Rivista Anarchica Online
Arcobaleno
comuni
di Fausta Bizzozzero / Massimo Panizza
Viaggio tra alcune tribù della nuova era: storie personali e collettive, progetti, speranze di sei comunità sugli Appennini e in Toscana
Quando Giovanni
Rossi nel lontano 1890 partì per il Brasile e fondò la Colonia
Cecilia (cfr. "A" 24) le reazioni degli anarchici italiani,
pur con diverse sfumature, non furono in genere entusiaste. Erano anni di lotte
sociali, di tentativi insurrezionali, di grandi speranze
rivoluzionarie, quindi la decisione di andarsene per tentare di
realizzare il sogno di "vivere l'anarchia" poteva anche
essere vissuta come una fuga, un abbandonare il proprio posto di
combattimento nella guerra sociale. Ma Giovanni Rossi e i suoi
compagni di avventura in realtà non erano "disertori",
erano solo dei precursori, degli anticipatori di un anarchismo
esistenziale, tant'è vero che ancor oggi vengono ricordati proprio
per aver proposto - ed attuato - il modello comunitario come mezzo
per ii cambiamento sociale: costruire una micro società in cui
praticare le proprie idee nella vita quotidiana, nei rapporti
interpersonali (liberandosi di tutti i condizionamenti
social-culturali), nell'organizzazione del lavoro; insomma,
trasformare la vita in politica e la politica in vita, ecco in
sintesi gli scopi della Colonia Cecilia. Un esperimento
decisamente anticipatore, almeno per l'Italia, dove bisognerà
aspettare il '68 perché queste esigenze rifacciano capolino ed altri
tentativi comunitari vengano attuati. In quegli anni si riaccende, in
un'infima minoranza del movimento anarchico, l'interesse e il
dibattito su questi temi, ma senza arrivare a sbocchi concreti:
qualche progetto mai realizzato, qualche documento, qualche
discussione, tutto finisce lì. Mentre per la maggioranza le
critiche, che a suo tempo venivano fatte alla Colonia Cecilia,
restano sostanzialmente immutate. Fino a questi ultimi anni, in cui
la crisi generalizzata del modo tradizionale di "far politica" ha
portato ad un necessario ripensamento del nostro modo d'essere e di
fare, all'emergere di tensioni verso un anarchismo globale - non
solo ideologico ma "stile di vita" - e, di conseguenza, a un
interesse per tutto ciò che si muove fuori e tra le maglie del
sistema esprimendo - più o meno confusamente - valori simili ai
nostri. Da tempo avevamo
intenzione di affrontare il tema "comuni" ma l'incontro con i
compagni di Huehuecoyotl (di cui abbiamo pubblicato un'intervista
sull'altro numero di "A") e le informazioni che da loro abbiamo
avuto ci hanno fatto decidere. Ne abbiamo scelte alcune che per un
motivo o per l'altro ci sembravano interessanti nell'Appenino
Tosco-Emiliano e nella zona di Siena, ci siamo messi in contatto con
loro e abbiamo approfittato delle vacanze pasquali per andarci. Ecco
il resoconto di questo viaggio che vi proponiamo così come noi
l'abbiamo vissuto, nella speranza che anche chi legge possa trovarvi
gli stimoli, gli spunti, l'interesse che vi abbiamo trovato noi.
Qui inizia una
nuova vita
I compagni di Forlì,
da cui pernottiamo, ci indicano la strada per arrivare all'imbocco
del sentiero per Pian Baruccioli. Riusciamo comunque a sbagliare e
chiediamo informazioni presso un gruppo di case. Il sentiero scende a
fondo valle - ci dicono - attraversa il ruscello e risale fino alla
cresta. Fino alla cresta? Non è possibile! Invece è vero, e
seguiamo sbuffanti il sentiero ripidissimo - scopriremo poi che per
questo si chiama l'Arrabbiata - fino alla cresta: abbiamo di fronte
un'ampia vallata e dall'alto scorgiamo un gruppo di "zappatori"
che stanno vangando un campo. Seguiamo il sentiero che scende - che
gioia! - ed arriviamo al villaggio. Di fronte alle case, al sole, c'è
un gruppo di "zappatori" e insieme raggiungiamo gli altri al
campo. Ci sediamo nel
prato, all'aria di questa valle luminosa. Siamo tutti un po'
imbarazzati: c'è un po' di contrasto tra le vanghe affondate nelle
zolle e il registratore appostato nell'erba, è naturale. Ma un po'
alla volta la nostra chiacchierata si anima. Chi ci racconta la
storia di Pian Baruccioli? Gerry rompe il ghiaccio: "Siamo qui
da otto anni; veniamo da tutte le parti: Romagna, Veneto,
Lombardia... Due persone hanno iniziato l'occupazione, poi quattro,
poi sempre di più. Adesso siamo 14, compresi tre bambini. All'inizio
non era proprio un'occupazione: avevamo un permesso a voce da uno dei
padroni. Qui sono molti i padroni, almeno 16. Dopo un anno volevano
sbatterci fuori, hanno dato il foglio di via a tutti e ci hanno fatto
un processo, ma ce la siamo cavata: credo sia stata la prima volta in
Italia. Però abbiamo perso il processo di occupazione di case e
terreni e dobbiamo pagare un affitto minimo all'anno. Tuttora
continuiamo ad occupare terreni ed alcune case: proprio oggi devono
venire a sbatterci fuori da una casa che abbiamo risistemato. Perciò
siamo così all'erta!" E adesso capiamo perché ci osservavano
con tanta attenzione mentre ci avvicinavamo. In questi giorni a
Forlì hanno manifestato in piazza - montando il loro bellissimo
tepee (imitazione nostrana delle tende degli Indiani d'America) - per
il problema della residenza che il Comune di S. Benedetto rifiuta a
quasi tutti, e per la casa occupata per cui hanno perso il processo. L'obiettivo degli
"zappatori" (Giambardo di 38 anni - uno dei fondatori;
Marino di 35, Gerry di 31, Ulisse di 31, Puiana di 31, Pyrol di 28,
Ender di 28, Piera di 27, Simonetta di 26, Gianna di 25, Spino di 25,
Enea di 3, Serafino di 2, e Sara di 1) è di essere autosufficienti.
Nessuno di loro lavora più all'esterno se non saltuariamente o nella
raccolta delle olive per avere olio. Fanno anche borse o altri
oggetti in cuoio da vendere a Natale. "Insomma in qualche modo
ci procuriamo il poco denaro che ancora ci serve - continua Gerry - ma
preferiamo in ogni caso fare scambi con le altre case che ci sono qui
intorno". Scopriamo che Pian Baruccioli pullula di gruppi, meno
numerosi, ma simili come impostazione: Enrico, di 40 anni, seduto qui
tra noi, abita appunto in una delle altre case (ce ne sono 13-14
nella vallata). "Vendiamo
anche verdura e un po' di formaggio al mercato di Marradi - aggiunge
Spino - e per la sussistenza in inverno conserviamo in barattoli
tutti i prodotti dell'orto e produciamo salumi!". A Pian Baruccioli
si allevano mucche e capre per il latte e il formaggio, maiali per i
salumi e poi pollame e conigli. Ci sono anche due cavalli e un mulo. La vita quassù
presenta indubbiamente dei vantaggi, ma questa scelta racchiude un
coraggio che non può venire meno. L'autosufficienza è dura da
raggiungere, ogni giorno ci si gioca la sopravvivenza. Credo che
Spino riesca ad esprimere ciò che rappresenta per tutti quassù la
necessità di rimanere: "Qui riusciamo a vivere del nostro
lavoro, della nostra terra. Forse dire uomini liberi è troppo, ma
senza padroni si assapora un po' di libertà. Queste case,
abbandonate da anni, rappresentano una bella possibilità di vita: è
chiaro che noi stiamo sperimentando in prima persona, ma tantissima
gente che sta vivendo situazioni allucinanti in città potrebbe fare
altrettanto. La campagna è piena di posti come questo, da occupare,
da rimettere in produzione". I rapporti con i
contadini della zona purtroppo non sono buoni. Rimangono i pregiudizi
accumulati nel periodo iniziale, quando qui arrivava molta gente e
rimane l'incomprensione per il loro rifiuto dei mezzi moderni come il
trattore. "Non capiscono - dice Simonetta - che noi quassù
viviamo in libertà, senza un padrone, e siamo felici, che mangiamo
bene...". "È
un peccato - aggiunge Spino - perché certi lavori possono
insegnarceli solo gli anziani e la loro esperienza andrà perduta se
non la trasmettono ai giovani". I loro percorsi
hanno avuto per meta finale, la vita naturale di Pian Baruccioli, ma
sono intricati e anche molto differenti. Li accomuna
l'insoddisfazione - quella, per intenderci, che scuote i giovani nel
'68 come nel '77 - la ribellione, la ricerca. Così, per quelli che
hanno girato il mondo "on the road" percorrendo le carovaniere
per l'India, per quelli che hanno fatto militanza in città, per
quelli che hanno conosciuto l'eroina e per altri ancora Pian
Baruccioli e questo modo di vivere rappresentano ora l'equilibrio e
la riconciliazione con se stessi. "Adesso l'unico riferimento è
la natura - dice Giambardo - guardando lei, guardi te stesso: poche
cose, semplici, ma importanti". "Qui inizia una
nuova vita - aggiunge Spino - secondo i tempi delle stagioni che
passano, scanditi dalla diversità di ciò che la terra richiede e di
ciò che la terra può offrirci. Vivere secondo questi tempi
rappresenta la legge fondamentale per l'armonia. Quando si arriva
quassù con esigenze diverse l'esperienza fallisce, sicuramente". La comunità è
gestita con una cassa comune - un contenitore comune, specifica
Spino, perché è quasi sempre vuoto - dalla quale si attinge il
denaro necessario agli acquisti principali come il grano, lo
zucchero, il sale. C'è un
collegamento soprattutto con gli altri gruppi che abitano la vallata e
con gli Elfi del Gran Burrone. Si incontrano quando capita e fanno un
po' di festa insieme; in queste occasioni si scambiano esperienze di
lavoro e prodotti. Proprio in questi giorni Paolo di Aquarius, una
delle comunità che visiteremo, sta girando questa zona per trovare
un luogo ideale per l'incontro comunitario dell'Arcobaleno. Forse si
compirà - all'insegna di questo simbolo che nei suoi colori
raccoglie tutte le diversità - un primo passo verso la conoscenza
reciproca della consistente realtà comunitaria, e verso il
riconoscimento della necessità di un collegamento solido e della
costruzione di una rete sociale parallela: e sarà quest'estate,
forse proprio tra queste montagne, sulle sponde dell'Acquacheta, per
la prima volta in Italia. È
un grosso discorso, ma non è prematuro parlarne anche se il passo
precedente è la risoluzione dei problemi interni. È
importante, crediamo, anche per chi ne è al di fuori valutare questa
grossa possibilità per le potenzialità che racchiude. A Pian Baruccioli
non c'è luce elettrica e ci sono problemi di acqua durante i mesi
estivi. È in progetto lo
sfruttamento di una sorgente con portata sufficiente al funzionamento
di una piccola turbina; ma il costo - sensibile per la loro economia
- ne ritarda la realizzazione. In passato sono falliti purtroppo tre
tentativi di sfruttamento dell'energia eolica. A parte l'energia per
l'illuminazione gli abitanti di Pian Baruccioli si trovano d'accordo
nel rifiutare qualsiasi "tentazione tecnologica": no alle
motoseghe, no ai trattori, no alla lavatrice, no al surgelatore... Alla fine della
chiacchierata Spino ci accompagna a visitare il villaggio. Le case
sono interamente di pietra, costruite con una tecnica semplice ma
accurata. La luce filtra da piccole finestre rendendo suggestivi gli
ambienti riscaldati da grandi camini. In un locale sono raccolti
tutti i numerosi attrezzi utilizzati nei campi e per le riparazioni.
