero ripidissimo - scopriremo poi che per questo si chiama l'Arrabbiata - fino alla cresta: abbiamo di fronte un'ampia vallata e dall'alto scorgiamo un gruppo di "zappatori" che stanno vangando un campo. Seguiamo il sentiero che scende - che gioia! - ed arriviamo al villaggio. Di fronte alle case, al sole, c'è un gruppo di "zappatori" e insieme raggiungiamo gli altri al campo.
Ci sediamo nel prato, all'aria di questa valle luminosa. Siamo tutti un po' imbarazzati: c'è un po' di contrasto tra le vanghe affondate nelle zolle e il registratore appostato nell'erba, è naturale. Ma un po' alla volta la nostra chiacchierata si anima. Chi ci racconta la storia di Pian Baruccioli? Gerry rompe il ghiaccio: "Siamo qui da otto anni; veniamo da tutte le parti: Romagna, Veneto, Lombardia... Due persone hanno iniziato l'occupazione, poi quattro, poi sempre di più. Adesso siamo 14, compresi tre bambini. All'inizio non era proprio un'occupazione: avevamo un permesso a voce da uno dei padroni. Qui sono molti i padroni, almeno 16. Dopo un anno volevano sbatterci fuori, hanno dato il foglio di via a tutti e ci hanno fatto un processo, ma ce la siamo cavata: credo sia stata la prima volta in Italia. Però abbiamo perso il processo di occupazione di case e terreni e dobbiamo pagare un affitto minimo all'anno. Tuttora continuiamo ad occupare terreni ed alcune case: proprio oggi devono venire a sbatterci fuori da una casa che abbiamo risistemato. Perciò siamo così all'erta!" E adesso capiamo perché ci osservavano con tanta attenzione mentre ci avvicinavamo.
In questi giorni a Forlì hanno manifestato in piazza - montando il loro bellissimo tepee (imitazione nostrana delle tende degli Indiani d'America) - per il problema della residenza che il Comune di S. Benedetto rifiuta a quasi tutti, e per la casa occupata per cui hanno perso il processo.
L'obiettivo degli "zappatori" (Giambardo di 38 anni - uno dei fondatori; Marino di 35, Gerry di 31, Ulisse di 31, Puiana di 31, Pyrol di 28, Ender di 28, Piera di 27, Simonetta di 26, Gianna di 25, Spino di 25, Enea di 3, Serafino di 2, e Sara di 1) è di essere autosufficienti. Nessuno di loro lavora più all'esterno se non saltuariamente o nella raccolta delle olive per avere olio. Fanno anche borse o altri oggetti in cuoio da vendere a Natale. "Insomma in qualche modo ci procuriamo il poco denaro che ancora ci serve - continua Gerry - ma preferiamo in ogni caso fare scambi con le altre case che ci sono qui intorno". Scopriamo che Pian Baruccioli pullula di gruppi, meno numerosi, ma simili come impostazione: Enrico, di 40 anni, seduto qui tra noi, abita appunto in una delle altre case (ce ne sono 13-14 nella vallata).
"Vendiamo anche verdura e un po' di formaggio al mercato di Marradi - aggiunge Spino - e per la sussistenza in inverno conserviamo in barattoli tutti i prodotti dell'orto e produciamo salumi!". A Pian Baruccioli si allevano mucche e capre per il latte e il formaggio, maiali per i salumi e poi pollame e conigli. Ci sono anche due cavalli e un mulo.
La vita quassù presenta indubbiamente dei vantaggi, ma questa scelta racchiude un coraggio che non può venire meno. L'autosufficienza è dura da raggiungere, ogni giorno ci si gioca la sopravvivenza. Credo che Spino riesca ad esprimere ciò che rappresenta per tutti quassù la necessità di rimanere: "Qui riusciamo a vivere del nostro lavoro, della nostra terra. Forse dire uomini liberi è troppo, ma senza padroni si assapora un po' di libertà. Queste case, abbandonate da anni, rappresentano una bella possibilità di vita: è chiaro che noi stiamo sperimentando in prima persona, ma tantissima gente che sta vivendo situazioni allucinanti in città potrebbe fare altrettanto. La campagna è piena di posti come questo, da occupare, da rimettere in produzione".
I rapporti con i contadini della zona purtroppo non sono buoni. Rimangono i pregiudizi accumulati nel periodo iniziale, quando qui arrivava molta gente e rimane l'incomprensione per il loro rifiuto dei mezzi moderni come il trattore. "Non capiscono - dice Simonetta - che noi quassù viviamo in libertà, senza un padrone, e siamo felici, che mangiamo bene...".
"È un peccato - aggiunge Spino - perché certi lavori possono insegnarceli solo gli anziani e la loro esperienza andrà perduta se non la trasmettono ai giovani".
I loro percorsi hanno avuto per meta finale, la vita naturale di Pian Baruccioli, ma sono intricati e anche molto differenti. Li accomuna l'insoddisfazione - quella, per intenderci, che scuote i giovani nel '68 come nel '77 - la ribellione, la ricerca. Così, per quelli che hanno girato il mondo "on the road" percorrendo le carovaniere per l'India, per quelli che hanno fatto militanza in città, per quelli che hanno conosciuto l'eroina e per altri ancora Pian Baruccioli e questo modo di vivere rappresentano ora l'equilibrio e la riconciliazione con se stessi. "Adesso l'unico riferimento è la natura - dice Giambardo - guardando lei, guardi te stesso: poche cose, semplici, ma importanti".
"Qui inizia una nuova vita - aggiunge Spino - secondo i tempi delle stagioni che passano, scanditi dalla diversità di ciò che la terra richiede e di ciò che la terra può offrirci. Vivere secondo questi tempi rappresenta la legge fondamentale per l'armonia. Quando si arriva quassù con esigenze diverse l'esperienza fallisce, sicuramente".
La comunità è gestita con una cassa comune - un contenitore comune, specifica Spino, perché è quasi sempre vuoto - dalla quale si attinge il denaro necessario agli acquisti principali come il grano, lo zucchero, il sale.
C'è un collegamento soprattutto con gli altri gruppi che abitano la vallata e con gli Elfi del Gran Burrone. Si incontrano quando capita e fanno un po' di festa insieme; in queste occasioni si scambiano esperienze di lavoro e prodotti. Proprio in questi giorni Paolo di Aquarius, una delle comunità che visiteremo, sta girando questa zona per trovare un luogo ideale per l'incontro comunitario dell'Arcobaleno. Forse si compirà - all'insegna di questo simbolo che nei suoi colori raccoglie tutte le diversità - un primo passo verso la conoscenza reciproca della consistente realtà comunitaria, e verso il riconoscimento della necessità di un collegamento solido e della costruzione di una rete sociale parallela: e sarà quest'estate, forse proprio tra queste montagne, sulle sponde dell'Acquacheta, per la prima volta in Italia. È un grosso discorso, ma non è prematuro parlarne anche se il passo precedente è la risoluzione dei problemi interni. È importante, crediamo, anche per chi ne è al di fuori valutare questa grossa possibilità per le potenzialità che racchiude.
A Pian Baruccioli non c'è luce elettrica e ci sono problemi di acqua durante i mesi estivi. È in progetto lo sfruttamento di una sorgente con portata sufficiente al funzionamento di una piccola turbina; ma il costo - sensibile per la loro economia - ne ritarda la realizzazione. In passato sono falliti purtroppo tre tentativi di sfruttamento dell'energia eolica. A parte l'energia per l'illuminazione gli abitanti di Pian Baruccioli si trovano d'accordo nel rifiutare qualsiasi "tentazione tecnologica": no alle motoseghe, no ai trattori, no alla lavatrice, no al surgelatore...
Alla fine della chiacchierata Spino ci accompagna a visitare il villaggio. Le case sono interamente di pietra, costruite con una tecnica semplice ma accurata. La luce filtra da piccole finestre rendendo suggestivi gli ambienti riscaldati da grandi camini. In un locale sono raccolti tutti i numerosi attrezzi utilizzati nei campi e per le riparazioni. Ci infiliamo tra le case, scendendo e salendo scale e viottoli, attraversando stanze e corridoi: è stato fatto un gran lavoro e ne rimane altrettanto dove ancora bisogna ristrutturare. Purtroppo non è ancora la stagione di splendore per gli orti e non riusciamo a vedere quelli che, più tardi e in altre comunità, saranno definiti come "gli orti più belli". Quassù, grazie alla pazienza di Giambardo, si ottengono risultati sorprendenti anche con la permacoltura di Fukuoka. Questa tecnica, nota per non richiedere l'aratura, comincia a dare frutti solo dopo anni di preparazione del terreno.
In cucina c'è una bella polenta sul fuoco e un invito graditissimo a far parte della tavolata. Peccato disporre di un tempo che segue altre leggi... i nostri passi si dirigono verso l'Arrabbiata.

