Rivista Anarchica Online
Servo di due
padroni
di Giuseppe Bucalo
"Il
problema dibattuto dell'agire dentro le istituzioni o fuori le
istituzioni, dentro al sistema o fuori dal sistema, presuppone che
esistano un dentro e un fuori delle istituzioni, un dentro e un fuori
del sistema, come posizioni nettamente separate e antagoniste. Ma il
dentro e il fuori sono creati come poli opposti e incomunicabili
proprio dal sistema sociale che si fonda sulla divisione a tutti i
livelli. Quindi, accettando questa premessa, noi siamo già
all'interno del gioco".
Franca Ongaro
Basaglia
Credo fermamente,
che nessuna questione possa essere seriamente posta da alcuno che non
venga messo in questione egli stesso da quanto dice/è/fa. Ogni
questione politica ed umana, per essere tale, deve poterci
attraversare, deve poter mettere in "questione" il nostro
stesso domandare, non può vederci spettatori neutrali e/o
indifferenti, deve poterci coinvolgere direttamente, rifondarci e, al
limite, "risolverci". Per questo ho messo una dietro l'altra
le parole, le intenzioni, le affermazioni e le negazioni; per
documentare un "percorso" politico-esistenziale che, in questo
momento, segna un momento di riflessione teorico-pratico: una lunga
marcia nella questione fondamentale per ogni essere umano: "Chi
sono? E da/verso dove vengo/vado?". La mia situazione
"amministrativa" è quella di diplomando: quella posizione, a
volte unica, in cui si pensa seriamente (o si è spinti a pensare) di
fare una "scelta", di "essere o di non essere",
di accettare o di rifiutare. Così dopo tre anni di formazione per
diventare assistente sociale tento di mettere insieme esperienze, di
appropriarmi delle possibilità e di vedere i limiti di questa mia
nuova condizione sociale e umana: insomma tento di fare una "scelta". Questo scritto ha,
così, due intenti dichiarati (gli innumerevoli intenti che si celano
dietro ogni parola non possono certo essere elencati, e, in fin dei
conti, sono sempre più importanti le cose non dette, quelle che non
si è riusciti a dire): 1) fornire uno spaccato politico nell'ambito
di una professione sociale che è a diretto contatto con le crisi
sociali e i movimenti di antinorma; 2) documentare e illustrare un
percorso che, seppure personale, accomuna tutti i libertari che si
trovano a dover vivere, sopravvivere o operare all'interno di
un'organizzazione sociale. Quanti direttamente
o indirettamente hanno, o hanno avuto, a che fare con assistenti
sociali, o hanno scelto il servizio sociale come professione, sanno
quanto è importante definire il senso e la direzione di questa
professione, per comprendere qual è il senso e la direzione del
controllo e della repressione sociale. Chi scrive si trova
in una posizione di assoluto isolamento politico. Questo scritto vuol
essere, quindi, un ponte percorribile e solido fra esperienze, oggi
inevitabilmente individuali, disperatamente soggettive, inutilmente
impotenti, per la creazione di un movimento la cui utilità e
necessità, oltre che ad una esigenza personale-esistenziale,
risponde ad una esigenza politica definita: essere presenti e
abbattere i meccanismi di esclusione nel loro farsi pratico,
rifiutando il ruolo, la funzione e il mandato di
repressione/oppressione/recupero a cui siamo
chiamati/precettati/coattati.
Ogni individuo
al "suo" posto
Occorre subito
puntualizzare che il servizio sociale e l'assistente sociale come
professionista (AS) non possono accampare alcuna origine
antropologico-culturale, alcuna identità autonoma. L'AS nasce ed è
fondato dall'organizzazione sociale. Le esigenze da cui nasce sono in
primo luogo le esigenze dell'organizzazione sociale della risposta
che non tenta più di reprimere la domanda ma di penetrarla,
manipolarla, farla esprimere in termini comprensibili, decifrabili,
risolvibile, di inscriverla nella razionalità del potere della
risposta. Nel momento in cui
venne istituita come professione e prevista nelle piante organiche
dei servizi, la professione di AS non aveva ancora dimostrato la sua
validità, efficienza ed efficacia, né la sua utilità sociale: essa
era un'attività volontaristico-umanitaria che niente ha a che vedere
con le pretese scientifiche e tecniche che accampa oggi. Eppure essa
venne prevista e divenne, almeno nelle intenzioni, quella figura
nuova e dinamica, figlia della tecnica moderna, strettamente
collegata alle esigenze dello sviluppo produttivo e sociale del
sistema, che, meglio di altre professioni storiche, irrimediabilmente
infognate in una coazione a ripetere di tipo meccanico-reazionaria,
può dar vita ad un processo di cambiamento "controllato"
che sposti ed allarghi l'intervento diretto dello stato in tutta una
serie di emergenze sociali, non chiaramente mediche, e, quindi, non
chiaramente decifrabili con i consueti parametri di norma-antinorma,
sanità-follia. L'AS viene "creato" come momento
qualificante e professionale di un cambiamento di rotta nel modo in
cui la norma rende inutile e neutralizza l'antinorma: egli deve
essere il paladino della nuova "guerra santa": non repressione
ma "recupero" della crisi, e i suoi carnefici? Compito precipuo
dell'AS sembra diventare quello di trasportare/trasformare le
scoperte psico-sociologiche, le ideologie della realtà in "realtà
ideologica": egli deve far sì che ciò che "si dice" su
un dato fenomeno corrisponda a ciò che di fatto esso "è". Il
suo compito è quello di trasformare la sofferenza dell'individuo in
domanda sociale, in richiesta specifica, in modulo richiesto da
compilare, evitando che questo processo sia collettivo (attraverso la
definizione di categorie, diagnosi, definizioni, classificazioni,
ecc.) o, peggio ancora, che sia gestito direttamente dal basso. Egli
deve cambiare le "parole" originali della richiesta
dell'individuo, cambiarne le origini, i luoghi, le situazioni, la
classe e, a volte, stravolgerle in nome di un realismo e di un
pragmatismo che è immobilismo, complicità, legittimazione della
realtà come dato. L'utente deve vedere l'istituzione ed usufruirne
(ed "esserne usufruito") attraverso gli occhi dell'AS. Egli
(l'AS) deve essere il "volto umano" delle istituzioni, deve
"mediare" fra l'umanità meccanica, burocratica, data,
ordinata e prevista delle "risposte" e l'umanità creativa,
disordinata, caotica, imprevista, radicale e urgente delle "domande".