Ci infiliamo tra le case, scendendo e salendo scale e viottoli,
attraversando stanze e corridoi: è stato fatto un gran lavoro e ne
rimane altrettanto dove ancora bisogna ristrutturare. Purtroppo non è
ancora la stagione di splendore per gli orti e non riusciamo a vedere
quelli che, più tardi e in altre comunità, saranno definiti come
"gli orti più belli". Quassù, grazie alla pazienza di
Giambardo, si ottengono risultati sorprendenti anche con la
permacoltura di Fukuoka. Questa tecnica, nota per non richiedere
l'aratura, comincia a dare frutti solo dopo anni di preparazione del
terreno. In cucina c'è una
bella polenta sul fuoco e un invito graditissimo a far parte della
tavolata. Peccato disporre di un tempo che segue altre leggi... i
nostri passi si dirigono verso l'Arrabbiata.
Il trattore controverso Strano effetto
mettersi in macchina dopo questo bagno salutare in una natura
incontaminata dalla tecnologia. Riprendiamo a malincuore il nostro
viaggio. Dopo il passo del Muraglione la strada curva in una sequenza
di ripidi tornanti. Blocchiamo la nostra instabile andatura in
prossimità della casa Perticava, dove ci danno le coordinate del
podere Vetriceto. Da lì ci incamminiamo a piedi su una stradina
fangosa che si snoda in un bosco odoroso di ginepro. Prima della
casa, sulla destra, ci sono inequivocabili segni di aratura con
trattore. Il primo a venirci
incontro è un bellissimo cane; poi sulla porta si affacciano Nino e
Piero. Insieme a loro c'è un'amica di una casa vicina con la sua
bambina. La casa che abitano
è una baita di pietra ancora senza luce, ma sono intenzionati a
sfruttare la ricchezza di acqua installando una turbina. Tutta la
zona è abitata da alcuni nuclei di poche persone. Non troviamo qui
una vera e propria comunità, ma alcune realtà, separate tra loro,
collegate da un rapporto di collaborazione e solidarietà. "Questo
rapporto - precisa Piero - è totalmente informale; loro non
possiedono terra e quindi in questo senso gli si dà una mano e per
il resto ci si trova un po' da noi, un po' da loro per parlare, per
far festa". Nino e Piero hanno
acquistato il podere, altri sono in affitto e altri ancora hanno
occupato e hanno grossi problemi col padrone che è un proprietario
terriero della zona. "Le sue terre arrivano fino a Pian Baruccioli
- dice Nino - e si può permettere tutto, anche di spianare una
montagna per coltivare avena marzolina nel fango". Nino e Piero
sono qui da un anno e cercano di tirare su dalla terra quello che
serve loro per vivere. Integrano i loro prodotti facendo scambi e
lavorando ogni tanto all'esterno perché chiaramente il regime di
totale autosufficienza richiede tempo. I rapporti con la
gente del luogo sono buoni su un versante, pessimi al di là del
passo, verso Pian Baruccioli. "L'autorità locale ogni tanto ci
infastidisce con scuse insignificanti - afferma Piero - ma non
possono comunque fare molto perché abbiamo ottenuto la residenza". Una domanda che ci
preme sempre fare riguarda l'approccio che si vuole avere nei
confronti della tecnologia, perché siamo convinti della validità di
un suo utilizzo equilibrato che permetta all'uomo di risparmiare
tempo e fatica. Infatti, secondo noi, vivere nella natura non
significa dimenticare il piacere di una buona lettura o del riposo o
comunque di uno spazio da dedicare a se stessi. Ma effettivamente
Piero ci fa notare che una lavatrice e un trattore inquinano e che
per pagarli bisogna lavorare per altri: "Non mi va bene". Insomma
la tendenza è di rifiutare. Non ci sentiamo di criticare una scelta
tanto radicale; comunque queste persone si oppongono alla distruzione
che la società sta attuando giorno dopo giorno e va a loro tutta la
nostra ammirazione, anche se abbiamo la sensazione che non sia
necessariamente solo questa la strada efficace che dobbiamo
percorrere per ritrovare un equilibrio più umano. Nei millenni
l'uomo ha sempre cercato - per fortuna! - di inventare e di adoperare
il cervello per facilitare quei lavori che gli richiedono un enorme
dispendio di energia. L'avvento della tecnologia ha rappresentato un
salto nella qualità della vita di tanti contadini e di tanta povera
gente che ha conosciuto solo la fatica della lotta quotidiana per la
sopravvivenza. Cos'è che ha
provocato lo squilibrio che ci chiede di correre ai ripari? Non la
possibilità di usare un trattore - ben venga il trattore - ma l'uso
indiscriminato che della tecnologia si è fatto. Nino ha 27 anni, a
Firenze faceva ii maestro elementare. "Mi sono reso conto - dice -
del divario che esisteva tra l'ideologia e la mia vita di tutti i
giorni. Sono entrato in crisi nell'attività con Lotta Continua e mi
sono accostato agli indiani metropolitani. Con alcuni di loro abbiamo
affittato una casa vicino a Siena e da allora non mi sono separato da
questo tipo di vita. Credo che questo sia un modo di fare politica
più utile per me, ma anche per gli altri". Piero ha 23 anni, è
di Monza. Nonostante l'età "vanta" anni di lavoro come operaio
alla Breda. "Ci sono entrato a 14 anni - dice - era una vita
impossibile. Ho avuto esperienze politiche deludenti e sono giunto a
questo tipo di lotta, più individuale ma più efficace". Conoscono bene sia
gli "zappatori" di Pian Baruccioli che gli Elfi del Gran Burrone.
Allevano le capre, il pollame e dei conigli, ma sei li ha appena
divorati un magnifico gatto che sta completando la sua digestione
accanto al camino. C'è anche un cavallo che il prossimo anno verrà
utilizzato per l'aratura. Anche qui Fukuoka è celebrato in qualche
metro quadro di coltura sperimentale. Quando esco fuori per fare
fotografie faccio un bruttissimo incontro: un grosso papero dallo
sguardo torvo mi squadra con le sue pupille concentriche e tenta un
attacco. Mi metto in salvo tornando in casa. È
ora di salutare Nino e Piero. Li accompagniamo con la macchina al
"Fornello", oltre il passo, dove si trovano con alcuni amici. E
dondolando tra le curve - assordandoci con una nuova serie di
preoccupanti rumori - il nostro potente mezzo si avvia verso
Scarperia dove - finalmente! - potremo abbandonarci ad un sonno
rigeneratore.
Una rivista un
progetto
La strada che
percorriamo non è molta. Lasciamo alle spalle il Falterona e l'Alpe
di S. Benedetto e attraversiamo il Mugello sotto un cielo primaverile
che promette tempesta, ma la luce crepuscolare ci sta rilassando e il
tempo che ci separa dalla partenza - solo una manciata di ore - ci
sembra tanto più lungo. Da Dicomano a Vicchio e poi Borgo S. Lorenzo
e Scarperia, sempre risalendo il fiume Sieve, animati dallo scambio
di impressioni e di idee, quelle che ciascuno ripone in un angolo di
memoria per rifletterci poi, con calma. Seguendo le indicazioni
arriviamo ad una strada sterrata, ripida, piena di buche, ma
percorribile in macchina; in fondo, tra gli alberi, una luce: è la
redazione-casa della rivista AAM-TERRANUOVA. Rosalba, Maria
Grazia e Pino - trasferitisi qui da qualche tempo - ci accolgono
cordialmente. Poco dopo siamo già a tavola a gustare alcuni piatti
tipici della cucina macrobiotica. Osserviamo attentamente le loro
abitudini, il rigore e l'attenzione nel misurare i condimenti, gli
accostamenti di cibi diversi, le quantità dei cereali e delle
granaglie: in ogni scelta l'osservanza di un'educazione alimentare
sana e apparentemente nessun sacrificio, nessuna rinuncia. Ci preme
sottolineare di questi amici il rapporto libertario che sanno
esprimere e l'atteggiamento puramente propositivo delle loro
indicazioni. Esempio lampante ne è la figliola di Rosalba, a tavola
con noi questa sera; per lei nessuna dieta: patate fritte, formaggio,
ecc., ecc.,; normale, no? Se i figli sono ben educati seguono la loro
strada e sbagliare aiuta a crescere. A fine pasto lavo i piatti con
la sola cenere della stufa: è la prassi qui. Dopo cena rimaniamo
a chiacchierare con Maria Grazia fino a tardi, mentre Rosalba e Pino
vanno a Scarperia dove c'è una conferenza sull'alimentazione. Prima
di coricarci ci accorgiamo che il lavandino del bagno scarica in un
secchio d'acqua che, in questo modo, si può riciclare per il water.
Nonostante l'acqua non manchi, viene consumata con molta parsimonia e
comunque il più possibile riciclata. Il risveglio ci coglie
impreparati. Basterebbe un buon caffè a ritrasformarci in
"supermen". Ripieghiamo sull'orzo, ma in tutta sincerità, dopo
aver salutato gli amici di AAM, ci siamo rifatti al primo bar. Intervistiamo
Rosalba e Maria Grazia, perché Pino, per alcuni impegni, è partito
presto. AAM è nato nel 1977, dall'incontro di Bologna, dove c'era
una commissione su "agricoltura, alimentazione, medicina", come
bollettino di coordinamento, poiché varie persone erano interessate
ad un collegamento permanente su questi temi. Fino all'80 è rimasto
tale, poi è stato integrato con una visione globale di vita: ecco
perché l'aggiunta in testata del messaggio "Terranuova". "Da
due anni a questa parte - continua Rosalba - è stato incentivato un
decentramento delle attività e delle responsabilità che prima erano
concentrate solo su di noi e sono stati promossi dei gruppi in varie
città. Attualmente sono dieci e funzionano bene per quanto riguarda
l'organizzazione di attività - feste, convegni, corsi - un po' meno
bene per quanto riguarda l'impegno redazionale". AAM funziona
quindi come collegamento di una sensibilità che si esprime
soprattutto nell'alimentazione e nell'ecologia. In questo momento,
grazie ai verdi, questa sensibilità sta gonfiando una moda. "Il
rischio - conferma Rosalba - è che la moda possa svuotare del suo
significato la spinta al cambiamento che questo discorso può
rappresentare nell'attuale momento di crisi esistenziale. E la forza
di questo movimento d'opinione, privata del suo significato
propositivo, si vanificherebbe in tempo breve. D'altra parte, anche
se l'accrescimento progressivo dell'inquinamento e l'incrementarsi
delle sue conseguenze rendono le persone molto sensibili a questi
problemi, pochi riescono a prendere in mano la situazione perché
siamo troppo abituati a delegare tutto, mentre si tratterebbe di
diventare autori della propria vita. Anche noi, che da tanti anni lo
proponiamo agli altri, abbiamo delle difficoltà a non lasciarci
riassorbire dal consumismo e a volte è faticoso". Proprio per questi
motivi AAM non fa un discorso di massa; si rivolge piuttosto a chi è
alla ricerca di qualcosa per evitare il lato consumistico (peculiare
di ogni moda) e per non disperdere le poche energie disponibili in un
progetto magari molto più vasto, ma necessariamente superficiale. "È
anche vero - continua Rosalba - che bisogna iniziare da
piccole cose, attuando la rivoluzione dentro di noi ed evitando di
teorizzare, come si è fatto in passato, sistemi astratti di
combattere". Ai lettori che
seguono AAM da anni se ne accostano continuamente nuovi che conoscono
casualmente il giornale e vi trovano gli stimoli che cercano. (AAM
tira attualmente diecimila copie e ha raggiunto tremila abbonamenti).