Il trattore controverso

Strano effetto mettersi in macchina dopo questo bagno salutare in una natura incontaminata dalla tecnologia. Riprendiamo a malincuore il nostro viaggio. Dopo il passo del Muraglione la strada curva in una sequenza di ripidi tornanti. Blocchiamo la nostra instabile andatura in prossimità della casa Perticava, dove ci danno le coordinate del podere Vetriceto. Da lì ci incamminiamo a piedi su una stradina fangosa che si snoda in un bosco odoroso di ginepro. Prima della casa, sulla destra, ci sono inequivocabili segni di aratura con trattore.
Il primo a venirci incontro è un bellissimo cane; poi sulla porta si affacciano Nino e Piero. Insieme a loro c'è un'amica di una casa vicina con la sua bambina.
La casa che abitano è una baita di pietra ancora senza luce, ma sono intenzionati a sfruttare la ricchezza di acqua installando una turbina. Tutta la zona è abitata da alcuni nuclei di poche persone. Non troviamo qui una vera e propria comunità, ma alcune realtà, separate tra loro, collegate da un rapporto di collaborazione e solidarietà. "Questo rapporto - precisa Piero - è totalmente informale; loro non possiedono terra e quindi in questo senso gli si dà una mano e per il resto ci si trova un po' da noi, un po' da loro per parlare, per far festa".
Nino e Piero hanno acquistato il podere, altri sono in affitto e altri ancora hanno occupato e hanno grossi problemi col padrone che è un proprietario terriero della zona. "Le sue terre arrivano fino a Pian Baruccioli - dice Nino - e si può permettere tutto, anche di spianare una montagna per coltivare avena marzolina nel fango". Nino e Piero sono qui da un anno e cercano di tirare su dalla terra quello che serve loro per vivere. Integrano i loro prodotti facendo scambi e lavorando ogni tanto all'esterno perché chiaramente il regime di totale autosufficienza richiede tempo.
I rapporti con la gente del luogo sono buoni su un versante, pessimi al di là del passo, verso Pian Baruccioli. "L'autorità locale ogni tanto ci infastidisce con scuse insignificanti - afferma Piero - ma non possono comunque fare molto perché abbiamo ottenuto la residenza".
Una domanda che ci preme sempre fare riguarda l'approccio che si vuole avere nei confronti della tecnologia, perché siamo convinti della validità di un suo utilizzo equilibrato che permetta all'uomo di risparmiare tempo e fatica. Infatti, secondo noi, vivere nella natura non significa dimenticare il piacere di una buona lettura o del riposo o comunque di uno spazio da dedicare a se stessi.
Ma effettivamente Piero ci fa notare che una lavatrice e un trattore inquinano e che per pagarli bisogna lavorare per altri: "Non mi va bene". Insomma la tendenza è di rifiutare. Non ci sentiamo di criticare una scelta tanto radicale; comunque queste persone si oppongono alla distruzione che la società sta attuando giorno dopo giorno e va a loro tutta la nostra ammirazione, anche se abbiamo la sensazione che non sia necessariamente solo questa la strada efficace che dobbiamo percorrere per ritrovare un equilibrio più umano. Nei millenni l'uomo ha sempre cercato - per fortuna! - di inventare e di adoperare il cervello per facilitare quei lavori che gli richiedono un enorme dispendio di energia. L'avvento della tecnologia ha rappresentato un salto nella qualità della vita di tanti contadini e di tanta povera gente che ha conosciuto solo la fatica della lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Cos'è che ha provocato lo squilibrio che ci chiede di correre ai ripari? Non la possibilità di usare un trattore - ben venga il trattore - ma l'uso indiscriminato che della tecnologia si è fatto.
Nino ha 27 anni, a Firenze faceva ii maestro elementare. "Mi sono reso conto - dice - del divario che esisteva tra l'ideologia e la mia vita di tutti i giorni. Sono entrato in crisi nell'attività con Lotta Continua e mi sono accostato agli indiani metropolitani. Con alcuni di loro abbiamo affittato una casa vicino a Siena e da allora non mi sono separato da questo tipo di vita. Credo che questo sia un modo di fare politica più utile per me, ma anche per gli altri".
Piero ha 23 anni, è di Monza. Nonostante l'età "vanta" anni di lavoro come operaio alla Breda. "Ci sono entrato a 14 anni - dice - era una vita impossibile. Ho avuto esperienze politiche deludenti e sono giunto a questo tipo di lotta, più individuale ma più efficace".
Conoscono bene sia gli "zappatori" di Pian Baruccioli che gli Elfi del Gran Burrone. Allevano le capre, il pollame e dei conigli, ma sei li ha appena divorati un magnifico gatto che sta completando la sua digestione accanto al camino. C'è anche un cavallo che il prossimo anno verrà utilizzato per l'aratura. Anche qui Fukuoka è celebrato in qualche metro quadro di coltura sperimentale. Quando esco fuori per fare fotografie faccio un bruttissimo incontro: un grosso papero dallo sguardo torvo mi squadra con le sue pupille concentriche e tenta un attacco. Mi metto in salvo tornando in casa.
È ora di salutare Nino e Piero. Li accompagniamo con la macchina al "Fornello", oltre il passo, dove si trovano con alcuni amici. E dondolando tra le curve - assordandoci con una nuova serie di preoccupanti rumori - il nostro potente mezzo si avvia verso Scarperia dove - finalmente! - potremo abbandonarci ad un sonno rigeneratore.

Una rivista un progetto

La strada che percorriamo non è molta. Lasciamo alle spalle il Falterona e l'Alpe di S. Benedetto e attraversiamo il Mugello sotto un cielo primaverile che promette tempesta, ma la luce crepuscolare ci sta rilassando e il tempo che ci separa dalla partenza - solo una manciata di ore - ci sembra tanto più lungo. Da Dicomano a Vicchio e poi Borgo S. Lorenzo e Scarperia, sempre risalendo il fiume Sieve, animati dallo scambio di impressioni e di idee, quelle che ciascuno ripone in un angolo di memoria per rifletterci poi, con calma. Seguendo le indicazioni arriviamo ad una strada sterrata, ripida, piena di buche, ma percorribile in macchina; in fondo, tra gli alberi, una luce: è la redazione-casa della rivista AAM-TERRANUOVA.
Rosalba, Maria Grazia e Pino - trasferitisi qui da qualche tempo - ci accolgono cordialmente. Poco dopo siamo già a tavola a gustare alcuni piatti tipici della cucina macrobiotica. Osserviamo attentamente le loro abitudini, il rigore e l'attenzione nel misurare i condimenti, gli accostamenti di cibi diversi, le quantità dei cereali e delle granaglie: in ogni scelta l'osservanza di un'educazione alimentare sana e apparentemente nessun sacrificio, nessuna rinuncia. Ci preme sottolineare di questi amici il rapporto libertario che sanno esprimere e l'atteggiamento puramente propositivo delle loro indicazioni. Esempio lampante ne è la figliola di Rosalba, a tavola con noi questa sera; per lei nessuna dieta: patate fritte, formaggio, ecc., ecc.,; normale, no? Se i figli sono ben educati seguono la loro strada e sbagliare aiuta a crescere. A fine pasto lavo i piatti con la sola cenere della stufa: è la prassi qui.
Dopo cena rimaniamo a chiacchierare con Maria Grazia fino a tardi, mentre Rosalba e Pino vanno a Scarperia dove c'è una conferenza sull'alimentazione. Prima di coricarci ci accorgiamo che il lavandino del bagno scarica in un secchio d'acqua che, in questo modo, si può riciclare per il water. Nonostante l'acqua non manchi, viene consumata con molta parsimonia e comunque il più possibile riciclata. Il risveglio ci coglie impreparati. Basterebbe un buon caffè a ritrasformarci in "supermen". Ripieghiamo sull'orzo, ma in tutta sincerità, dopo aver salutato gli amici di AAM, ci siamo rifatti al primo bar.
Intervistiamo Rosalba e Maria Grazia, perché Pino, per alcuni impegni, è partito presto. AAM è nato nel 1977, dall'incontro di Bologna, dove c'era una commissione su "agricoltura, alimentazione, medicina", come bollettino di coordinamento, poiché varie persone erano interessate ad un collegamento permanente su questi temi. Fino all'80 è rimasto tale, poi è stato integrato con una visione globale di vita: ecco perché l'aggiunta in testata del messaggio "Terranuova". "Da due anni a questa parte - continua Rosalba - è stato incentivato un decentramento delle attività e delle responsabilità che prima erano concentrate solo su di noi e sono stati promossi dei gruppi in varie città. Attualmente sono dieci e funzionano bene per quanto riguarda l'organizzazione di attività - feste, convegni, corsi - un po' meno bene per quanto riguarda l'impegno redazionale".
AAM funziona quindi come collegamento di una sensibilità che si esprime soprattutto nell'alimentazione e nell'ecologia. In questo momento, grazie ai verdi, questa sensibilità sta gonfiando una moda. "Il rischio - conferma Rosalba - è che la moda possa svuotare del suo significato la spinta al cambiamento che questo discorso può rappresentare nell'attuale momento di crisi esistenziale. E la forza di questo movimento d'opinione, privata del suo significato propositivo, si vanificherebbe in tempo breve. D'altra parte, anche se l'accrescimento progressivo dell'inquinamento e l'incrementarsi delle sue conseguenze rendono le persone molto sensibili a questi problemi, pochi riescono a prendere in mano la situazione perché siamo troppo abituati a delegare tutto, mentre si tratterebbe di diventare autori della propria vita. Anche noi, che da tanti anni lo proponiamo agli altri, abbiamo delle difficoltà a non lasciarci riassorbire dal consumismo e a volte è faticoso".
Proprio per questi motivi AAM non fa un discorso di massa; si rivolge piuttosto a chi è alla ricerca di qualcosa per evitare il lato consumistico (peculiare di ogni moda) e per non disperdere le poche energie disponibili in un progetto magari molto più vasto, ma necessariamente superficiale. "È anche vero - continua Rosalba - che bisogna iniziare da piccole cose, attuando la rivoluzione dentro di noi ed evitando di teorizzare, come si è fatto in passato, sistemi astratti di combattere".
Ai lettori che seguono AAM da anni se ne accostano continuamente nuovi che conoscono casualmente il giornale e vi trovano gli stimoli che cercano. (AAM tira attualmente diecimila copie e ha raggiunto tremila abbonamenti). "Abbiamo il grosso problema - dice Maria Grazia - di saldare le esigenze degli uni e degli altri ovvero di chi ha interesse ad approfondire e di chi ha bisogno viceversa di un discorso propedeutico. Si cerca di proporre, ma anche di offrire delle possibilità concrete con l'intento di non creare stimoli e desideri irrealizzabili".
"Come progetto - continua Rosalba - cerchiamo anche di creare posti di lavoro: ad esempio, c'è chi si interessa della diffusione delle nostre pubblicazioni e chi fa corsi di alimentazione e di agricoltura nelle scuole, che hanno sempre un fondo destinato ad attività d'appoggio. La scuola è un ambiente molto fertile, è importante offrire ai ragazzini idee un po' più sane. Avendo più tempo e più persone preparate - purtroppo non ce ne sono molte - ci sarebbe da fare un grande lavoro sociale facilitato da interesse e disponibilità crescenti a causa del malessere sempre più diffuso.
Periodicamente AAM organizza delle feste in giro per l'Italia. Maria Grazia ce ne spiega la funzione: "Avendo rinnegato il credo cristiano, non ci riconosciamo nei momenti di festa ufficiali. Però, rifacendoci alle culture di popoli nativi, abbiamo scoperto l'importanza della festa e stiamo portando avanti una ricerca per riacquistare questo valore attraverso la natura e le sue scadenze: abbiamo scelto gli equinozi e i solstizi che segnalano i cambi di stagione. A questo si è aggiunto il bisogno di avere un contatto sociale con le persone. Ogni festa nasce in luoghi diversi per avere l'opportunità di conoscere nuove realtà e per creare contatti, eventuali coordinamenti, e amicizie tra persone che magari prima non si conoscevano: è molto importante collegare persone su uno stesso territorio". "La festa - aggiunge Rosalba - oltre a soddisfare il bisogno di serenità - e lo si percepisce dall'energia positiva che si sprigiona - deve costituire uno stimolo a possibilità concrete collegate anche al lavoro, che possono nascere dalla conoscenza tra i partecipanti e dal suo successivo sviluppo".
Rosalba, Maria Grazia, e Pino sono forse le persone che in questi anni hanno seguito con maggiore attenzione l'avvicendarsi del fenomeno comunitario in Italia. Secondo loro, lo sviluppo comunitario che ha avuto origine negli anni '60 si è esaurito nei suoi principi ispiratori, prettamente politici. Di quella vasta realtà ereditiamo i frutti di una profonda crescita dei protagonisti, quelli che spinti da un "vero" ideale non sono stati riassorbiti dai percorsi tipici e che hanno maturato attraverso quegli anni di rigido schematismo un modo nuovo di "vivere la politica". Questo grazie anche alla selezione che si è ingenerata in queste comunità, selezione che ha inciso sui valori affinitari che cementano più fortemente gruppi meno numerosi. "E adesso - afferma Rosalba - si riscontra un fiorire di gruppi affinitari, del tutto nuovi o gruppi di "esplosi" delle vecchie comuni, ricchi di una spinta più reale - perché integrata da valori esistenziali oltre che politici - che valorizza a lungo termine l'esperienza. Infatti, perché aggregazioni numerose resistano nel tempo, deve esserci un forte valore spirituale legante. La spiritualità permette di superare i propri egoismi personali, principali meccanismi responsabili della disgregazione. In realtà spesso ci manca la voglia di mediare, perché come figli di questa nostra società diamo troppo spazio alla testa pensando che le nostre elucubrazioni siano importantissime".
Tutto sommato però, rimanere in pochi per imparare a vivere e cominciare a costruire diversamente, potrebbe essere un inizio per qualcosa di più importante. Esistono tanti modelli in giro, tanti esempi che costituiscono altrettante possibilità e siamo tutti d'accordo nel riconoscerne l'importanza. A mattina inoltrata interrompiamo la chiacchierata e la visita a questi amici, certi della possibilità di instaurare un proficuo rapporto di collaborazione. "Arrivederci a presto!", e il viaggio continua.