"Abbiamo il grosso problema - dice Maria Grazia - di saldare le
esigenze degli uni e degli altri ovvero di chi ha interesse ad
approfondire e di chi ha bisogno viceversa di un discorso
propedeutico. Si cerca di proporre, ma anche di offrire delle
possibilità concrete con l'intento di non creare stimoli e desideri
irrealizzabili". "Come progetto -
continua Rosalba - cerchiamo anche di creare posti di lavoro: ad
esempio, c'è chi si interessa della diffusione delle nostre
pubblicazioni e chi fa corsi di alimentazione e di agricoltura nelle
scuole, che hanno sempre un fondo destinato ad attività d'appoggio.
La scuola è un ambiente molto fertile, è importante offrire ai
ragazzini idee un po' più sane. Avendo più tempo e più persone
preparate - purtroppo non ce ne sono molte - ci sarebbe da fare un
grande lavoro sociale facilitato da interesse e disponibilità
crescenti a causa del malessere sempre più diffuso. Periodicamente AAM
organizza delle feste in giro per l'Italia. Maria Grazia ce ne
spiega la funzione: "Avendo rinnegato il credo cristiano, non ci
riconosciamo nei momenti di festa ufficiali. Però, rifacendoci alle
culture di popoli nativi, abbiamo scoperto l'importanza della festa e
stiamo portando avanti una ricerca per riacquistare questo valore
attraverso la natura e le sue scadenze: abbiamo scelto gli equinozi e
i solstizi che segnalano i cambi di stagione. A questo si è aggiunto
il bisogno di avere un contatto sociale con le persone. Ogni festa
nasce in luoghi diversi per avere l'opportunità di conoscere nuove
realtà e per creare contatti, eventuali coordinamenti, e amicizie
tra persone che magari prima non si conoscevano: è molto importante
collegare persone su uno stesso territorio". "La festa - aggiunge
Rosalba - oltre a soddisfare il bisogno di serenità - e lo si
percepisce dall'energia positiva che si sprigiona - deve costituire
uno stimolo a possibilità concrete collegate anche al lavoro, che
possono nascere dalla conoscenza tra i partecipanti e dal suo
successivo sviluppo". Rosalba, Maria
Grazia, e Pino sono forse le persone che in questi anni hanno seguito
con maggiore attenzione l'avvicendarsi del fenomeno comunitario in
Italia. Secondo loro, lo sviluppo comunitario che ha avuto origine
negli anni '60 si è esaurito nei suoi principi ispiratori,
prettamente politici. Di quella vasta realtà ereditiamo i frutti di
una profonda crescita dei protagonisti, quelli che spinti da un
"vero" ideale non sono stati riassorbiti dai percorsi tipici e
che hanno maturato attraverso quegli anni di rigido schematismo un
modo nuovo di "vivere la politica". Questo grazie anche alla
selezione che si è ingenerata in queste comunità, selezione che ha
inciso sui valori affinitari che cementano più fortemente gruppi
meno numerosi. "E adesso - afferma Rosalba - si riscontra un
fiorire di gruppi affinitari, del tutto nuovi o gruppi di "esplosi"
delle vecchie comuni, ricchi di una spinta più reale - perché
integrata da valori esistenziali oltre che politici - che valorizza a
lungo termine l'esperienza. Infatti, perché aggregazioni numerose
resistano nel tempo, deve esserci un forte valore spirituale legante.
La spiritualità permette di superare i propri egoismi personali,
principali meccanismi responsabili della disgregazione. In realtà
spesso ci manca la voglia di mediare, perché come figli di questa
nostra società diamo troppo spazio alla testa pensando che le nostre
elucubrazioni siano importantissime". Tutto sommato però,
rimanere in pochi per imparare a vivere e cominciare a costruire
diversamente, potrebbe essere un inizio per qualcosa di più
importante. Esistono tanti modelli in giro, tanti esempi che
costituiscono altrettante possibilità e siamo tutti d'accordo nel
riconoscerne l'importanza. A mattina inoltrata interrompiamo la
chiacchierata e la visita a questi amici, certi della
possibilità di instaurare un proficuo rapporto di collaborazione.
"Arrivederci a presto!", e il viaggio continua.
La prossima tappa è
il "gran burrone", abitato dagli "elfi del bosco"; ci
avvolge un'atmosfera curiosa, come se viaggiassimo a ritroso: "C'era
una volta il gran burrone abitato dagli elfi del bosco", così il
racconto potrebbe continuare; e volteggiando nella macchina del tempo
ci ritroviamo su una strada di montagna e ogni curva, ogni tornante è
tempo a ritroso che percorriamo.
Il magico mondo
degli elfi
La valle è stretta
in questa punto: il torrente la percorre sul fondo e nello spazio
che rimane ci sono poche case ai lati della strada. Sui ripidi
versanti solo boschi di castagni. La scritta è un po' stinta sul
muro scrostato, ma si legge "locanda dei cacciatori". Ci fermiamo
e chiediamo - come ci è stato scritto - degli Elfi del Gran
Burrone. L'ostessa sorride, ci risponde allegramente con il suo
bell'accento: "... prima dell'ultima casa c'è un sentiero che
sale, non potete sbagliare". Prepariamo il sacco e ci
incamminiamo.
Il sentiero è
ripido, ma curva piacevolmente in mezzo al bosco. È un sentiero
curato, di quelli che raramente si trovano ancora tra le montagne.
Fino al primo pianoro ci accompagna il rumore della strada, ma gli
alberi se lo rimbalzano e ne attutiscono il fastidio. Poi il sentiero
piega decisamente verso l'interno e da questo momento il mondo che
conosciamo sparisce definitivamente; adesso siamo in una valle di
elfi e rimaniamo in silenzio ad ascoltare il soffice brusio del
sottobosco. E dietro una curva vediamo tra gli alberi un villaggio di
pietra. È arroccato su un "gran burrone" e schiacciato contro la
montagna, pronto ad accogliere ogni raggio di sole. Il sentiero
smette di salire e costeggia il pendio; arriviamo ad un lavatoio poi,
un po' più avanti, entriamo nel villaggio. La prima casa è
ancora tra gli alberi; davanti c'è un grande tavolo rotondo di legno
massiccio e panche e sgabelli. Ci viene incontro Paco, con un po' di
stupore negli occhi simpatici. Ci accompagna tra le case ed entriamo
in cucina. La porta si apre su un buon odore di resina e ci avvolge
il tepore del grande camino acceso. Conosciamo Roberto, Franco,
Davide, Marilena e un'altra ragazza che non parla italiano. Non
cogliamo subito i loro volti: è poca la luce che penetra dalla
finestra e, anche se sono solo le due, la candele sono già accese
sul tavolo. Le ragazze impastano insieme un enorme pane integrale;
hanno gesti lenti che scandiscono il tempo che non manca e che
riscoprono il piacere di antiche tradizioni. Le candele illuminano
due bellissimi occhi neri che ci salutano ridendo: è Davide che
scrive sui suoi quaderni di scuola e ogni tanto infila le mani nel
grande impasto del pane. La macchina del
tempo ci ha portati indietro di cinquant'anni, in una cucina di
contadini montanari: ma gli elfi non sono contadini da generazioni,
solo pochi anni fa erano studenti e operai. Roberto ha 28 anni,
è di Modena e dopo la scuola è entrato in fabbrica come operaio
specializzato. C'è rimasto per 5 anni, ma: "la vita di fabbrica e
di città non soddisfaceva le mie esigenze. Allora non sapevo né
cos'era una comunità, né cos'era la vita in campagna, anche se ho
sempre amato la natura. La fabbrica mi ha scosso profondamente e ha
roso il mio sistema nervoso. Lasciata la fabbrica ho fatto altri
lavori per un anno e mezzo e ho conosciuto l'eroina e la prigione.
Poi con Paolo siamo partiti all'avventura. Al festival di AAM di
Sant'Arcangelo abbiamo conosciuto della gente che ci ha dato
l'indirizzo del Gran Burrone, ma prima di salire quassù abbiamo
continuato a girare alla ricerca di una nuova dimensione reale in cui
vivere. Quando siamo arrivati qui c'erano poche persone, Alberto,
Sergio, Giovanni e Giulio... no, Giulio non c'era ancora; la
situazione delle case era peggiore, ne abitavamo una sola. Sono
rimasto perché ho trovato l'ambiente giusto, al mio ritmo, ho
trovato il dialogo con le persone e un rapporto soddisfacente con la
natura. Provengo da una famiglia comunista e fino al '77 ho militato
nella FGCI, dopo ho lasciato il PCI e la politica intesa come
organizzazione: quello che conta per me è l'autoconsapevolezza
individuale. La società oggi è la negazione dell'essere umano;
possiamo salvarci solo ritrovando l'equilibrio con la terra e con la
natura". Paco ha 22 anni,
lavorava in Spagna, aveva la macchina, doveva fare il militare e poi
sposarsi: "... un giorno ho mandato tutto a quel paese e me ne sono
andato". Ha cominciato a girare l'Europa prima da solo e poi con
Roby finché tre anni fa sono arrivati qui. Marilena abitava in
un paese della provincia lombarda; studiava e lavorava saltuariamente
durante l'estate finché ha lasciato l'università e tutto quanto.
Per un po' ha tirato avanti con le raccolte stagionali di frutta, poi
un amico ha parlato a lei e a un altro ragazzo del "Gran Burrone"
e ci sono venuti per un periodo: "In seguito abbiamo deciso di
tornarci perché ci piaceva il posto, il sistema di vita, il rapporto
con gli altri. Anch'io ho avuto contatti con l'estrema sinistra, e mi
sono impegnata soprattutto in collettivi di donne". Anche Davide un po'
timidamente ci racconta la sua storia. Vive al Gran Burrone da un
anno e ci sta molto bene. Ogni giorno scende al paese per andare a
scuola; prima, quando suo padre era in galera, era affidato ad una
famiglia. Poi il padre è venuto qua ed è riuscito a riaverlo, ma a
condizione che il bambino continuasse la scuola. "E tra l'altro è
un bene che ci vada - dice Paco - perché qui non ci sono altri
bambini in età scolare. Se ce ne fossero di più si potrebbe creare
qualcosa per tutti". Entra un elfo con
delle uova che deposita sul tavolo. Che ne facciamo? Decidono di fare
un dolce. Intanto sto armeggiando con la macchina fotografica e il
flash. L'imbranatura che già possiedo nei confronti dell'attrezzo è
in questo luogo rinforzata dalla mia reticenza ad entrare con
l'obiettivo in una situazione così aliena dalla tecnologia, ma
Franco, ex-fotografo, mi cava dall'impiccio e mi dà una mano. Anche
lui ci dice qualcosa del suo passato: "Sono vissuto a Milano e...
ho detto tutto. Politicamente ho avuto contatti con tutta l'estrema
sinistra a parte gli anarchici e poi... poi ho lasciato tutto quando
ho cominciato con la "roba". Adesso ho 23 anni, sono qui da un
anno e mezzo, sto bene". I villaggi abitati
dagli elfi sono quattro : il Grande e il Piccolo burrone, la casa
Sarti e il Pian dei Casali. Paco ci racconta che due villaggi sono
occupati: uno da un anno con molti problemi perché è della Comunità
Montana, l'altro da cinque anni ed è di alcuni vecchi del paese. Gli
altri due villaggi sono in affitto a una cifra simbolica per 10 anni.