La prossima tappa è il "gran burrone", abitato dagli "elfi del bosco"; ci avvolge un'atmosfera curiosa, come se viaggiassimo a ritroso: "C'era una volta il gran burrone abitato dagli elfi del bosco", così il racconto potrebbe continuare; e volteggiando nella macchina del tempo ci ritroviamo su una strada di montagna e ogni curva, ogni tornante è tempo a ritroso che percorriamo.

Il magico mondo degli elfi

La valle è stretta in questa punto: il torrente la percorre sul fondo e nello spazio che rimane ci sono poche case ai lati della strada. Sui ripidi versanti solo boschi di castagni. La scritta è un po' stinta sul muro scrostato, ma si legge "locanda dei cacciatori". Ci fermiamo e chiediamo - come ci è stato scritto - degli Elfi del Gran Burrone. L'ostessa sorride, ci risponde allegramente con il suo bell'accento: "... prima dell'ultima casa c'è un sentiero che sale, non potete sbagliare". Prepariamo il sacco e ci incamminiamo.
Il sentiero è ripido, ma curva piacevolmente in mezzo al bosco. È un sentiero curato, di quelli che raramente si trovano ancora tra le montagne. Fino al primo pianoro ci accompagna il rumore della strada, ma gli alberi se lo rimbalzano e ne attutiscono il fastidio. Poi il sentiero piega decisamente verso l'interno e da questo momento il mondo che conosciamo sparisce definitivamente; adesso siamo in una valle di elfi e rimaniamo in silenzio ad ascoltare il soffice brusio del sottobosco. E dietro una curva vediamo tra gli alberi un villaggio di pietra. È arroccato su un "gran burrone" e schiacciato contro la montagna, pronto ad accogliere ogni raggio di sole. Il sentiero smette di salire e costeggia il pendio; arriviamo ad un lavatoio poi, un po' più avanti, entriamo nel villaggio.
La prima casa è ancora tra gli alberi; davanti c'è un grande tavolo rotondo di legno massiccio e panche e sgabelli. Ci viene incontro Paco, con un po' di stupore negli occhi simpatici. Ci accompagna tra le case ed entriamo in cucina. La porta si apre su un buon odore di resina e ci avvolge il tepore del grande camino acceso. Conosciamo Roberto, Franco, Davide, Marilena e un'altra ragazza che non parla italiano. Non cogliamo subito i loro volti: è poca la luce che penetra dalla finestra e, anche se sono solo le due, la candele sono già accese sul tavolo. Le ragazze impastano insieme un enorme pane integrale; hanno gesti lenti che scandiscono il tempo che non manca e che riscoprono il piacere di antiche tradizioni. Le candele illuminano due bellissimi occhi neri che ci salutano ridendo: è Davide che scrive sui suoi quaderni di scuola e ogni tanto infila le mani nel grande impasto del pane.
La macchina del tempo ci ha portati indietro di cinquant'anni, in una cucina di contadini montanari: ma gli elfi non sono contadini da generazioni, solo pochi anni fa erano studenti e operai.
Roberto ha 28 anni, è di Modena e dopo la scuola è entrato in fabbrica come operaio specializzato. C'è rimasto per 5 anni, ma: "la vita di fabbrica e di città non soddisfaceva le mie esigenze. Allora non sapevo né cos'era una comunità, né cos'era la vita in campagna, anche se ho sempre amato la natura. La fabbrica mi ha scosso profondamente e ha roso il mio sistema nervoso. Lasciata la fabbrica ho fatto altri lavori per un anno e mezzo e ho conosciuto l'eroina e la prigione. Poi con Paolo siamo partiti all'avventura. Al festival di AAM di Sant'Arcangelo abbiamo conosciuto della gente che ci ha dato l'indirizzo del Gran Burrone, ma prima di salire quassù abbiamo continuato a girare alla ricerca di una nuova dimensione reale in cui vivere. Quando siamo arrivati qui c'erano poche persone, Alberto, Sergio, Giovanni e Giulio... no, Giulio non c'era ancora; la situazione delle case era peggiore, ne abitavamo una sola. Sono rimasto perché ho trovato l'ambiente giusto, al mio ritmo, ho trovato il dialogo con le persone e un rapporto soddisfacente con la natura. Provengo da una famiglia comunista e fino al '77 ho militato nella FGCI, dopo ho lasciato il PCI e la politica intesa come organizzazione: quello che conta per me è l'autoconsapevolezza individuale. La società oggi è la negazione dell'essere umano; possiamo salvarci solo ritrovando l'equilibrio con la terra e con la natura".
Paco ha 22 anni, lavorava in Spagna, aveva la macchina, doveva fare il militare e poi sposarsi: "... un giorno ho mandato tutto a quel paese e me ne sono andato". Ha cominciato a girare l'Europa prima da solo e poi con Roby finché tre anni fa sono arrivati qui.
Marilena abitava in un paese della provincia lombarda; studiava e lavorava saltuariamente durante l'estate finché ha lasciato l'università e tutto quanto. Per un po' ha tirato avanti con le raccolte stagionali di frutta, poi un amico ha parlato a lei e a un altro ragazzo del "Gran Burrone" e ci sono venuti per un periodo: "In seguito abbiamo deciso di tornarci perché ci piaceva il posto, il sistema di vita, il rapporto con gli altri. Anch'io ho avuto contatti con l'estrema sinistra, e mi sono impegnata soprattutto in collettivi di donne".
Anche Davide un po' timidamente ci racconta la sua storia. Vive al Gran Burrone da un anno e ci sta molto bene. Ogni giorno scende al paese per andare a scuola; prima, quando suo padre era in galera, era affidato ad una famiglia. Poi il padre è venuto qua ed è riuscito a riaverlo, ma a condizione che il bambino continuasse la scuola. "E tra l'altro è un bene che ci vada - dice Paco - perché qui non ci sono altri bambini in età scolare. Se ce ne fossero di più si potrebbe creare qualcosa per tutti".
Entra un elfo con delle uova che deposita sul tavolo. Che ne facciamo? Decidono di fare un dolce. Intanto sto armeggiando con la macchina fotografica e il flash. L'imbranatura che già possiedo nei confronti dell'attrezzo è in questo luogo rinforzata dalla mia reticenza ad entrare con l'obiettivo in una situazione così aliena dalla tecnologia, ma Franco, ex-fotografo, mi cava dall'impiccio e mi dà una mano. Anche lui ci dice qualcosa del suo passato: "Sono vissuto a Milano e... ho detto tutto. Politicamente ho avuto contatti con tutta l'estrema sinistra a parte gli anarchici e poi... poi ho lasciato tutto quando ho cominciato con la "roba". Adesso ho 23 anni, sono qui da un anno e mezzo, sto bene".
I villaggi abitati dagli elfi sono quattro : il Grande e il Piccolo burrone, la casa Sarti e il Pian dei Casali. Paco ci racconta che due villaggi sono occupati: uno da un anno con molti problemi perché è della Comunità Montana, l'altro da cinque anni ed è di alcuni vecchi del paese. Gli altri due villaggi sono in affitto a una cifra simbolica per 10 anni. La gestione dei villaggi è giornaliera: "Tutti i giorni - continua Paco - vediamo quello che c'è da fare. Non esiste formalmente un momento di riunione: qui si vive con gli altri tutto il giorno e si parla mentre si mangia o mentre si lavora e si decidono le semine, le provviste e tutto il resto. L'unico obiettivo che ci proponiamo è vivere così, migliorando gradatamente, ma cercando di eliminare ogni rapporto economico con l'esterno. E chiaramente l'autosufficienza permette di sopravvivere solo con ciò che riusciamo a produrre. Abbiamo orti, frutteti e animali; produciamo miele e farina di castagne. Una possibilità interessante è lo scambio con altre comunità. Siamo in contatto soprattutto con Pian Baruccioli; c'è un sentiero che ci collega e che passa su queste montagne, che siamo riusciti a ricostruire in cinque o sei viaggi. Adesso in quattro giorni a piedi arriviamo, e abbiamo ritrovato i passaggi per poterci andare anche a cavallo. Abbiamo intenzione di realizzare questi scambi a metà strada, dove ci sono splendidi campi di lamponi. E intanto raccogliere frutta per la marmellata".
Anche l'economia degli Elfi è giornaliera; la cassa comune è sempre vuota. I soldi che servono se li procurano facendo lavori esterni come la raccolta della frutta e delle olive. C'è chi fa dell'artigianato: bracciali, orecchini, cinture, maschere. Il padre di Davide coltiva lombrichi per la pesca.
Davide non è l'unico elfo-bambino. Ce n'è un altro, nato quassù l'8 di aprile dell'anno scorso, senza levatrice ci dice Marilena: "È stato un parto tranquillo, breve, abbiamo assistito tutti a turno". E Roberto aggiunge: "Il primo parto, però, andò male, e quella volta c'era la levatrice. Il bambino morì perché il cordone ombelicale era avvolto intorno al collo".
Roberto ci offre una tazza di tisana calda; l'atmosfera è rilassata nonostante la nostra intrusione. La chiacchierata continua e Paco ci conferma l'impressione avuta in paese: "Il rapporto con la gente è bellissimo. Parliamo spesso, ci raccontiamo le nostre cose giù all'osteria. A livello di conoscenza e di esperienza però non è granché. Quando abbiamo raccontato che quassù sono cresciuti i peperoncini si sono meravigliati molto. Se ci manca il fieno ce lo danno, abbiamo anche lavorato con loro alcune volte. Ci hanno insegnato a fare la farina di castagne e a potare le piante: senza di loro avremmo impiegato molto di più".
Nei confronti della tecnologia i pareri si differenziano. C'è chi, come Roberto, è favorevole all'utilizzo di una motosega o di un motocoltivatore per diminuire la fatica e il tempo che alcuni lavori richiedono, e chi, come Paco, è contrario: "Se qui arrivasse la strada io me ne sarei già andato". Tutti comunque sono d'accordo sulla possibilità di utilizzare forme di energia alternativa come quella eolica per l'illuminazione. Lasciare la "civiltà" non significa eliminare i problemi perché il rapporto con la natura non è solo idilliaco quando le scelte sono così radicali. La selezione tra gli Elfi di queste montagne è continua: "Due-tre mila persone sono passate di qua - afferma Paco - ma pochi se la sono sentita di rimanere. A me piace ricordare questo detto: i problemi non ci sono perché non li vogliamo. C'è chi ha esigenze diverse, nascono anche nei rapporti interpersonali, ma in questi casi la vita quassù diventa impossibile e il sentiero ricollega alle infinite altre possibilità. Questo luogo è magico, bisogna capirlo. Secondo me l'unico cambiamento valido deve essere radicale, netto. Io voglio seminare e mangiare le mie patate. Non do e non chiedo nulla alla società. Avrò qualche problema perché la società non mi lascia tranquillo, ma non mi impedirà di vivere. La gente è divorata dalla nevrosi e si avvelena di psicofarmaci, eppure danno la caccia a noi come se fossimo animali. Ma posso assicurarvi che le realtà come la nostra stanno moltiplicandosi. Due di noi sono arrivati quasi a Roma con i cavalli, quest'inverno, e hanno trovato tantissima gente che ha scelto di vivere in campagna e in montagna. Tutto questo è ancora nascosto, ma per ora è importante che questa tendenza esista. Lo sviluppo, i collegamenti, gli scambi poco per volta verranno; ci vuole solo un po' di tempo. È importante adesso che ci riconoscano come forza. Hanno cercato di mandarci via più volte, ma non ci sono riusciti perché non capiscono chi siamo: la politica non ci interessa, nessuno di noi vota, non siamo terroristi e nemmeno drogati. Pensano che siamo matti, ma va bene così: la gente del posto ci vuole bene e noi possiamo continuare a crescere. Qui siamo felici; la sera si fa festa, ci sono le chitarre e il pianoforte che abbiamo portato su in undici".
Mentre si parla nuovi Elfi fanno capolino in cucina, c'è chi si rade ritagliandosi due basettoni triangolari, c'è chi assaggia la pasta del pane e la trova un po' acida. Le galline sono scappate dal recinto, ma è normale; un cucciolo tutto nero si infila scodinzolando sotto il tavolo. Ci sarà qualcosa da fare anche per lui: il villaggio va difeso dalle numerose volpi. Le case e le stanze sono rimaste come allora; ma sono stati rifatti molti tetti ed è stata portata l'acqua. Il pollaio è molto bello, recintato da una fitta palizzata. C'è una serra che serve come semenzaio.
Prima di salutarci Paco corre in una casa e torna con un corno luccicante. "Con questo comunichiamo nella valle" ci dice, ed emette un lungo suono. Lo abbracciamo ed eccoci di nuovo sul sentiero. Scendiamo felici, colmi di sensazioni che gli Elfi hanno saputo regalarci con la loro semplicità... questo è un posto magico!

La tecnologia possibile

La strada bianca si snoda sinuosa tra boschi e vigneti. Abbiamo ancora negli occhi le immagini del Gran Burrone, immagini di una natura selvaggia, di una bellezza aspra. Quanta diversità! Qui il paesaggio è dolcissimo, fatto di colline e vallate in cui il lavoro millenario dell'uomo si è fuso armoniosamente con le caratteristiche del territori. Siamo nel cuore della zona del Chianti: qua e là, sui cocuzzoli delle colline, antichi borghi medievali testimoniano un passato di vita dura e sottomessa per generazioni di contadini. Si respira aria di storia, di cultura, di benessere. Eppure, eppure non riusciamo a scacciare le immagini del Gran Burrone, di Paco e degli altri. Imbocchiamo il viale di cipressi che porta alla "Chiara di Prumiano", un piacevole borgo anch'esso: una corte quadrata composta da case di contadini, completamente ristrutturate, da una chiesetta e da una villa settecentesca molto bella in fase di ristrutturazione.
Le automobili sono numerose, segno che non siamo i soli visitatori in questi giorni di vacanze pasquali, ed infatti c'è un gran via vai di gente, adulti, ragazzi, bambini. Scopriremo poi, a spiegazione del fervore osservato, che si sta organizzando una festa per il giorno di Pasqua e che sono arrivati i primi ospiti di un'attività di agriturismo che la cooperativa sta iniziando proprio ora. Veniamo comunque subito individuati da Antonio: Gaia, il nostro "contatto" - ci dice - è ancora fuori per vivai, ma non tarderà ad arrivare. Nel frattempo ci sistema nella sua casa e organizza la nostra chiacchierata serale.
La sensazione che abbiamo è decisamente piacevole: siamo in un piccolo villaggio pieno di gente diversa e di attività. Le case sono singole, cioè una casa per ogni nucleo familiare, ma del tutto aperte e infatti è un continuo entrare e uscire di persone per consultarsi su un problema contingente, per scambiarsi informazioni, per accordarsi sui dettagli della festa in programma. C'è una circolazione continua di persone, idee, informazioni, bambini, animali. Un po' frastornati (abbiamo lasciato da poche ore il Gran Burrone ed ora siamo piombati in una realtà del tutto diversa) attendiamo Gaia giocando con Arianna, la piccola figlia sua e di Antonio.
La casa, come tutte le altre, è grande ed accogliente, ristrutturata con grande buon gusto dai "nobili" proprietari precedenti (ma, si sa, ai nobili buon gusto e cultura non sono mai mancati, mica dovevano preoccuparsi della sopravvivenza, loro!) che intendevano farne un villaggio turistico. Con l'arrivo di Gaia - ha potuto trovare poche piante, perché l'inverno rigidissimo ha fatto danni enormi anche nei vivai e i prezzi sono saliti alle stelle - cominciamo a chiacchierare di comuni, di quelle che abbiamo già visitato, delle nostre impressioni, e dell'ultima che ci attende, Aquarius, con cui - scopriamo da Gaia e Antonio con grande piacere - la "Chiara" ha rapporti abbastanza regolari, e anzi ci pregano di invitarli alla festa di Pasqua visto che domani andremo da loro.
Gaia sta preparando la tesi di laurea proprio sulle comuni, e quindi uno scambio di informazioni e di idee non può che essere reciprocamente utile. Eccoci finalmente seduti intorno al tavolo della cucina con Antonio, Gaia, Egidio; più tardi, dopo che avrà messo a dormire il loro piccolo figlio, arriverà anche Rita, la sua compagna, mentre gli altri membri della cooperativa sono impegnati in altre cose.
Centellinando un bicchiere dell'ottimo Chianti prodotto dalla Chiara ci facciamo raccontare come e perché sono approdati a questa esperienza. Antonio ha 32 anni e ha una storia abbastanza "classica" per ex sessantottini. Ha abbandonato giovanissimo scuola e famiglia, è campato facendo mille mestieri saltuari (ma a quel tempo - ci dice - si concepiva il lavoro solo come una necessità di sopravvivenza, non certo come realizzazione personale), ha fatto attività politica prima nel movimento studentesco, quindi nel Comitato Vietnam. Poi ha viaggiato moltissimo in Europa, India, Oriente, infine in Africa: "nel frattempo erano passati gli anni e mi rendevo conto che era arrivato il momento di lavorare, ma poiché non avevo alcun mestiere decisi di andare in Australia dove perlomeno la semplice forza lavoro era meglio retribuita. Una decisione destinata a non avverarsi poiché proprio allora mi capitò l'occasione, che accettai insieme a Gaia, di gestire un bar in un paesino qui in Toscana. Qui, io che non avevo mai amato la terra, ho cominciato ad apprezzare i ritmi diversi della campagna maturando a poco a poco la decisione che mi ha portato a creare la "Chiara". Se esiste un filo che attraversa la mia vita? Certo che esiste, ed è la mia dimensione collettiva: sempre ho voluto fare le cose insieme ad altri, non ho mai sentito l'esigenza di isolarmi. E poi sono sempre stato alla ricerca di qualcosa. Anche ora, qui, vivo questa esperienza che mi piace molto, ma so che prima o poi finirà o sfocerà in qualcos'altro".
La storia di Gaia, 29 anni, è abbastanza parallela: un periodo di militanza politica in un'organizzazione dell'Autonomia Operaia, molto traumatico perché "non si poteva mai essere se stessi, bisognava sempre essere duri e all'altezza", un periodo di viaggi intorno al mondo, e un'attività teatrale prima con gruppi sperimentali, poi con Dario Fo. "Ma in realtà - dice Gaia lucidamente - malgrado il possibile successo di questo lavoro, non me la sentivo proprio di indirizzare la mia vita in quel senso perché significava continuare, seppure su un altro piano, la schizofrenia di prima, quando facevo politica, mentre io volevo riunire vita e politica e lavoro, cioè riunire la teoria alla pratica. Per questo è stata creata la "Chiara", perché qui, pur con tutte le difficoltà che ovviamente ci sono, è possibile cercare questa coerenza, perché qui non si delega nessuno".
Per Egidio, 42 anni, i passaggi sono stati decisamente diversi: nato e cresciuto in un paese lombardo da una famiglia piccolo-borghese, le prime scelte (la scuola, il lavoro) sono state il portato dei valori tipici di quella micro-società e di quegli anni, gli anni '60 del boom economico: il successo, la carriera, il denaro, ecc. Ma lui non riusciva proprio a vedersi come un impiegatuccio che scala categoria dopo categoria per cui a 25 anni, nel 1967, decise di andare a lavorare in Africa. Il periodo africano incide notevolmente sulla sua formazione e i successi professionali non riescono a compensare la sensazione sempre più netta di essere scisso in due: da una parte l'immagine pubblica professionale, dall'altra la profonda adesione alle lotte che la sua generazione sta portando avanti, dal '68 in poi in Italia. "Sono rientrato in Italia - racconta - dove ho continuato a fare il dirigente d'azienda per un po' con questa paranoia che ormai stava diventando schizofrenia; poi ho incontrato Antonio e Gaia e con loro ho trovato una sorta di "affinità collettiva", ho scoperto che volevamo le stesse cose: vivere e lavorare insieme ad altre persone in modo diverso, senza ruoli, ricomponendo anche un'altra scissione che mi era intollerabile, quella tra lavoro manuale e intellettuale".
Sull'importanza di questa integrazione non hanno dubbi né Gaia né Antonio e a noi si allarga ii cuore: non abbiamo fatto domande in questo senso, né li abbiamo sollecitati, quindi queste tre persone così diverse tra loro e da noi, sono arrivate, da sole, in modo assolutamente non ideologico, alle nostre stesse conclusioni. "Personalmente - conclude Egidio - vivo quest'esperienza concreta anche come una sfida, una scommessa contro tutte quelle strutture della società che spingono nella direzione contraria".
Gli altri membri della comunità sono Marcello di 26 anni, Giovanna di 36 con una storia simile a quella di Antonio, Nando di 29, l'unico di estrazione sociale proletaria, con un passato di lotta politica dura e tanti mestieri; Marina di 32: era impegnata politicamente e faceva l'ortofonista; Stefano di 30 anni, diventato erborista per passione e che ancora adesso raccoglie pollini per i vaccini antiallergici; Rita di 39 anni, un'esperienza di militanza nel '68 in Avanguardia Operaia poi come biologa in Africa. Poi Paolo e Franco, due ragazzi di Milano che si sono sistemati in un laboratorio di ceramica ma non vivono alla "Chiara" e l'ex-sindaco di Barberino, un giovane di 65 anni, spirito libero e bizzarro per i più, che ha messo in piedi un laboratorio di restauro ed ha trasmesso a tutti l'amore per le cose vecchie, per gli oggetti d'uso comune - agricolo e non - ormai spariti e che lui cerca invece e raccoglie e accatasta nei magazzini della villa. "Tant'è - dice Gaia - che siamo intenzionati, non appena avremo il tempo, a catalogarli e sistemarli affinché questi pezzi di storia del lavoro umano non vadano dimenticati".
Ma la "Chiara" non è stata la prima esperienza agricola. Prima, per due anni, si sono fatti le ossa in un altro podere - Le Querce - imparando da zero a coltivare vigna e ulivi, a vinificare, a produrre olio, a conoscere il mercato, e a gestire gli aspetti commerciali. Certo sono stati fortunati poiché si sono potuti permettere di non guadagnare per tutto quel periodo, ma l'avventura ha dato i suoi frutti in termini di conoscenza, professionalità, chiarezza d'idee, "capitali" che si sono rivelati preziosi nell'impostazione e gestione della "Chiara". Antonio sottolinea altri aspetti importanti: "in quel periodo abbiamo capito che la nostra aspirazione non era quella di diventare contadini, perché la vita dei contadini è in realtà una vita grama, al di là delle facili idealizzazioni in cui si può cadere; quello che volevamo era vivere della terra senza rinnegare noi stessi. Poi abbiamo capito cosa significa lavorare con altre persone concretamente, abbiamo verificato quanto è difficile evitare di proiettare sugli altri la propria capacità lavorativa, quanto è difficile accettare che gli altri facciano meno di te. Ma alla fine ci siamo arrivati: il rapporto di lavoro deve essere fondato su una fiducia completa e sulla consapevolezza che ciascuno può dare in misura diversa, in modi diversi, a ritmi diversi".