La gestione dei villaggi è giornaliera: "Tutti i giorni -
continua Paco - vediamo quello che c'è da fare. Non esiste
formalmente un momento di riunione: qui si vive con gli altri tutto
il giorno e si parla mentre si mangia o mentre si lavora e si
decidono le semine, le provviste e tutto il resto. L'unico obiettivo
che ci proponiamo è vivere così, migliorando gradatamente, ma
cercando di eliminare ogni rapporto economico con l'esterno. E
chiaramente l'autosufficienza permette di sopravvivere solo con ciò
che riusciamo a produrre. Abbiamo orti, frutteti e animali;
produciamo miele e farina di castagne. Una possibilità interessante
è lo scambio con altre comunità. Siamo in contatto soprattutto con
Pian Baruccioli; c'è un sentiero che ci collega e che passa su
queste montagne, che siamo riusciti a ricostruire in cinque o sei
viaggi. Adesso in quattro giorni a piedi arriviamo, e abbiamo
ritrovato i passaggi per poterci andare anche a cavallo. Abbiamo
intenzione di realizzare questi scambi a metà strada, dove ci sono
splendidi campi di lamponi. E intanto raccogliere frutta per la
marmellata". Anche l'economia
degli Elfi è giornaliera; la cassa comune è sempre vuota. I soldi
che servono se li procurano facendo lavori esterni come la raccolta
della frutta e delle olive. C'è chi fa dell'artigianato: bracciali,
orecchini, cinture, maschere. Il padre di Davide coltiva lombrichi
per la pesca. Davide non è
l'unico elfo-bambino. Ce n'è un altro, nato quassù l'8 di aprile
dell'anno scorso, senza levatrice ci dice Marilena: "È stato un
parto tranquillo, breve, abbiamo assistito tutti a turno". E
Roberto aggiunge: "Il primo parto, però, andò male, e quella
volta c'era la levatrice. Il bambino morì perché il cordone
ombelicale era avvolto intorno al collo". Roberto ci offre
una tazza di tisana calda; l'atmosfera è rilassata nonostante la
nostra intrusione. La chiacchierata continua e Paco ci conferma
l'impressione avuta in paese: "Il rapporto con la gente è
bellissimo. Parliamo spesso, ci raccontiamo le nostre cose giù
all'osteria. A livello di conoscenza e di esperienza però non è
granché. Quando abbiamo raccontato che quassù sono cresciuti i
peperoncini si sono meravigliati molto. Se ci manca il fieno ce lo
danno, abbiamo anche lavorato con loro alcune volte. Ci hanno
insegnato a fare la farina di castagne e a potare le piante: senza di
loro avremmo impiegato molto di più". Nei confronti della
tecnologia i pareri si differenziano. C'è chi, come Roberto, è
favorevole all'utilizzo di una motosega o di un motocoltivatore per
diminuire la fatica e il tempo che alcuni lavori richiedono, e chi,
come Paco, è contrario: "Se qui arrivasse la strada io me ne sarei
già andato". Tutti comunque sono d'accordo sulla possibilità di
utilizzare forme di energia alternativa come quella eolica per
l'illuminazione. Lasciare la "civiltà" non significa eliminare i
problemi perché il rapporto con la natura non è solo idilliaco
quando le scelte sono così radicali. La selezione tra gli Elfi di
queste montagne è continua: "Due-tre mila persone sono passate di
qua - afferma Paco - ma pochi se la sono sentita di rimanere. A me
piace ricordare questo detto: i problemi non ci sono perché non li
vogliamo. C'è chi ha esigenze diverse, nascono anche nei rapporti
interpersonali, ma in questi casi la vita quassù diventa impossibile
e il sentiero ricollega alle infinite altre possibilità. Questo
luogo è magico, bisogna capirlo. Secondo me l'unico cambiamento
valido deve essere radicale, netto. Io voglio seminare e mangiare le
mie patate. Non do e non chiedo nulla alla società. Avrò qualche
problema perché la società non mi lascia tranquillo, ma non mi
impedirà di vivere. La gente è divorata dalla nevrosi e si avvelena
di psicofarmaci, eppure danno la caccia a noi come se fossimo
animali. Ma posso assicurarvi che le realtà come la nostra stanno
moltiplicandosi. Due di noi sono arrivati quasi a Roma con i cavalli,
quest'inverno, e hanno trovato tantissima gente che ha scelto di
vivere in campagna e in montagna. Tutto questo è ancora nascosto, ma
per ora è importante che questa tendenza esista. Lo sviluppo, i
collegamenti, gli scambi poco per volta verranno; ci vuole solo un
po' di tempo. È importante adesso che ci riconoscano come forza.
Hanno cercato di mandarci via più volte, ma non ci sono riusciti
perché non capiscono chi siamo: la politica non ci interessa,
nessuno di noi vota, non siamo terroristi e nemmeno drogati. Pensano
che siamo matti, ma va bene così: la gente del posto ci vuole bene e
noi possiamo continuare a crescere. Qui siamo felici; la sera si fa
festa, ci sono le chitarre e il pianoforte che abbiamo portato su in
undici". Mentre si parla
nuovi Elfi fanno capolino in cucina, c'è chi si rade ritagliandosi
due basettoni triangolari, c'è chi assaggia la pasta del pane e la
trova un po' acida. Le galline sono scappate dal recinto, ma è
normale; un cucciolo tutto nero si infila scodinzolando sotto il
tavolo. Ci sarà qualcosa da fare anche per lui: il villaggio va
difeso dalle numerose volpi. Le case e le stanze sono rimaste come
allora; ma sono stati rifatti molti tetti ed è stata portata
l'acqua. Il pollaio è molto bello, recintato da una fitta palizzata.
C'è una serra che serve come semenzaio. Prima di salutarci
Paco corre in una casa e torna con un corno luccicante. "Con questo
comunichiamo nella valle" ci dice, ed emette un lungo suono. Lo
abbracciamo ed eccoci di nuovo sul sentiero. Scendiamo felici, colmi
di sensazioni che gli Elfi hanno saputo regalarci con la loro
semplicità... questo è un posto magico!
La tecnologia
possibile
La strada bianca
si snoda sinuosa tra boschi e vigneti. Abbiamo ancora negli occhi le
immagini del Gran Burrone, immagini di una natura selvaggia, di una
bellezza aspra. Quanta diversità! Qui il paesaggio è dolcissimo,
fatto di colline e vallate in cui il lavoro millenario dell'uomo si è
fuso armoniosamente con le caratteristiche del territori. Siamo nel
cuore della zona del Chianti: qua e là, sui cocuzzoli delle colline,
antichi borghi medievali testimoniano un passato di vita dura e
sottomessa per generazioni di contadini. Si respira aria di storia,
di cultura, di benessere. Eppure, eppure non riusciamo a scacciare le
immagini del Gran Burrone, di Paco e degli altri. Imbocchiamo il
viale di cipressi che porta alla "Chiara di Prumiano", un
piacevole borgo anch'esso: una corte quadrata composta da case di
contadini, completamente ristrutturate, da una chiesetta e da una
villa settecentesca molto bella in fase di ristrutturazione. Le automobili sono
numerose, segno che non siamo i soli visitatori in questi giorni di
vacanze pasquali, ed infatti c'è un gran via vai di gente, adulti,
ragazzi, bambini. Scopriremo poi, a spiegazione del fervore
osservato, che si sta organizzando una festa per il giorno di Pasqua
e che sono arrivati i primi ospiti di un'attività di agriturismo che
la cooperativa sta iniziando proprio ora. Veniamo comunque subito
individuati da Antonio: Gaia, il nostro "contatto" - ci dice - è
ancora fuori per vivai, ma non tarderà ad arrivare. Nel frattempo ci
sistema nella sua casa e organizza la nostra chiacchierata serale. La sensazione che
abbiamo è decisamente piacevole: siamo in un piccolo villaggio pieno
di gente diversa e di attività. Le case sono singole, cioè una casa
per ogni nucleo familiare, ma del tutto aperte e infatti è un
continuo entrare e uscire di persone per consultarsi su un problema
contingente, per scambiarsi informazioni, per accordarsi sui dettagli
della festa in programma. C'è una circolazione continua di persone,
idee, informazioni, bambini, animali. Un po' frastornati (abbiamo
lasciato da poche ore il Gran Burrone ed ora siamo piombati in una
realtà del tutto diversa) attendiamo Gaia giocando con Arianna, la
piccola figlia sua e di Antonio. La casa, come tutte
le altre, è grande ed accogliente, ristrutturata con grande buon
gusto dai "nobili" proprietari precedenti (ma, si sa, ai nobili
buon gusto e cultura non sono mai mancati, mica dovevano preoccuparsi
della sopravvivenza, loro!) che intendevano farne un villaggio
turistico. Con l'arrivo di Gaia - ha potuto trovare poche piante,
perché l'inverno rigidissimo ha fatto danni enormi anche nei vivai e
i prezzi sono saliti alle stelle - cominciamo a chiacchierare di
comuni, di quelle che abbiamo già visitato, delle nostre
impressioni, e dell'ultima che ci attende, Aquarius, con cui -
scopriamo da Gaia e Antonio con grande piacere - la "Chiara" ha
rapporti abbastanza regolari, e anzi ci pregano di invitarli alla
festa di Pasqua visto che domani andremo da loro. Gaia sta preparando
la tesi di laurea proprio sulle comuni, e quindi uno scambio di
informazioni e di idee non può che essere reciprocamente utile.
Eccoci finalmente seduti intorno al tavolo della cucina con Antonio,
Gaia, Egidio; più tardi, dopo che avrà messo a dormire il loro
piccolo figlio, arriverà anche Rita, la sua compagna, mentre gli
altri membri della cooperativa sono impegnati in altre cose. Centellinando un
bicchiere dell'ottimo Chianti prodotto dalla Chiara ci facciamo
raccontare come e perché sono approdati a questa esperienza. Antonio
ha 32 anni e ha una storia abbastanza "classica" per ex
sessantottini. Ha abbandonato giovanissimo scuola e famiglia, è
campato facendo mille mestieri saltuari (ma a quel tempo - ci dice -
si concepiva il lavoro solo come una necessità di sopravvivenza, non
certo come realizzazione personale), ha fatto attività politica
prima nel movimento studentesco, quindi nel Comitato Vietnam. Poi ha
viaggiato moltissimo in Europa, India, Oriente, infine in Africa:
"nel frattempo erano passati gli anni e mi rendevo conto che era
arrivato il momento di lavorare, ma poiché non avevo alcun mestiere
decisi di andare in Australia dove perlomeno la semplice forza lavoro
era meglio retribuita. Una decisione destinata a non avverarsi poiché
proprio allora mi capitò l'occasione, che accettai insieme a Gaia,
di gestire un bar in un paesino qui in Toscana. Qui, io che non avevo
mai amato la terra, ho cominciato ad apprezzare i ritmi diversi della
campagna maturando a poco a poco la decisione che mi ha portato a
creare la "Chiara". Se esiste un filo che attraversa la mia vita?