Ma il cammino per arrivare a questo punto non è stato indolore: "Abbiamo litigato tantissimo - dice Gaia - a volte in modo furibondo e soprattutto tra donne, ma poiché si credeva nell'importanza di ciò che stavamo facendo, non si è mai arrivati alla rottura e piano piano abbiamo imparato ad accettare la diversità dell'altro. Anzi, questa continua ginnastica (che si fa anche ora e che forse faremo sempre) si è dimostrata utilissima anche perché, in un certo senso, costringe a pensare, impedisce che le situazioni si cristallizzino". Per Egidio un fattore importante nell'evoluzione della comunità è stata ed è proprio l'estrema diversità dei membri - delle personalità, delle storie precedenti, della formazione ideologica - che paradossalmente è diventata un elemento unificante anziché disgregante: dai tanti modi di pensare messi in un crogiolo, non si sa come né perché, nasce di fatto un'impostazione comune.
Certo tutto sarebbe più facile se esistesse a monte un ideale preciso comune a tutti, con i suoi dogmi e le sue regole (non è un caso che le comunità religiose funzionino, e bene anche!), ma la vivacità e il dinamismo di un gruppo in continua evoluzione possono solo essere il prodotto della ricerca, del confronto, di un equilibrio che sempre si ricrea in una condizione mentale sempre aperta al cambiamento. E la "Chiara" ci sembra un buon esempio di come si possa funzionare senza alcuna impostazione religiosa o ideologica.
La discussione si sposta inevitabilmente su un livello più concreto, sui rapporti col mercato, sull'immagine che vogliono dare all'esterno, sugli obiettivi produttivi-economici, sull'organizzazione economica interna della comunità. La produzione portante è quella del vino - ottimo, come abbiamo già detto - mentre l'olio è considerato il loro fiore all'occhiello e le marmellate un completamento. Inizialmente hanno puntato su una clientela di privati che è andata ampliandosi, ma ora, raggiunte una media di 50.000 bottiglie per 100 milioni di fatturato lordo, si sono dovuti rivolgere anche a ristoranti e ad altre organizzazioni di vendita. Non hanno problemi nel piazzare i loro prodotti perché hanno sempre puntato sull'alta qualità (che piacere sentire nelle loro voci l'orgoglio del proprio lavoro!) e valutano di raggiungere una produzione ottimale nel giro di due anni.
L'economia interna è a due livelli: il primo riguarda le 4 case e i rispettivi nuclei familiari che hanno economie singole ed autonome; il secondo riguarda la cooperativa che ha una sua cassa comune. Attualmente la cooperativa riesce a dare quattro stipendi (seppur minimi), uno per ogni casa ma di fatto ai maschi (come fa notare Gaia, però, questa distribuzione è ancora in fase di discussione). Antonio vuol precisare meglio l'impostazione, decisamente atipica e significativa, data al problema della proprietà: "Ogni nucleo è proprietario della casa in cui abita, indipendentemente da quanto ha potuto mettere, e ogni socio è proprietario in egual misura della terra, della villa (che però non è ancora completamente pagata) e degli strumenti di produzione. In questo modo ci sembra di aver superato il problema "soldi", affrontandolo da un'ottica che ne ha annullato le potenzialità negative".
In breve tempo, comunque, affiancando alla produzione l'attività di agriturismo a cui è destinata la villa e l'organizzazione di corsi e seminari, la cooperativa dovrebbe riuscire a dare uno stipendio (rigorosamente uguale per tutti indipendentemente dal tipo di lavoro svolto - tengono a precisare) a tutti i suoi membri.
Per quanto riguarda l'organizzazione del lavoro tutti sanno fare tutto, anche se, inevitabilmente, si sono create di fatto nel tempo delle "specializzazioni" dovute agli interessi e alle competenze di ciascuno, per cui Antonio, ad esempio, si occupa della vinificazione con grande passione. Non sempre riescono a far fronte a tutti i lavori - anche perché sono in una fase di impostazione generale e di decollo che richiede notevoli energie, tempo, e la creazione/gestione di una rete di rapporti esterni - per cui a volte si rende necessario un aiuto esterno alla cooperativa.
Su questo discorso è Gaia a sollevare un problema spinoso chiedendoci se nelle comunità già visitate abbiamo notato una ruolizzazione uomo/donna. Rispondiamo di no, che non ci è sembrato, ma che ci siamo fermati troppo poco per poterlo verificare. Per Gaia il problema esiste, è molto grosso, e lo vive in modo ancora più bruciante da quando è nata sua figlia Arianna: "È un problema che mi interessa molto perché ritengo che sia rimasto insoluto, non solo qui, ma anche in altre comunità dove mi è capitato di assistere a scazzi notevoli a questo proposito. E le cose peggiorano quando si fanno i figli perché in quel momento ti vengono richiesti determinati comportamenti a cui si può tentare di sfuggire parzialmente (mantenendo ad esempio degli spazi/momenti di libertà individuale) ma con la coscienza di pagare questi sprazzi a un prezzo altissimo. (...) L'ideologia, in questi ambiti (rapporto uomo/donna/figli/ruoli) serve a ben poco, ed anzi può dimostrarsi dolorosa quando ci si accorge che le idee sono una cosa e la pratica un'altra, che certi meccanismi comportamentali - non so se e quanto di origine culturale o biologica - continuano a riprodursi. (...) Per cui io mi trovo continuamente a dover lottare per non essere del tutto rinchiusa in uno schema, proprio con le persone che mi stanno accanto e a cui voglio un gran bene".
Come darle torto? Come non vedere, anche nelle situazioni più avanzate e coscienti, questi due universi - maschile e femminile - che non riescono a comunicare se non in superficie?
Anche Antonio è d'accordo, perché malgrado tutti gli sforzi compiuti "continuo ad esempio ad essere geloso: il dramma è che in sostanza continuiamo a riproporre i comportamenti dei nostri nonni e padri, che non si riesce a creare un rapporto nuovo". Egidio è consapevole di questa difficoltà ma proprio per questo ritiene che esserne coscienti è un primo passo e che qui alla "Chiara" - proprio perché tentiamo di vivere in modo diverso - qualche piccolo passo è stato fatto, piccolo certo, ma è già un punto di partenza da cui andare avanti". Gaia non è così ottimista ma, ne siamo certi, continuerà a svolgere nel gruppo la sua difficile funzione di sensibilizzazione e responsabilizzazione su questi temi.
Il discorso scivola sui rapporti con le altre comunità, sull'importanza attribuita a questi rapporti, sull'esigenza di costruire una rete solida e permanente. L'accordo è unanime. Gaia, facilitata dal lavoro per la sua tesi, ha molti contatti che spera/vuole sviluppare in modo più organico, ma tutti sono convinti che le comunità, una volta impostate e consolidate all'interno, debbano costruire questa rete che divenga una sorta di società parallela al di là di ogni etichetta e di ogni specificità (naturisti, vegetariani, macrobiotici, ecc.) In questo senso la "Chiara" ha proposto a quelli di AAM - che costituiscono per ora l'unico collegamento tra tutte le realtà comunitarie esistenti - di organizzare un incontro annuale o semestrale in cui per alcuni giorni si possa stare insieme, conoscersi, scambiarsi idee, esperienze, conoscenze e prodotti. E ha offerto di utilizzare la villa come struttura ospitante.
I rapporti con l'esterno, col territorio circostante, sono ottimi, anche grazie all'intelligenza e sensibilità con cui sono gestiti. "L'obiettivo che ci proponiamo - dice Egidio - è di dare alla "Chiara" un'immagine aperta ed anche per questo organizziamo feste ed abbiamo programmato per l'estate due corsi - uno sulla struttura del linguaggio musicale, l'altro sull'informatica (da dove viene, cosa c'è dietro, a cosa porta) - che dovrebbero servire come stimoli anche per la gente che sta qui intorno".
A proposito di informatica c'è una cosa che ci frulla in testa da quando abbiamo visto l'etichetta delle loro bottiglie, un'etichetta stampata con caratteri computerizzati. Come mai questa scelta e cosa pensano della tecnologia? "La scelta dell'etichetta è stata parzialmente provocatoria - dice Antonio - ma in un certo senso rispecchia un po' la mia posizione: se la tecnologia può servire ad ottenere prodotti buoni, naturali, magari biologici, ben venga. Caso mai è un problema di conoscenza, di comprensione e quindi di studio per scegliere la tecnologia più adatta. Noi le macchine, ad esempio, le usiamo perché ci sono indispensabili, ma cercando di non farci prendere la mano dal fascino del trattore più potente di quanto in realtà serva. Anche per i concimi e gli anticrittogamici vale un discorso di buon senso: è chiaro che tendiamo ad arrivare ad una coltivazione biologica, ma sappiamo che ci vorranno anni. Il problema è diverso a seconda che si punti all'autosufficienza o al mercato, come noi. Allora devi fare i conti coi bilanci e le sperimentazioni si possono fare solo gradatamente. Non è un caso che gli esperimenti più avanzati di agricoltura biologica se li possano permettere grandi industrie come la Crespi! Mentre nelle piccole aziende non c'è ancora una pratica e quindi una conoscenza diffusa. Per quanto riguarda il computer il mio atteggiamento è di curiosità e di apertura verso uno strumento che modificherà profondamente la società. Anche qui bisogna vedere l'utilizzo che se ne fa: ho letto che in California verrà fatto un vino assolutamente naturale utilizzando solo macchine e computer nella fase di vinificazione. E non mi sembra affatto negativo".
Anche Egidio è d'accordo: "Se il computer viene usato come memoria di dati ed informazioni utili all'agricoltura - magari dati che i contadini di un tempo conoscevano e si tramandavano in modo più diretto e che noi non abbiamo perché diverso è il nostro passato - non vedo cosa ci sia di negativo nel suo utilizzo. Il problema caso mai risiede da un lato nel meccanismo economico-produttivo perverso in cui la tecnologia è inserita e dall'altro nel solco sempre più profondo che si e venuto a creare tra le macchine e i loro fruitori. Mi spiego meglio: una volta i contadini usavano determinati attrezzi, ma sapevano come erano fatti ed erano in grado di ripararli; mentre oggi qualunque cosa si rompa, dal trattore alla lavatrice, dobbiamo sempre rivolgerci agli specialisti. Di fatto, quindi, sempre più deleghiamo questa conoscenza dietro il mezzo che usiamo. Ecco il problema vero".
La discussione, accesa, prosegue ancora per un po', ma poi qualcuno guarda l'orologio e ci accorgiamo che sono le due di notte. A malincuore decidiamo di andare a dormire. È stata una giornata molto intensa e dobbiamo lasciar decantare le sensazioni, le impressioni, le immagini del Gran Burrone e della "Chiara" che si alternano e si sovrappongono a lungo prima di riuscire a prendere sonno nei nostri sacchi a pelo. Domani ci aspetta "Aquarius". Come sarà?

Alla ricerca di una sintesi

Dalla "Chiara" ad "Aquarius" San Gimignano è un passaggio obbligato. Non resistiamo alla tentazione di una breve sosta che celebriamo con un bicchiere di vernaccia, poi riprendiamo la strada lasciandoci le torri svettanti alle spalle. Siamo entusiasti di quanto abbiamo visto e sentito: si è aperto uno spiraglio attraverso cui abbiamo conosciuto una realtà sommersa, vivace e brulicante, ma siamo anche perplessi perché abbiamo la confusa sensazione di avere toccato, fino ad ora, i due estremi di questa realtà. Da un lato Pian Baruccioli, il podere Vetriceto, il gran Burrone rappresentano una scelta drastica di rifiuto della società dettata da esigenze spirituali ed istintuali il cui dato più significativo è la ricerca di un rapporto "cosmico" con la natura. Dall'altro la "Chiara" esprime un approccio in cui prevale l'elemento razionale, il ripensamento lucido della realtà sociale di se stessi, la determinazione a cambiare la propria vita senza isolarsi dalla società, ma anzi con l'obiettivo di influenzare, nei limiti del possibile, la realtà esterna.
Una ridente stradina bianca sommersa dalla vegetazione ci porta al podere: una grande casa colonica ristrutturata, un fienile, un pollaio, un'aia. Al rumore della macchina esce Paolo, un sorriso simpatico, una testa ricciuta: "Marco sta lavorando nell'orto - ci dice - e gli altri sono sparsi a lavorare nei campi. Io sono a casa perché sono di turno a curare mia figlia". Ci accompagna nell'orto dove Marco sta vangando insieme ad un amico di passaggio della LOC di Firenze. Anna e sua sorella ci salutano da lontano: sono in cima ad un ulivo e lo stanno potando. L'orto è davvero stupendo, frutto dell'intelligente applicazione di varie tecniche biologiche tra cui la permacoltura. Facciamo un giro di perlustrazione scattando fotografie, poi, in attesa che gli altri rientrino dal lavoro, sistemiamo i nostri appunti di viaggio su un prato finché Marco ci chiama in cucina - è il suo turno ai fornelli - per chiacchierare mentre prepara la cena.
La cucina è grande, ben attrezzata per molte persone e dà su una sala da pranzo comune, semplice, ma accogliente: un lunghissimo tavolo abbracciato da un variopinto arcobaleno dipinto sul muro, un camino, delle poltrone, una credenza. Aiutando Marco a preparare la cena (una minestra di miglio e lenticchie e una mega-insalata di erbe varie) chiacchieriamo di alimentazione (sono vegetariani/naturisti ma dopo un periodo di estrema rigidità iniziale hanno trovato un equilibrio dinamico), di agricoltura biologica, di tribù primitive (Marco, ma non solo lui, nutre un grande interesse per i popoli nativi e molti dei valori a cui la comunità si ispira sono mutuati da loro), di "A", di AAM con cui Marco collabora regolarmente, di libri. L'impressione che già avevamo avuto in un fugace incontro a Milano di vivacità e apertura intellettuale si dimostra più che giustificata.
A cena siamo in 14: gli altri membri della comunità (Daniela, Alberto, Anna, Piero e due bambini) e alcuni ospiti (due ragazze di Milano venute per un corso di alimentazione, un'amica veneta in attesa di partorire, col suo ragazzo, un amico di Firenze) e l'atmosfera è molto serena. Concordiamo di fare l'intervista l'indomani mattina e di andare insieme alla festa della "Chiara" nel pomeriggio, ma Sergio ricorda che non possono andare a mani vuote - hanno avuto dalla "Chiara" un bel galletto per il pollaio - e dopo breve discussione decidono che porteranno dei ceci.
Assistiamo per un po' a una riunione in cui si discutono i problemi economici più contingenti, il prossimo corso di cesteria, i lavori più urgenti da fare. Poi saliamo a dormire nella grande sala adibita a biblioteca e sala-corsi, confermandoci l'un l'altra la sensazione reciproca di trovarci in un terzo polo, a metà strada tra gli altri due che avevamo individuato, in cui spiritualità e razionalità si sono fuse armoniosamente.