Certo che esiste, ed è la mia dimensione collettiva: sempre ho
voluto fare le cose insieme ad altri, non ho mai sentito l'esigenza
di isolarmi. E poi sono sempre stato alla ricerca di qualcosa. Anche
ora, qui, vivo questa esperienza che mi piace molto, ma so che prima
o poi finirà o sfocerà in qualcos'altro". La storia di Gaia,
29 anni, è abbastanza parallela: un periodo di militanza politica in
un'organizzazione dell'Autonomia Operaia, molto traumatico perché
"non si poteva mai essere se stessi, bisognava sempre essere duri e
all'altezza", un periodo di viaggi intorno al mondo, e un'attività
teatrale prima con gruppi sperimentali, poi con Dario Fo. "Ma in
realtà - dice Gaia lucidamente - malgrado il possibile successo di
questo lavoro, non me la sentivo proprio di indirizzare la mia vita
in quel senso perché significava continuare, seppure su un altro
piano, la schizofrenia di prima, quando facevo politica, mentre io
volevo riunire vita e politica e lavoro, cioè riunire la teoria alla
pratica. Per questo è stata creata la "Chiara", perché qui, pur
con tutte le difficoltà che ovviamente ci sono, è possibile cercare
questa coerenza, perché qui non si delega nessuno". Per Egidio, 42
anni, i passaggi sono stati decisamente diversi: nato e cresciuto in
un paese lombardo da una famiglia piccolo-borghese, le prime scelte
(la scuola, il lavoro) sono state il portato dei valori tipici di
quella micro-società e di quegli anni, gli anni '60 del boom
economico: il successo, la carriera, il denaro, ecc. Ma lui non
riusciva proprio a vedersi come un impiegatuccio che scala categoria
dopo categoria per cui a 25 anni, nel 1967, decise di andare a
lavorare in Africa. Il periodo africano incide notevolmente sulla sua
formazione e i successi professionali non riescono a compensare la
sensazione sempre più netta di essere scisso in due: da una parte
l'immagine pubblica professionale, dall'altra la profonda adesione
alle lotte che la sua generazione sta portando avanti, dal '68 in poi
in Italia. "Sono rientrato in Italia - racconta - dove ho
continuato a fare il dirigente d'azienda per un po' con questa
paranoia che ormai stava diventando schizofrenia; poi ho incontrato
Antonio e Gaia e con loro ho trovato una sorta di "affinità
collettiva", ho scoperto che volevamo le stesse cose: vivere e
lavorare insieme ad altre persone in modo diverso, senza ruoli,
ricomponendo anche un'altra scissione che mi era intollerabile,
quella tra lavoro manuale e intellettuale". Sull'importanza di
questa integrazione non hanno dubbi né Gaia né Antonio e a noi si
allarga ii cuore: non abbiamo fatto domande in questo senso, né li
abbiamo sollecitati, quindi queste tre persone così diverse tra loro
e da noi, sono arrivate, da sole, in modo assolutamente non
ideologico, alle nostre stesse conclusioni. "Personalmente -
conclude Egidio - vivo quest'esperienza concreta anche come una
sfida, una scommessa contro tutte quelle strutture della società che
spingono nella direzione contraria". Gli altri membri
della comunità sono Marcello di 26 anni, Giovanna di 36 con una
storia simile a quella di Antonio, Nando di 29, l'unico di estrazione
sociale proletaria, con un passato di lotta politica dura e tanti
mestieri; Marina di 32: era impegnata politicamente e faceva
l'ortofonista; Stefano di 30 anni, diventato erborista per passione e
che ancora adesso raccoglie pollini per i vaccini antiallergici; Rita
di 39 anni, un'esperienza di militanza nel '68 in Avanguardia Operaia
poi come biologa in Africa. Poi Paolo e Franco, due ragazzi di Milano
che si sono sistemati in un laboratorio di ceramica ma non vivono
alla "Chiara" e l'ex-sindaco di Barberino, un giovane di 65
anni, spirito libero e bizzarro per i più, che ha messo in piedi un
laboratorio di restauro ed ha trasmesso a tutti l'amore per le cose
vecchie, per gli oggetti d'uso comune - agricolo e non - ormai
spariti e che lui cerca invece e raccoglie e accatasta nei magazzini
della villa. "Tant'è - dice Gaia - che siamo intenzionati, non
appena avremo il tempo, a catalogarli e sistemarli affinché questi
pezzi di storia del lavoro umano non vadano dimenticati". Ma la "Chiara"
non è stata la prima esperienza agricola. Prima, per due anni, si
sono fatti le ossa in un altro podere - Le Querce - imparando da
zero a coltivare vigna e ulivi, a vinificare, a produrre olio, a
conoscere il mercato, e a gestire gli aspetti commerciali. Certo sono
stati fortunati poiché si sono potuti permettere di non guadagnare
per tutto quel periodo, ma l'avventura ha dato i suoi frutti in
termini di conoscenza, professionalità, chiarezza d'idee, "capitali"
che si sono rivelati preziosi nell'impostazione e gestione della
"Chiara". Antonio sottolinea altri aspetti importanti: "in quel
periodo abbiamo capito che la nostra aspirazione non era quella di
diventare contadini, perché la vita dei contadini è in realtà una
vita grama, al di là delle facili idealizzazioni in cui si può
cadere; quello che volevamo era vivere della terra senza rinnegare
noi stessi. Poi abbiamo capito cosa significa lavorare con altre
persone concretamente, abbiamo verificato quanto è difficile evitare
di proiettare sugli altri la propria capacità lavorativa, quanto è
difficile accettare che gli altri facciano meno di te. Ma alla fine
ci siamo arrivati: il rapporto di lavoro deve essere fondato su una
fiducia completa e sulla consapevolezza che ciascuno può dare in
misura diversa, in modi diversi, a ritmi diversi". Ma il cammino per
arrivare a questo punto non è stato indolore: "Abbiamo litigato
tantissimo - dice Gaia - a volte in modo furibondo e soprattutto tra
donne, ma poiché si credeva nell'importanza di ciò che stavamo
facendo, non si è mai arrivati alla rottura e piano piano abbiamo
imparato ad accettare la diversità dell'altro. Anzi, questa continua
ginnastica (che si fa anche ora e che forse faremo sempre) si è
dimostrata utilissima anche perché, in un certo senso, costringe a
pensare, impedisce che le situazioni si cristallizzino". Per Egidio
un fattore importante nell'evoluzione della comunità è stata ed è
proprio l'estrema diversità dei membri - delle personalità, delle
storie precedenti, della formazione ideologica - che paradossalmente
è diventata un elemento unificante anziché disgregante: dai tanti
modi di pensare messi in un crogiolo, non si sa come né perché,
nasce di fatto un'impostazione comune. Certo tutto sarebbe
più facile se esistesse a monte un ideale preciso comune a tutti,
con i suoi dogmi e le sue regole (non è un caso che le comunità
religiose funzionino, e bene anche!), ma la vivacità e il dinamismo
di un gruppo in continua evoluzione possono solo essere il prodotto
della ricerca, del confronto, di un equilibrio che sempre si ricrea
in una condizione mentale sempre aperta al cambiamento. E la "Chiara"
ci sembra un buon esempio di come si possa funzionare senza alcuna
impostazione religiosa o ideologica. La discussione si
sposta inevitabilmente su un livello più concreto, sui rapporti col
mercato, sull'immagine che vogliono dare all'esterno, sugli obiettivi
produttivi-economici, sull'organizzazione economica interna della
comunità. La produzione portante è quella del vino - ottimo, come
abbiamo già detto - mentre l'olio è considerato il loro fiore
all'occhiello e le marmellate un completamento. Inizialmente hanno
puntato su una clientela di privati che è andata ampliandosi, ma
ora, raggiunte una media di 50.000 bottiglie per 100 milioni di
fatturato lordo, si sono dovuti rivolgere anche a ristoranti e ad
altre organizzazioni di vendita. Non hanno problemi nel piazzare i
loro prodotti perché hanno sempre puntato sull'alta qualità (che
piacere sentire nelle loro voci l'orgoglio del proprio lavoro!) e
valutano di raggiungere una produzione ottimale nel giro di due anni. L'economia interna
è a due livelli: il primo riguarda le 4 case e i rispettivi nuclei
familiari che hanno economie singole ed autonome; il secondo riguarda
la cooperativa che ha una sua cassa comune. Attualmente la
cooperativa riesce a dare quattro stipendi (seppur minimi), uno per
ogni casa ma di fatto ai maschi (come fa notare Gaia, però, questa
distribuzione è ancora in fase di discussione). Antonio vuol
precisare meglio l'impostazione, decisamente atipica e significativa,
data al problema della proprietà: "Ogni nucleo è proprietario
della casa in cui abita, indipendentemente da quanto ha potuto
mettere, e ogni socio è proprietario in egual misura della terra,
della villa (che però non è ancora completamente pagata) e degli
strumenti di produzione. In questo modo ci sembra di aver superato il
problema "soldi", affrontandolo da un'ottica che ne ha annullato
le potenzialità negative". In breve tempo,
comunque, affiancando alla produzione l'attività di agriturismo a
cui è destinata la villa e l'organizzazione di corsi e seminari, la
cooperativa dovrebbe riuscire a dare uno stipendio (rigorosamente
uguale per tutti indipendentemente dal tipo di lavoro svolto -
tengono a precisare) a tutti i suoi membri. Per quanto riguarda
l'organizzazione del lavoro tutti sanno fare tutto, anche se,
inevitabilmente, si sono create di fatto nel tempo delle
"specializzazioni" dovute agli interessi e alle competenze di
ciascuno, per cui Antonio, ad esempio, si occupa della vinificazione
con grande passione. Non sempre riescono a far fronte a tutti i
lavori - anche perché sono in una fase di impostazione generale e di
decollo che richiede notevoli energie, tempo, e la creazione/gestione
di una rete di rapporti esterni - per cui a volte si rende necessario
un aiuto esterno alla cooperativa. Su questo discorso
è Gaia a sollevare un problema spinoso chiedendoci se nelle comunità
già visitate abbiamo notato una ruolizzazione uomo/donna.