La terza fase
La mattina un sole splendido e caldo seduce tutti; cerchiamo di svegliarci con un caffè d'orzo e ci sediamo nell'aia - adulti, bambini, animali - con il nostro fedele registratore e con un sacco di ceci che sbucceremo durante un'interminabile chiacchierata. Su nostra richiesta Marco racconta com'è nata l'esperienza di Aquarius: "Con alcuni amici di Milano avevamo cominciato a coltivare un orto periferico e da questo lavoro collettivo sono nati l'amore per la terra e l'esigenza di andare a vivere in campagna in modo comunitario. Abbiamo creato Aquarius nell'estate del 1982 in cinque persone (più un bambino), a cui poi si è aggiunto Paolo. La prima fase, piena di carica e di entusiasmo, è durata pochi mesi, poi sono cominciati a emergere problemi legati alla convivenza, problemi interpersonali, differenze o disaccordi sull'impostazione di fondo, sui rapporti con l'esterno, ed anche il problema economico è diventato determinante: per comprare il podere avevamo dovuto stipulare un mutuo per parecchie decine di milioni che avrebbe condizionato la nostra vita per dieci anni, e quindi l'ansia e la paura di far fronte a questo impegno contribuivano a rendere difficili i rapporti. Problemi economici di sussistenza, ed anche per le spese di sistemazione della casa non ce n'erano, perché coi lavori saltuari esterni e la vendita dei nostri prodotti ce la siamo sempre cavata. Così, dopo un secondo periodo di avvicendamento con persone che si staccavano ed altre che entravano, siamo arrivati a quest'ultima fase in cui siamo più omogenei e affrontiamo i problemi (anche quello economico) con una consapevolezza e tranquillità che ci derivano dall'esperienza precedente e, soprattutto, dall'aver costruito un progetto globale articolato in diverse attività economiche che dovrebbero permetterci di far fronte ai nostri impegni".
Paolo aggiunge che ad aumentare tensioni e conflitti ha contribuito il tentativo di farsi carico di persone disadattate di vario tipo: "Evidentemente non eravamo ancora pronti e maturi per reggere anche questa responsabilità che richiede un sacco di energie; ma tutte le vicissitudini passate ci hanno fatto capire che non si poteva pretendere di dividere sempre tutto con tutti, che era indispensabile (in alcuni momenti) che ognuno potesse stare solo. La concezione strettamente comunitaria iniziale si è quindi trasformata in quella di villaggio comunitario dove ciascuno ha il suo spazio individuale e partecipa (se vuole) ai momenti comunitari. Non sappiamo se questa è la formula più giusta, ma sappiamo che lo è per noi, per le nostre capacità, per la nostra formazione".
Nel frattempo è arrivato un uruguayano che si siede nell'aia con noi. Diciamo che ci interessa conoscere la storia di ciascuno per capire il tipo di formazione e di evoluzione che li ha portati qui ed è Paolo (27 anni) ad intervenire per primo, perché poi ci lascerà per andare a preparare il pranzo (ravioli fatti in casa di erbe aromatiche, tagliatelle al burro e salvia, mega-insalata mista). Ha svolto attività politica per qualche tempo al liceo in un gruppo di base di Autonomia Operaia, ma sempre come cane sciolto, senza identificarsi completamente, ed anzi con la sensazione sempre più netta che l'atteggiamento di chi fa "militanza" sia estremamente limitato; poi ha viaggiato per l'Europa facendo servizi fotografici come free-lance, ha allacciato contatti con il movimento nonviolento e ha fatto un lungo viaggio negli Stati Uniti (ha un forte interesse per gli indiani d'America) che è diventato una sorta di "iniziazione" alla vita. Al ritorno l'incontro, molto importante, con quelli di AAM che progettavano la fondazione di un villaggio comunitario (un progetto che non si realizzerà) lo mette in contatto con tutto il movimento alternativo (agricolo, alimentare, ecologico, ecc.); collabora con loro per un po', poi approda ad Aquarius.

"Qui mi trovo bene anche se..."
Daniela ha 25 anni ed un figlio, Giovanni, di 2: "Anch'io, come Paolo, non mi sono mai identificata con nessun gruppo politico, piuttosto mi sono sempre sentita, e mi sento tuttora, anarchica. Ho fatto qualcosa nell'ambito di gruppi femministi in cui mi riconoscevo di più. Poi, anche attraverso l'anarchia, ho incominciato ad interessarmi della vita naturale, a pensare che il mio ideale politico era quello di formare delle comuni decentrate e, parallelamente, a conoscere il vegetarianesimo, ad esplorare un certo misticismo orientale. Ho cercato tanto di realizzare il mio sogno - che è stato anche il sogno di tanti uomini del secolo scorso - poi finalmente ho trovato Aquarius".
Anna, 28 anni e una bambina di 8 mesi, ha seguito strade in parte simili e in parte diverse. Genovese, di famiglia borghese, iscritta a lingue, un lavoro per essere indipendente, insomma una "vita normale ed inutile" senza alcun interesse per la politica. Un primo cambiamento interviene quando si interessa di macrobiotica e cambia la sua alimentazione, poi, il ritorno da un viaggio in Nepal, la decisione: prende della terra abbandonata qui in Toscana e si mette a lavorarla da sola puntando all'autosufficienza completa. Dopo un anno di lavoro e solitudine - molto importante per la sua formazione - si accorge che non le basta più, conosce quelli di AAM e del loro giro e si innamora di Paolo con cui decide di vivere ad Aquarius. Anna è forse - o almeno così ci sembra - la più individualista del gruppo e infatti ci dice: "Qui mi trovo bene, anche se a volte desidero avere più indipendenza individuale, più spazio (non inteso in senso fisico) di quanto qui posso avere".
Per Alberto, 30 anni, di Varese, il primo passo è stato il rifiuto della cultura cattolica: "Pur considerandomi di sinistra non ho mai approfondito le varie ideologie, non mi sono mai piaciuti i partiti e le organizzazioni intruppanti, mentre mi interessavano le filosofie di liberazione individuale. Per un periodo mi sono avvicinato all'Autonomia Operaia, ma non mi piacevano le loro proposte politiche e, ancor meno, la loro pratica, la loro esaltazione dello scontro fisico che a me sembra di stampo fascista. Cresceva in me la voglia di cambiare vita dopo undici anni di lavoro in un negozio: ho incominciato a leggere AAM, ad interessarmi di alimentazione, a vedere che esisteva gente che viveva già in modo diverso e proprio attraverso AAM sono approdato qui. Debbo dire che il discorso comunitario mi interessa, ma non è stata la molla che mi ha spinto; credo sia più importante - o perlomeno prioritaria - la ricerca interiore individuale perché se manca questa base è difficile anche stare bene con gli altri. Per questo - pur non conoscendola - mi piace l'anarchia, perché mi sembra che esalti l'individualità.
Marco, milanese, 26 anni, di estrazione borghese, ha cominciato ad "uscire dal bozzolo" piuttosto tardi, a diciotto anni, ma poi ha bruciato le tappe: ha cominciato a leggere di politica, di sociologia, di filosofia nel tentativo di placare una sete di sapere esplosa prepotentemente, mentre provava militanze politiche diverse - dalla FGCI al Movimento Studentesco, ai radicali - ma intense per quanto duravano. "Anch'io - dice - mi sono sempre sentito anarchico a livello istintivo, ma un interesse più profondo per le idee e la storia dell'anarchismo doveva arrivare successivamente, quando seguendo la mia famiglia ho vissuto per due anni in Canada. Lì ho incominciato a vedere le ingiustizie più macroscopiche e incredibili, lì le mie posizioni si sono radicalizzate, ho rotto con la famiglia ed è cominciato un processo evolutivo sulla base di un approfondimento teorico su diversi piani intimamente correlati: l'anarchia, lo yoga, le filosofie orientali di liberazione interiore, le culture primitive". Poi è tornato in Italia dove ha preso contatto con il movimento nonviolento e con AAM ed ha cercato una sintesi tra queste due aree, l'una segnata da un modo di fare politica "tradizionale", l'altra segnata dal rifiuto della politica.
Ad AAM, a Rosalba, Maria Grazia e Pino lo lega un rapporto culturale profondo oltre che un rapporto d'amicizia, e insieme hanno elaborato una nuova impostazione del giornale, più aperta sia a livello organizzativo che redazionale. "Il mio interesse per la vita comunitaria - conclude Marco - è cresciuto parallelamente a tutte queste esperienze, mano a mano che maturavo come ideale politico la realizzazione concreta delle idee nella vita quotidiana e la fusione degli elementi spirituale, individuale e sociale. Con Aquarius questa ricerca è continuata collettivamente e nel tempo abbiamo individuato i nostri riferimenti teorici e filosofici, i mezzi da usare, gli obiettivi e la finalità di questa esperienza che non si esaurisce nel vivere individualmente e comunitariamente la nostra spiritualità (n.d.r.: a scanso di equivoci con questo termine si intende un rapporto armonioso con il proprio Io, con gli altri, con la natura), ma anche proporsi all'esterno come modello possibile per il cambiamento della società.

Sempre più in sintonia
Ora la sensazione che avevamo provato ieri sera è confermata: in questo terzo polo si cerca di fondere l'esigenza di armonia cosmica, con la razionalità, con la conoscenza e l'analisi della società, in un progetto - molto articolato, meditato ed ampiamente descritto nel loro interessante documento programmatico - che è un progetto di trasformazione sociale. Ci sentiamo sempre più in sintonia con queste persone che tentano di guardarsi dentro senza per questo smettere di guardare fuori, che hanno una caparbia volontà di cambiare se stessi e il mondo. Sarà che il sole è caldissimo, saranno i bimbi che passano beati da una persona all'altra "parlucchiando" a modo loro, sarà l'atmosfera rilassata, ma ci sentiamo proprio bene qui, tant'è che ognuno in cuor suo ha deciso di tornarci.
Affrontiamo ora più concretamente il problema degli obiettivi a breve termine per la realizzazione del progetto. Come hanno pensato di impostare la loro economia? Qual è il loro approccio alla tecnologia in generale e alle tecnologie dolci in particolare? Quali sono le attività sociali interne ed esterne?
"Un obiettivo - dice Marco - è quello di raggiungere un'autosussistenza abbastanza completa sul piano dell'alimentazione aumentando la produzione di cereali e piante da frutta ed eventualmente prendendo altri animali". Ma sugli animali i pareri sono discordanti, c'è chi sostiene - come Marco - che sono importanti per la vita della campagna, per i prodotti che danno, per un equilibrio che contribuiscono a creare (anche se si pone sempre il problema, per i maschi, del che farne) e c'è chi - come Daniela - non ne vede l'utilità ma solo l'eccessivo impegno che richiedono. "Mentre sul piano energetico - continua Marco - ci proponiamo, seppure più lentamente per motivi economici, di arrivare all'autosufficienza attraverso pannelli solari e fotocellule azionate da energia eolica (attualmente sono collegati alla rete elettrica). La creazione - in atto - di un centro di distribuzione a S. Gimignano che sarà gestito da noi e da altri sette poderi agricoli servirà inoltre ad un duplice scopo: da un lato a vendere prodotti biologici e macrobiotici supportando la nostra economia, e dall'altro a funzionare come centro di aggregazione con momenti di incontro e discussioni informali, ma anche con conferenze e dibattiti culturali che stimolino l'interesse del tessuto sociale circostante, che cerchino di far capire ai contadini del luogo che la crisi attuale dell'agricoltura è la diretta conseguenza di precisi interessi economici che, convertendola in agricoltura industriale e chimica, l'hanno resa subalterna e spogliata della sua cultura e della sua potenzialità. Un'altra attività esterna che abbiamo iniziato già l'anno scorso in estate è l'organizzazione di corsi tenuti da persone competenti nei singoli campi che vengono affrontati, ed anche in questo caso l'utilità è duplice, economica (anche se i prezzi sono molto bassi) e culturale, perché li abbiamo impostati in modo da insegnare cose che servano a un processo di liberazione personale e materiale".
La casa se la sono ricostruita loro, con poca o nessuna esperienza alle spalle, dal tetto rifatto ai pavimenti; solo per alcuni problemi particolari hanno chiamato un "esperto", ma, dice Marco "anche se non siamo tutti d'accordo, per imparare bisogna fare le cose in prima persona, magari con più lentezza e sbagliando"; ora hanno in progetto la ristrutturazione del fienile, poi, in futuro, la costruzione di altre case che rendano il "villaggio" realtà.
Distogliamo Paolo dall'elaborazione di magnifici ravioli perché vorremmo discutere anche con lui di un rischio che secondo noi si può porre: ci riferiamo alla mistica della comunità, alla comunità che diventa totem e assume una valenza simbolica superiore a quella del singolo individuo. Marco non ha difficoltà ad ammetterlo: "Nella prima fase è stato proprio così, si doveva dividere tutto e sempre; poi c'è stata una seconda fase in cui, per reazione, ci si è schierati all'eccesso opposto, ma ora siamo in una terza fase in cui crediamo di aver trovato un equilibrio mediano tra le due posizioni, con una gestione conviviale e comunitaria del lavoro, dell'economia, dei processi decisionali, ma cercando di rispettare il più possibile le esigenze individuali, per cui, se uno ad esempio non ha voglia di mangiare con gli altri deve poterlo fare".
Anna è quella che, per il suo carattere, maggiormente ha sentito questo problema, soprattutto in periodi di affollamento, ma ora va molto meglio, anche perché ha una cucina indipendente oltre alla sua camera, per cui mangiare con gli altri è una scelta, non una necessità. "Una cosa che abbiamo capito - aggiunge Paolo - è l'importanza di creare un gruppo che sia abbastanza omogeneo, con delle affinità di base pur con la massima apertura e tolleranza della diversità, quindi un gruppo con una certa solidità quantomeno nella fase iniziale. Poi può forse diventare possibile lavorare e rapportarsi anche con persone e gruppi non affini a noi". Anzi, Alberto e Daniela vedono questa possibilità come estremamente positiva perché la diversità di altri porterebbe nuovi stimoli, nuove idee, nuovi fermenti, insomma porterebbe ad un arricchimento della comunità.
L'organizzazione interna è ben definita, ma non sempre si riesce ad applicare per la mole enorme di lavoro rispetto al numero delle persone ed infatti - sottolinea Marco - per funzionare davvero dovremmo essere almeno in dieci: allora diventerebbe possibile avere i responsabili dei vari settori (orto, bosco, ulivi, animali, api, ecc.) che ruotano in tempi lunghi per acquisire professionalità, allora si riuscirebbe ad avere più tempo per i bambini, per la lettura, per l'arte, ecc., mentre essendo cosi pochi tutti dobbiamo fare un po' di tutto. Speriamo proprio di arrivarci".