Rispondiamo di no, che non ci è sembrato, ma che ci siamo fermati
troppo poco per poterlo verificare. Per Gaia il problema esiste, è
molto grosso, e lo vive in modo ancora più bruciante da quando è
nata sua figlia Arianna: "È
un problema che mi interessa molto perché ritengo che sia rimasto
insoluto, non solo qui, ma anche in altre comunità dove mi è
capitato di assistere a scazzi notevoli a questo proposito. E le cose
peggiorano quando si fanno i figli perché in quel momento ti vengono
richiesti determinati comportamenti a cui si può tentare di sfuggire
parzialmente (mantenendo ad esempio degli spazi/momenti di libertà
individuale) ma con la coscienza di pagare questi sprazzi a un prezzo
altissimo. (...) L'ideologia, in questi ambiti (rapporto
uomo/donna/figli/ruoli) serve a ben poco, ed anzi può dimostrarsi
dolorosa quando ci si accorge che le idee sono una cosa e la pratica
un'altra, che certi meccanismi comportamentali - non so se e quanto
di origine culturale o biologica - continuano a riprodursi. (...) Per
cui io mi trovo continuamente a dover lottare per non essere del
tutto rinchiusa in uno schema, proprio con le persone che mi stanno
accanto e a cui voglio un gran bene". Come darle torto?
Come non vedere, anche nelle situazioni più avanzate e coscienti,
questi due universi - maschile e femminile - che non riescono a
comunicare se non in superficie? Anche Antonio è
d'accordo, perché malgrado tutti gli sforzi compiuti "continuo ad
esempio ad essere geloso: il dramma è che in sostanza continuiamo a
riproporre i comportamenti dei nostri nonni e padri, che non si
riesce a creare un rapporto nuovo". Egidio è consapevole di questa
difficoltà ma proprio per questo ritiene che esserne coscienti è
un primo passo e che qui alla "Chiara" - proprio perché tentiamo
di vivere in modo diverso - qualche piccolo passo è stato fatto,
piccolo certo, ma è già un punto di partenza da cui andare avanti".
Gaia non è così ottimista ma, ne siamo certi, continuerà a
svolgere nel gruppo la sua difficile funzione di sensibilizzazione e
responsabilizzazione su questi temi. Il discorso scivola
sui rapporti con le altre comunità, sull'importanza attribuita a
questi rapporti, sull'esigenza di costruire una rete solida e
permanente. L'accordo è unanime. Gaia, facilitata dal lavoro per la
sua tesi, ha molti contatti che spera/vuole sviluppare in modo più
organico, ma tutti sono convinti che le comunità, una volta
impostate e consolidate all'interno, debbano costruire questa rete
che divenga una sorta di società parallela al di là di ogni
etichetta e di ogni specificità (naturisti, vegetariani,
macrobiotici, ecc.) In questo senso la "Chiara" ha proposto a
quelli di AAM - che costituiscono per ora l'unico collegamento tra
tutte le realtà comunitarie esistenti - di organizzare un incontro
annuale o semestrale in cui per alcuni giorni si possa stare insieme,
conoscersi, scambiarsi idee, esperienze, conoscenze e prodotti. E ha
offerto di utilizzare la villa come struttura ospitante. I rapporti con
l'esterno, col territorio circostante, sono ottimi, anche grazie
all'intelligenza e sensibilità con cui sono gestiti. "L'obiettivo
che ci proponiamo - dice Egidio - è di dare alla "Chiara"
un'immagine aperta ed anche per questo organizziamo feste ed abbiamo
programmato per l'estate due corsi - uno sulla struttura del
linguaggio musicale, l'altro sull'informatica (da dove viene, cosa
c'è dietro, a cosa porta) - che dovrebbero servire come stimoli
anche per la gente che sta qui intorno". A proposito di
informatica c'è una cosa che ci frulla in testa da quando abbiamo
visto l'etichetta delle loro bottiglie, un'etichetta stampata con
caratteri computerizzati. Come mai questa scelta e cosa pensano della
tecnologia? "La scelta dell'etichetta è stata parzialmente
provocatoria - dice Antonio - ma in un certo senso rispecchia un po'
la mia posizione: se la tecnologia può servire ad ottenere prodotti
buoni, naturali, magari biologici, ben venga. Caso mai è un problema
di conoscenza, di comprensione e quindi di studio per scegliere la
tecnologia più adatta. Noi le macchine, ad esempio, le usiamo perché
ci sono indispensabili, ma cercando di non farci prendere la mano dal
fascino del trattore più potente di quanto in realtà serva. Anche
per i concimi e gli anticrittogamici vale un discorso di buon senso:
è chiaro che tendiamo ad arrivare ad una coltivazione biologica, ma
sappiamo che ci vorranno anni. Il problema è diverso a seconda che
si punti all'autosufficienza o al mercato, come noi. Allora devi fare
i conti coi bilanci e le sperimentazioni si possono fare solo
gradatamente. Non è un caso che gli esperimenti più avanzati di
agricoltura biologica se li possano permettere grandi industrie come
la Crespi! Mentre nelle piccole aziende non c'è ancora una pratica e
quindi una conoscenza diffusa. Per quanto riguarda il computer il mio
atteggiamento è di curiosità e di apertura verso uno strumento che
modificherà profondamente la società. Anche qui bisogna vedere
l'utilizzo che se ne fa: ho letto che in California verrà fatto un
vino assolutamente naturale utilizzando solo macchine e computer
nella fase di vinificazione. E non mi sembra affatto negativo". Anche Egidio è
d'accordo: "Se il computer viene usato come memoria di dati ed
informazioni utili all'agricoltura - magari dati che i contadini di
un tempo conoscevano e si tramandavano in modo più diretto e che noi
non abbiamo perché diverso è il nostro passato - non vedo cosa ci
sia di negativo nel suo utilizzo. Il problema caso mai risiede da un
lato nel meccanismo economico-produttivo perverso in cui la
tecnologia è inserita e dall'altro nel solco sempre più profondo
che si e venuto a creare tra le macchine e i loro fruitori. Mi spiego
meglio: una volta i contadini usavano determinati attrezzi, ma
sapevano come erano fatti ed erano in grado di ripararli; mentre oggi
qualunque cosa si rompa, dal trattore alla lavatrice, dobbiamo sempre
rivolgerci agli specialisti. Di fatto, quindi, sempre più deleghiamo
questa conoscenza dietro il mezzo che usiamo. Ecco il problema vero". La discussione,
accesa, prosegue ancora per un po', ma poi qualcuno guarda l'orologio
e ci accorgiamo che sono le due di notte. A malincuore decidiamo di
andare a dormire. È stata una giornata molto intensa e dobbiamo
lasciar decantare le sensazioni, le impressioni, le immagini del Gran
Burrone e della "Chiara" che si alternano e si sovrappongono a
lungo prima di riuscire a prendere sonno nei nostri sacchi a pelo.
Domani ci aspetta "Aquarius". Come sarà?
Alla ricerca di una sintesi
Dalla "Chiara"
ad "Aquarius" San Gimignano è un passaggio obbligato. Non
resistiamo alla tentazione di una breve sosta che celebriamo con un
bicchiere di vernaccia, poi riprendiamo la strada lasciandoci le
torri svettanti alle spalle. Siamo entusiasti di quanto abbiamo visto
e sentito: si è aperto uno spiraglio attraverso cui abbiamo
conosciuto una realtà sommersa, vivace e brulicante, ma siamo anche
perplessi perché abbiamo la confusa sensazione di avere toccato,
fino ad ora, i due estremi di questa realtà. Da un lato Pian
Baruccioli, il podere Vetriceto, il gran Burrone rappresentano una
scelta drastica di rifiuto della società dettata da esigenze
spirituali ed istintuali il cui dato più significativo è la ricerca
di un rapporto "cosmico" con la natura. Dall'altro la "Chiara"
esprime un approccio in cui prevale l'elemento razionale, il
ripensamento lucido della realtà sociale di se stessi, la
determinazione a cambiare la propria vita senza isolarsi dalla
società, ma anzi con l'obiettivo di influenzare, nei limiti del
possibile, la realtà esterna. Una ridente
stradina bianca sommersa dalla vegetazione ci porta al podere: una
grande casa colonica ristrutturata, un fienile, un pollaio, un'aia.
Al rumore della macchina esce Paolo, un sorriso simpatico, una testa
ricciuta: "Marco sta lavorando nell'orto - ci dice - e gli altri
sono sparsi a lavorare nei campi. Io sono a casa perché sono di
turno a curare mia figlia". Ci accompagna nell'orto dove Marco sta
vangando insieme ad un amico di passaggio della LOC di Firenze. Anna
e sua sorella ci salutano da lontano: sono in cima ad un ulivo e lo
stanno potando. L'orto è davvero stupendo, frutto dell'intelligente
applicazione di varie tecniche biologiche tra cui la permacoltura.
Facciamo un giro di perlustrazione scattando fotografie, poi, in
attesa che gli altri rientrino dal lavoro, sistemiamo i nostri
appunti di viaggio su un prato finché Marco ci chiama in cucina - è
il suo turno ai fornelli - per chiacchierare mentre prepara la cena. La cucina è
grande, ben attrezzata per molte persone e dà su una sala da pranzo
comune, semplice, ma accogliente: un lunghissimo tavolo abbracciato
da un variopinto arcobaleno dipinto sul muro, un camino, delle
poltrone, una credenza. Aiutando Marco a preparare la cena (una
minestra di miglio e lenticchie e una mega-insalata di erbe varie)
chiacchieriamo di alimentazione (sono vegetariani/naturisti ma dopo
un periodo di estrema rigidità iniziale hanno trovato un equilibrio
dinamico), di agricoltura biologica, di tribù primitive (Marco, ma
non solo lui, nutre un grande interesse per i popoli nativi e molti
dei valori a cui la comunità si ispira sono mutuati da loro), di
"A", di AAM con cui Marco collabora regolarmente, di libri.
L'impressione che già avevamo avuto in un fugace incontro a Milano
di vivacità e apertura intellettuale si dimostra più che
giustificata. A cena siamo in 14:
gli altri membri della comunità (Daniela, Alberto, Anna, Piero e due
bambini) e alcuni ospiti (due ragazze di Milano venute per un corso
di alimentazione, un'amica veneta in attesa di partorire, col suo
ragazzo, un amico di Firenze) e l'atmosfera è molto serena.
Concordiamo di fare l'intervista l'indomani mattina e di andare
insieme alla festa della "Chiara" nel pomeriggio, ma Sergio
ricorda che non possono andare a mani vuote - hanno avuto dalla
"Chiara" un bel galletto per il pollaio - e dopo breve
discussione decidono che porteranno dei ceci. Assistiamo per un
po' a una riunione in cui si discutono i problemi economici più
contingenti, il prossimo corso di cesteria, i lavori più urgenti da
fare. Poi saliamo a dormire nella grande sala adibita a biblioteca e
sala-corsi, confermandoci l'un l'altra la sensazione reciproca di
trovarci in un terzo polo, a metà strada tra gli altri due che
avevamo individuato, in cui spiritualità e razionalità si sono fuse
armoniosamente.
La terza fase La mattina un sole
splendido e caldo seduce tutti; cerchiamo di svegliarci con un caffè
d'orzo e ci sediamo nell'aia - adulti, bambini, animali - con il
nostro fedele registratore e con un sacco di ceci che sbucceremo
durante un'interminabile chiacchierata. Su nostra richiesta Marco
racconta com'è nata l'esperienza di Aquarius: "Con alcuni amici di
Milano avevamo cominciato a coltivare un orto periferico e da questo
lavoro collettivo sono nati l'amore per la terra e l'esigenza di
andare a vivere in campagna in modo comunitario. Abbiamo creato
Aquarius nell'estate del 1982 in cinque persone (più un bambino), a
cui poi si è aggiunto Paolo. La prima fase, piena di carica e di
entusiasmo, è durata pochi mesi, poi sono cominciati a emergere
problemi legati alla convivenza, problemi interpersonali, differenze
o disaccordi sull'impostazione di fondo, sui rapporti con l'esterno,
ed anche il problema economico è diventato determinante: per
comprare il podere avevamo dovuto stipulare un mutuo per parecchie
decine di milioni che avrebbe condizionato la nostra vita per dieci
anni, e quindi l'ansia e la paura di far fronte a questo impegno
contribuivano a rendere difficili i rapporti. Problemi economici di
sussistenza, ed anche per le spese di sistemazione della casa non ce
n'erano, perché coi lavori saltuari esterni e la vendita dei nostri
prodotti ce la siamo sempre cavata. Così, dopo un secondo periodo di
avvicendamento con persone che si staccavano ed altre che entravano,
siamo arrivati a quest'ultima fase in cui siamo più omogenei e
affrontiamo i problemi (anche quello economico) con una
consapevolezza e tranquillità che ci derivano dall'esperienza
precedente e, soprattutto, dall'aver costruito un progetto globale
articolato in diverse attività economiche che dovrebbero permetterci
di far fronte ai nostri impegni". Paolo aggiunge che
ad aumentare tensioni e conflitti ha contribuito il tentativo di
farsi carico di persone disadattate di vario tipo: "Evidentemente
non eravamo ancora pronti e maturi per reggere anche questa
responsabilità che richiede un sacco di energie; ma tutte le
vicissitudini passate ci hanno fatto capire che non si poteva
pretendere di dividere sempre tutto con tutti, che era indispensabile
(in alcuni momenti) che ognuno potesse stare solo. La concezione
strettamente comunitaria iniziale si è quindi trasformata in quella
di villaggio comunitario dove ciascuno ha il suo spazio individuale e
partecipa (se vuole) ai momenti comunitari. Non sappiamo se questa è
la formula più giusta, ma sappiamo che lo è per noi, per le nostre
capacità, per la nostra formazione". Nel frattempo è
arrivato un uruguayano che si siede nell'aia con noi. Diciamo che ci
interessa conoscere la storia di ciascuno per capire il tipo di
formazione e di evoluzione che li ha portati qui ed è Paolo (27
anni) ad intervenire per primo, perché poi ci lascerà per andare a
preparare il pranzo (ravioli fatti in casa di erbe aromatiche,
tagliatelle al burro e salvia, mega-insalata mista). Ha svolto
attività politica per qualche tempo al liceo in un gruppo di base di
Autonomia Operaia, ma sempre come cane sciolto, senza identificarsi
completamente, ed anzi con la sensazione sempre più netta che
l'atteggiamento di chi fa "militanza" sia estremamente limitato;
poi ha viaggiato per l'Europa facendo servizi fotografici come
free-lance, ha allacciato contatti con il movimento nonviolento e ha
fatto un lungo viaggio negli Stati Uniti (ha un forte interesse per
gli indiani d'America) che è diventato una sorta di "iniziazione"
alla vita. Al ritorno l'incontro, molto importante, con quelli di AAM
che progettavano la fondazione di un villaggio comunitario (un
progetto che non si realizzerà) lo mette in contatto con tutto il
movimento alternativo (agricolo, alimentare, ecologico, ecc.);
collabora con loro per un po', poi approda ad Aquarius.
"Qui mi trovo
bene anche se..." Daniela ha 25 anni
ed un figlio, Giovanni, di 2: "Anch'io, come Paolo, non mi sono mai
identificata con nessun gruppo politico, piuttosto mi sono sempre
sentita, e mi sento tuttora, anarchica. Ho fatto qualcosa nell'ambito
di gruppi femministi in cui mi riconoscevo di più. Poi, anche
attraverso l'anarchia, ho incominciato ad interessarmi della vita
naturale, a pensare che il mio ideale politico era quello di formare
delle comuni decentrate e, parallelamente, a conoscere il
vegetarianesimo, ad esplorare un certo misticismo orientale. Ho
cercato tanto di realizzare il mio sogno - che è stato anche il
sogno di tanti uomini del secolo scorso - poi finalmente ho trovato
Aquarius". Anna, 28 anni e una
bambina di 8 mesi, ha seguito strade in parte simili e in parte
diverse. Genovese, di famiglia borghese, iscritta a lingue, un lavoro
per essere indipendente, insomma una "vita normale ed inutile"
senza alcun interesse per la politica. Un primo cambiamento
interviene quando si interessa di macrobiotica e cambia la sua
alimentazione, poi, il ritorno da un viaggio in Nepal, la decisione:
prende della terra abbandonata qui in Toscana e si mette a lavorarla
da sola puntando all'autosufficienza completa. Dopo un anno di lavoro
e solitudine - molto importante per la sua formazione - si accorge
che non le basta più, conosce quelli di AAM e del loro giro e si
innamora di Paolo con cui decide di vivere ad Aquarius. Anna è forse
- o almeno così ci sembra - la più individualista del gruppo e
infatti ci dice: "Qui mi trovo bene, anche se a volte desidero
avere più indipendenza individuale, più spazio (non inteso in senso
fisico) di quanto qui posso avere". Per Alberto, 30
anni, di Varese, il primo passo è stato il rifiuto della cultura
cattolica: "Pur considerandomi di sinistra non ho mai approfondito
le varie ideologie, non mi sono mai piaciuti i partiti e le
organizzazioni intruppanti, mentre mi interessavano le filosofie di
liberazione individuale. Per un periodo mi sono avvicinato
all'Autonomia Operaia, ma non mi piacevano le loro proposte politiche
e, ancor meno, la loro pratica, la loro esaltazione dello scontro
fisico che a me sembra di stampo fascista. Cresceva in me la voglia
di cambiare vita dopo undici anni di lavoro in un negozio: ho
incominciato a leggere AAM, ad interessarmi di alimentazione, a
vedere che esisteva gente che viveva già in modo diverso e proprio
attraverso AAM sono approdato qui. Debbo dire che il discorso
comunitario mi interessa, ma non è stata la molla che mi ha spinto;
credo sia più importante - o perlomeno prioritaria - la ricerca
interiore individuale perché se manca questa base è difficile anche
stare bene con gli altri. Per questo - pur non conoscendola - mi
piace l'anarchia, perché mi sembra che esalti l'individualità. Marco, milanese, 26
anni, di estrazione borghese, ha cominciato ad "uscire dal bozzolo"
piuttosto tardi, a diciotto anni, ma poi ha bruciato le tappe: ha
cominciato a leggere di politica, di sociologia, di filosofia nel
tentativo di placare una sete di sapere esplosa prepotentemente,
mentre provava militanze politiche diverse - dalla FGCI al Movimento
Studentesco, ai radicali - ma intense per quanto duravano. "Anch'io
- dice - mi sono sempre sentito anarchico a livello istintivo, ma un
interesse più profondo per le idee e la storia dell'anarchismo
doveva arrivare successivamente, quando seguendo la mia famiglia ho
vissuto per due anni in Canada. Lì ho incominciato a vedere le
ingiustizie più macroscopiche e incredibili, lì le mie posizioni si
sono radicalizzate, ho rotto con la famiglia ed è cominciato un
processo evolutivo sulla base di un approfondimento teorico su
diversi piani intimamente correlati: l'anarchia, lo yoga, le
filosofie orientali di liberazione interiore, le culture primitive".
Poi è tornato in Italia dove ha preso contatto con il movimento
nonviolento e con AAM ed ha cercato una sintesi tra queste due aree,
l'una segnata da un modo di fare politica "tradizionale", l'altra
segnata dal rifiuto della politica. Ad AAM, a Rosalba,
Maria Grazia e Pino lo lega un rapporto culturale profondo oltre che
un rapporto d'amicizia, e insieme hanno elaborato una nuova
impostazione del giornale, più aperta sia a livello organizzativo
che redazionale. "Il mio interesse per la vita comunitaria -
conclude Marco - è cresciuto parallelamente a tutte queste
esperienze, mano a mano che maturavo come ideale politico la
realizzazione concreta delle idee nella vita quotidiana e la fusione
degli elementi spirituale, individuale e sociale. Con Aquarius questa
ricerca è continuata collettivamente e nel tempo abbiamo individuato
i nostri riferimenti teorici e filosofici, i mezzi da usare, gli
obiettivi e la finalità di questa esperienza che non si esaurisce
nel vivere individualmente e comunitariamente la nostra spiritualità
(n.d.r.: a scanso di equivoci con questo termine si intende un
rapporto armonioso con il proprio Io, con gli altri, con la natura),
ma anche proporsi all'esterno come modello possibile per il
cambiamento della società.
Sempre più in
sintonia Ora la sensazione
che avevamo provato ieri sera è confermata: in questo terzo polo si
cerca di fondere l'esigenza di armonia cosmica, con la razionalità,
con la conoscenza e l'analisi della società, in un progetto - molto
articolato, meditato ed ampiamente descritto nel loro interessante
documento programmatico - che è un progetto di trasformazione
sociale. Ci sentiamo sempre più in sintonia con queste persone che
tentano di guardarsi dentro senza per questo smettere di guardare
fuori, che hanno una caparbia volontà di cambiare se stessi e il
mondo. Sarà che il sole è caldissimo, saranno i bimbi che passano
beati da una persona all'altra "parlucchiando" a modo loro, sarà
l'atmosfera rilassata, ma ci sentiamo proprio bene qui, tant'è che
ognuno in cuor suo ha deciso di tornarci. Affrontiamo ora più
concretamente il problema degli obiettivi a breve termine per la
realizzazione del progetto. Come hanno pensato di impostare la loro
economia? Qual è il loro approccio alla tecnologia in generale e
alle tecnologie dolci in particolare? Quali sono le attività sociali
interne ed esterne? "Un obiettivo -
dice Marco - è quello di raggiungere un'autosussistenza abbastanza
completa sul piano dell'alimentazione aumentando la produzione di
cereali e piante da frutta ed eventualmente prendendo altri animali".