Il viaggio continua
Si è fatto tardissimo e Paolo, in ritardo sulla tabella di marcia anche a causa dell'intervista, lancia dalla cucina un grido d'aiuto subito raccolto. A tavola oggi siamo in 17 perché altri ospiti si sono aggiunti: c'è allegria, i ravioli sono riusciti benissimo e c'è anche un dolce portato dai nuovi arrivati che aumenta l'atmosfera di festa. Ormai è ora di avviarsi verso la "Chiara": alcuni vengono con noi, altri restano, Marco parte per Sarzana dove deve incontrare un amico. Lo salutiamo e lasciamo, come d'accordo, in deposito i libri dell'Antistato che abbiamo portato e le riviste: serviranno, oltre che a loro, ai partecipanti dei prossimi corsi.
La "Chiara" è già piena di gente quando arriviamo: uno spagnolo bravissimo suona la chitarra classica su un trattore in una vigna, circondato da ragazzi e ragazze; il cortile suggestivo della villa fa da scenario a un gruppo che suona e balla musica celtica; dentro la villa qua un pianista eccezionale esegue musica classica, là è in corso una jam-session.
Col calar della notte vengono accese grandi fiaccole per illuminare il cortile e vengono approntati i tavoli per la cena. Gaia, Antonio, Egidio e gli altri sono stanchissimi, ma possono essere soddisfatti: la festa è riuscita benissimo.
Anche noi siamo stanchissimi. Il nostro viaggio sta per terminare e l'accumulo di tutte le cose viste, sentite, percepite in questi giorni comincia a farsi sentire. Lasciamo gli amici della "Chiara" e di "Aquarius" con un po' di rimpianto: troppo avaro è stato il tempo per stare insieme, per conoscerci meglio, per discutere di tante cose e per capire più a fondo potenzialità e problemi delle singole realtà. Sarebbe stato molto più proficuo lavorare insieme a loro per un periodo più lungo, dividere la totalità della loro vita perché ci avrebbe permesso di gettare uno sguardo dall'interno, di vedere cose che un viaggiatore di passaggio non può cogliere. Invece abbiamo raccolto testimonianze, informazioni, impressioni, sensazioni e abbiamo cercato di trasmetterle così come le abbiamo vissute, senza cercare di trarre conclusioni o grandi analisi teoriche che richiederebbero un'indagine ben più approfondita - nello spazio e nel tempo - di quella che abbiamo potuto fare.
Ci sembra però di poter proporre alcuni elementi di riflessione che sono emersi in modo abbastanza chiaro. Innanzitutto la dimensione del fenomeno comunitario che supera ogni previsione (solo in Toscana esistono più di 200 realtà) e che verosimilmente coinvolge migliaia di persone: una sorta di risposta, più o meno cosciente, alle scelte autodistruttrici della società, ma anche l'opposizione di nuovi valori ai valori dominanti. Si tratta di una realtà frammentaria e scollegata, ma anche forse - almeno lo speriamo - superata una prima fase di consolidamento interno e di chiarezza, troverà i modi e i mezzi per costruire una rete di rapporti ampliando la sua area di influenza.
La ricerca di una spiritualità, di una armonia cosmica, di un rapporto intenso con la natura è un elemento ricorrente e forse può essere considerata come reazione sacrosanta al dominio della razionalità e delle ideologie che per troppo tempo hanno segnato il cammino della nostra civiltà. Così come è ricorrente l'elemento del "viaggio": per la maggior parte delle persone incontrate viaggiare è stato determinante ai fini della loro evoluzione e della comprensione di se stessi e del mondo. Non è poi tanto strano. Spesso proprio attraverso la conoscenza di altri mondi, di altre culture, di altre dimensioni si riesce a vedere con maggiore chiarezza e lucidità - in modo più distaccato e obiettivo - il proprio mondo, la propria cultura, e si riescono ad individuare i propri desideri e i modi per realizzarli. Spesso, dopo aver tanto viaggiato fisicamente, ci si accorge che il viaggio, individuale e collettivo, continua su un altro piano - non più spaziale e temporale, ma mentale - per tutta la vita. Tutti viaggiamo, noi e loro. Ma ci sembra di aver capito che il luogo ideale di destinazione non sia poi tanto diverso. Ne siamo felici.


Secondo noi di aquarius...

Non intendendo ripercorrere all'indietro un processo storico/evolutivo, riteniamo opportuno l'utilizzo di tutte le energie e le tecnologie alternative che possono servire a semplificare ed abbreviare il lavoro per la sussistenza, a vantaggio delle attività artistiche, culturali e sociali di interesse individuale e collettivo.
Resta comunque ferma la nostra intenzione a ridurre al minimo i nostri bisogni e consumi energetici. I requisiti fondamentali di tutte le tecnologie e macchinari che vogliamo utilizzare dovranno essere:
1) non inquinanti né distruttive per l'ambiente;
2) non dannose, pericolose o "schiavizzanti" per l'uomo;
3) conviviali, intendendo con questo termine che siano semplici, a dimensione d'uomo e di comunità, facilmente apprendibili, gestibili o anche costruibili da un comunità sufficientemente organizzata.

Uno degli scopi del progetto è quello di riuscire a creare un'economia autogestita. Accanto all'economia di sussistenza (autosufficienza) che si completa con un'economia di scambio (baratto), si deve sviluppare un'economia di reddito.
Finché si rimane in buona misura dipendenti dai mercati per soddisfare alcuni bisogni (dalla benzina al pagamento del mutuo), si deve far riferimento all'economia di mercato per valutare il prezzo a cui vendere i propri prodotti. Ma un'economia naturale è fondata sulle risorse della natura e sul lavoro dell'uomo (artigianale e su piccola scala), mentre un'economia industriale utilizza processi su vasta scala sfruttando risorse energetiche, tecnologie sofisticate e lavoro umano. Volendo allora rimanere in un'economia naturale, per entrare nel mercato si dovranno perciò adottare criteri diversi: la qualità, il significato e il valore dei prodotti e dei servizi offerti (...)

L'idea principale è quella di sviluppare le potenzialità del "Poggio" come centro di aggregazione sociale, culturale e di vacanze alternative. Punteremmo soprattutto sull'organizzazione di corsi e campi estivi, riguardanti tematiche della vita alternativa: agricoltura, alimentazione, medicina/salute, artigianato, tecnologie, autocostruzione, ecc. I corsi si concentrano sull'insegnamento tecnico-pratico, ma sono sempre integrati da una presentazione e condivisione e da interventi che ne leghino il contenuto ad un contesto filosofico/sociale, al discorso globale dell'autosufficienza o al "progetto Aquarius". I campi invece possono avere più un carattere di "esperienza di vita", comprendenti una parte di lavoro pratico costruttivo, maggiormente focalizzato sull'aspetto culturale e ideale.

Sia per la dimensione economica che per il valore intrinseco di momenti comuni, ci ritroviamo tutti almeno per un pasto quotidiano e per un'assemblea plenaria mensile (protraibile con sedute consecutive) che ci consentirà di affrontare l'organizzazione e problemi pratici di fondo come pure le decisioni di carattere politico. Altre eventuali brevi assemblee straordinarie possono essere convocate qualora si presentino necessarie risoluzioni pratiche a brevissima scadenza.
È nostro fermo intento che tutte le decisioni comuni siano espressione di unanimità fra noi, affinché chiunque non concordi con le scelte della maggioranza non subisca violenza. Coscienti però dei nostri limiti sulla capacità dell'unanimità sempre e comunque, pur impegnandoci a superarli, accettiamo temporaneamente che solo nei divari su questioni secondarie, o urgenti decisioni tecniche, si possa giungere a decisioni di maggioranza.

(dal documento della comunità Aquarius)