Ma sugli animali i pareri sono discordanti, c'è chi sostiene - come
Marco - che sono importanti per la vita della campagna, per i
prodotti che danno, per un equilibrio che contribuiscono a creare
(anche se si pone sempre il problema, per i maschi, del che farne) e
c'è chi - come Daniela - non ne vede l'utilità ma solo l'eccessivo
impegno che richiedono. "Mentre sul piano energetico - continua
Marco - ci proponiamo, seppure più lentamente per motivi economici,
di arrivare all'autosufficienza attraverso pannelli solari e
fotocellule azionate da energia eolica (attualmente sono collegati
alla rete elettrica). La creazione - in atto - di un centro di
distribuzione a S. Gimignano che sarà gestito da noi e da altri
sette poderi agricoli servirà inoltre ad un duplice scopo: da un
lato a vendere prodotti biologici e macrobiotici supportando la
nostra economia, e dall'altro a funzionare come centro di
aggregazione con momenti di incontro e discussioni informali, ma
anche con conferenze e dibattiti culturali che stimolino l'interesse
del tessuto sociale circostante, che cerchino di far capire ai
contadini del luogo che la crisi attuale dell'agricoltura è la
diretta conseguenza di precisi interessi economici che, convertendola
in agricoltura industriale e chimica, l'hanno resa subalterna e
spogliata della sua cultura e della sua potenzialità. Un'altra
attività esterna che abbiamo iniziato già l'anno scorso in estate è
l'organizzazione di corsi tenuti da persone competenti nei singoli
campi che vengono affrontati, ed anche in questo caso l'utilità è
duplice, economica (anche se i prezzi sono molto bassi) e culturale,
perché li abbiamo impostati in modo da insegnare cose che servano a
un processo di liberazione personale e materiale". La casa se la sono
ricostruita loro, con poca o nessuna esperienza alle spalle, dal
tetto rifatto ai pavimenti; solo per alcuni problemi particolari
hanno chiamato un "esperto", ma, dice Marco "anche se non siamo
tutti d'accordo, per imparare bisogna fare le cose in prima persona,
magari con più lentezza e sbagliando"; ora hanno in progetto la
ristrutturazione del fienile, poi, in futuro, la costruzione di altre
case che rendano il "villaggio" realtà. Distogliamo Paolo
dall'elaborazione di magnifici ravioli perché vorremmo discutere
anche con lui di un rischio che secondo noi si può porre: ci
riferiamo alla mistica della comunità, alla comunità che diventa
totem e assume una valenza simbolica superiore a quella del singolo
individuo. Marco non ha difficoltà ad ammetterlo: "Nella prima
fase è stato proprio così, si doveva dividere tutto e sempre; poi
c'è stata una seconda fase in cui, per reazione, ci si è schierati
all'eccesso opposto, ma ora siamo in una terza fase in cui crediamo
di aver trovato un equilibrio mediano tra le due posizioni, con una
gestione conviviale e comunitaria del lavoro, dell'economia, dei
processi decisionali, ma cercando di rispettare il più possibile le
esigenze individuali, per cui, se uno ad esempio non ha voglia di
mangiare con gli altri deve poterlo fare". Anna è quella che,
per il suo carattere, maggiormente ha sentito questo problema,
soprattutto in periodi di affollamento, ma ora va molto meglio, anche
perché ha una cucina indipendente oltre alla sua camera, per cui
mangiare con gli altri è una scelta, non una necessità. "Una cosa
che abbiamo capito - aggiunge Paolo - è l'importanza di creare un
gruppo che sia abbastanza omogeneo, con delle affinità di base pur
con la massima apertura e tolleranza della diversità, quindi un
gruppo con una certa solidità quantomeno nella fase iniziale. Poi
può forse diventare possibile lavorare e rapportarsi anche con
persone e gruppi non affini a noi". Anzi, Alberto e Daniela vedono
questa possibilità come estremamente positiva perché la diversità
di altri porterebbe nuovi stimoli, nuove idee, nuovi fermenti,
insomma porterebbe ad un arricchimento della comunità. L'organizzazione
interna è ben definita, ma non sempre si riesce ad applicare per la
mole enorme di lavoro rispetto al numero delle persone ed infatti -
sottolinea Marco - per funzionare davvero dovremmo essere almeno in
dieci: allora diventerebbe possibile avere i responsabili dei vari
settori (orto, bosco, ulivi, animali, api, ecc.) che ruotano in tempi
lunghi per acquisire professionalità, allora si riuscirebbe ad avere
più tempo per i bambini, per la lettura, per l'arte, ecc., mentre
essendo cosi pochi tutti dobbiamo fare un po' di tutto. Speriamo
proprio di arrivarci".
Il viaggio
continua Si è fatto
tardissimo e Paolo, in ritardo sulla tabella di marcia anche a causa
dell'intervista, lancia dalla cucina un grido d'aiuto subito
raccolto. A tavola oggi siamo in 17 perché altri ospiti si sono
aggiunti: c'è allegria, i ravioli sono riusciti benissimo e c'è
anche un dolce portato dai nuovi arrivati che aumenta l'atmosfera di
festa. Ormai è ora di avviarsi verso la "Chiara": alcuni vengono
con noi, altri restano, Marco parte per Sarzana dove deve incontrare
un amico. Lo salutiamo e lasciamo, come d'accordo, in deposito i
libri dell'Antistato che abbiamo portato e le riviste: serviranno,
oltre che a loro, ai partecipanti dei prossimi corsi. La "Chiara" è
già piena di gente quando arriviamo: uno spagnolo bravissimo suona
la chitarra classica su un trattore in una vigna, circondato da
ragazzi e ragazze; il cortile suggestivo della villa fa da scenario a
un gruppo che suona e balla musica celtica; dentro la villa qua un
pianista eccezionale esegue musica classica, là è in corso una
jam-session. Col calar della
notte vengono accese grandi fiaccole per illuminare il cortile e
vengono approntati i tavoli per la cena. Gaia, Antonio, Egidio e gli
altri sono stanchissimi, ma possono essere soddisfatti: la festa è
riuscita benissimo. Anche noi siamo
stanchissimi. Il nostro viaggio sta per terminare e l'accumulo di
tutte le cose viste, sentite, percepite in questi giorni comincia a
farsi sentire. Lasciamo gli amici della "Chiara" e di "Aquarius"
con un po' di rimpianto: troppo avaro è stato il tempo per stare
insieme, per conoscerci meglio, per discutere di tante cose e per
capire più a fondo potenzialità e problemi delle singole realtà.
Sarebbe stato molto più proficuo lavorare insieme a loro per un
periodo più lungo, dividere la totalità della loro vita perché ci
avrebbe permesso di gettare uno sguardo dall'interno, di vedere cose
che un viaggiatore di passaggio non può cogliere. Invece abbiamo
raccolto testimonianze, informazioni, impressioni, sensazioni e
abbiamo cercato di trasmetterle così come le abbiamo vissute, senza
cercare di trarre conclusioni o grandi analisi teoriche che
richiederebbero un'indagine ben più approfondita - nello spazio e
nel tempo - di quella che abbiamo potuto fare. Ci sembra però di
poter proporre alcuni elementi di riflessione che sono emersi in modo
abbastanza chiaro. Innanzitutto la dimensione del fenomeno
comunitario che supera ogni previsione (solo in Toscana esistono più
di 200 realtà) e che verosimilmente coinvolge migliaia di persone:
una sorta di risposta, più o meno cosciente, alle scelte
autodistruttrici della società, ma anche l'opposizione di nuovi
valori ai valori dominanti. Si tratta di una realtà frammentaria e
scollegata, ma anche forse - almeno lo speriamo - superata una
prima fase di consolidamento interno e di chiarezza, troverà i modi
e i mezzi per costruire una rete di rapporti ampliando la sua area di
influenza. La ricerca di una
spiritualità, di una armonia cosmica, di un rapporto intenso con la
natura è un elemento ricorrente e forse può essere considerata come
reazione sacrosanta al dominio della razionalità e delle ideologie
che per troppo tempo hanno segnato il cammino della nostra civiltà.
Così come è ricorrente l'elemento del "viaggio": per la maggior
parte delle persone incontrate viaggiare è stato determinante ai
fini della loro evoluzione e della comprensione di se stessi e del
mondo. Non è poi tanto strano. Spesso proprio attraverso la
conoscenza di altri mondi, di altre culture, di altre dimensioni si
riesce a vedere con maggiore chiarezza e lucidità - in modo più
distaccato e obiettivo - il proprio mondo, la propria cultura, e si
riescono ad individuare i propri desideri e i modi per realizzarli.
Spesso, dopo aver tanto viaggiato fisicamente, ci si accorge che il
viaggio, individuale e collettivo, continua su un altro piano - non
più spaziale e temporale, ma mentale - per tutta la vita. Tutti
viaggiamo, noi e loro. Ma ci sembra di aver capito che il luogo
ideale di destinazione non sia poi tanto diverso. Ne siamo felici.
Secondo noi di
aquarius...
Non intendendo
ripercorrere all'indietro un processo storico/evolutivo, riteniamo
opportuno l'utilizzo di tutte le energie e le tecnologie alternative
che possono servire a semplificare ed abbreviare il lavoro per la
sussistenza, a vantaggio delle attività artistiche, culturali e
sociali di interesse individuale e collettivo. Resta comunque
ferma la nostra intenzione a ridurre al minimo i nostri bisogni e
consumi energetici. I requisiti fondamentali di tutte le tecnologie e
macchinari che vogliamo utilizzare dovranno essere: 1) non inquinanti né
distruttive per l'ambiente; 2) non dannose,
pericolose o "schiavizzanti" per l'uomo; 3) conviviali,
intendendo con questo termine che siano semplici, a dimensione d'uomo
e di comunità, facilmente apprendibili, gestibili o anche
costruibili da un comunità sufficientemente organizzata.
Uno degli scopi del
progetto è quello di riuscire a creare un'economia autogestita.
Accanto all'economia di sussistenza (autosufficienza) che si completa
con un'economia di scambio (baratto), si deve sviluppare un'economia
di reddito. Finché si rimane
in buona misura dipendenti dai mercati per soddisfare alcuni bisogni
(dalla benzina al pagamento del mutuo), si deve far riferimento
all'economia di mercato per valutare il prezzo a cui vendere i propri
prodotti. Ma un'economia naturale è fondata
sulle risorse della natura e sul lavoro dell'uomo (artigianale e su
piccola scala), mentre un'economia industriale utilizza processi su
vasta scala sfruttando risorse energetiche, tecnologie sofisticate e
lavoro umano. Volendo allora rimanere in un'economia naturale, per
entrare nel mercato si dovranno perciò adottare criteri diversi: la
qualità, il significato e il valore dei prodotti e dei servizi
offerti (...)
L'idea principale è
quella di sviluppare le potenzialità del "Poggio" come centro di
aggregazione sociale, culturale e di vacanze alternative. Punteremmo
soprattutto sull'organizzazione di corsi e campi estivi, riguardanti
tematiche della vita alternativa: agricoltura, alimentazione,
medicina/salute, artigianato, tecnologie, autocostruzione, ecc. I
corsi si concentrano sull'insegnamento tecnico-pratico, ma sono
sempre integrati da una presentazione e condivisione e da interventi
che ne leghino il contenuto ad un contesto filosofico/sociale, al
discorso globale dell'autosufficienza o al "progetto Aquarius". I
campi invece possono avere più un carattere di "esperienza di
vita", comprendenti una parte di lavoro pratico costruttivo,
maggiormente focalizzato sull'aspetto culturale e ideale.
Sia per la
dimensione economica che per il valore intrinseco di momenti comuni,
ci ritroviamo tutti almeno per un pasto quotidiano e per un'assemblea
plenaria mensile (protraibile con sedute
consecutive) che ci consentirà di affrontare l'organizzazione e
problemi pratici di fondo come pure le decisioni di carattere
politico. Altre eventuali brevi assemblee straordinarie possono
essere convocate qualora si presentino necessarie risoluzioni
pratiche a brevissima scadenza. È nostro fermo
intento che tutte le decisioni comuni siano espressione di unanimità
fra noi, affinché chiunque non concordi con le scelte della
maggioranza non subisca violenza. Coscienti però dei nostri limiti
sulla capacità dell'unanimità sempre e comunque, pur impegnandoci a
superarli, accettiamo temporaneamente che solo nei divari su
questioni secondarie, o urgenti decisioni tecniche, si possa giungere
a decisioni di maggioranza.
(dal
documento della comunità Aquarius)
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