L'AS deve "irrigidire" la domanda, adeguandola nella sua
"forma", "contenuto" e "tempi" alla
"forma", "contenuto" e "tempi" della
risposta socio-istituzionale prevista per quella situazione data. Per
far ciò egli deve saper "praticizzare" le categorie
sociologiche e psicologiche, riuscendo sempre a collocare ogni
individuo-situazione in una particolare "scatola",
"cassetto", "armadio" o "schedario" del
suo ufficio. Egli deve saper vedere l'individuo attraverso "categorie
generali ed individuali": deve metterlo al suo "posto"
(e, cioè, deve saperlo mettere "a posto"). Ora, non si deve
pensare che la "mediazione" e il "compromesso" siano
delle funzioni "necessarie" del servizio sociale inserito
in un dato contesto organizzato: il compromesso e la mediazione
fanno, infatti, parte della "struttura" stessa della
professione. L'AS, si dice, opera in un campo psico-sociale: e, cioè,
"fra" individuo solitario e il sociale comunitario. Egli
sta "fra" domanda e risposta, "fra" arte e
scienza, "fra" organizzazione e autogestione. A mio avviso
il S.S. è una professione che si fonda sul "vuoto". Come
si fa infatti a presupporre che esista davvero qualcosa di simile ad
un rapporto "fra" una persona esclusa, violentata ed espulsa
dal contesto umano e sociale perché "improduttivo",
"scomoda" e "non gestibile" nei "lager
familiari", e i suoi carnefici?. Quando diciamo
infatti che lavoriamo in una prospettiva relazionale, noi al
contrario scegliamo o l'uno o l'altro polo della contraddizione che
la "crisi" dell'individuo apre nel sistema in equilibrio:
e, cioè, o lavoriamo per mettere in crisi il sistema o per
equilibrare l'individuo. La nostra non è una prospettiva relazionale
ma "politica". Questa affermazione
ci introduce direttamente al "cuore" del problema tecnico
e, in particolare, della capacità della tecnica di adattarsi
docilmente a qualsiasi utilizzo, anche disumano, distruttivo,
inutilmente violento, assurdamente punitivo. Ai professionisti si
insegna la "neutralità" o meglio ancora l'indifferenza. Il
tecnico, l'AS è (o ritiene di essere e/o di dover restare)
"neutrale" rispetto al conflitto e alle contraddizioni
in/su cui si trova ad operare. Egli deve ergersi come mediatore
imparziale, realistico, attento al contempo al bene sociale e a
quello individuale. Deve rendersi garante del rispetto delle "regole
del gioco", senza protendere da una o dall'altra parte: deve
stare "fra" e favorire la comunicazione tra i due sistemi
(quello della domanda e quello della risposta), altrimenti
irriducibili l'uno all'altro se non attraverso un'azione di forza. L'uso della forza,
in società post-industriali, post-moderne, post-umane è senz'altro
qualcosa di molto "impopolare" ed "inopportuno": è
uno scontro inutile, un inutile spreco di energie e di forze
produttive. È più
sicuro e, allo stesso tempo, paradossale "far costruire al
carcerato da sé la propria cella".
La neutralità
impossibile
Essere "neutri"
ci tira fuori da ogni responsabilità morale, sociale, umana o
politica. In fondo noi siamo dei professionisti, praticizziamo un
sapere secondo gli ambiti economico-produttivi, socio-familiari e
religioso-morali dell'organizzazione sociale in cui operiamo. I
nostri ambiti, funzioni e competenze sono stabiliti "per legge",
le nostre responsabilità sono tecniche, pratiche o terapeutiche, ma
noi non abbiamo "colpa" se non nel senso generale che "tutta
la società ha colpa" del formarsi delle situazioni di disagio e
di disperazione a cui noi "rispondiamo". Ma noi a chi o a
cosa rispondiamo? Sicuramente non al soggetto che "domanda" (o
non necessariamente): noi rispondiamo alla "domanda" che
noi stessi preformiamo in vista della "risposta" che
sappiamo/dobbiamo/possiamo darle. Questo nostro modo di "rispondere",
quindi, non ha niente a che vedere con la situazione interpersonale
d'aiuto che vorrebbe riprodurre. Il "rispondere" qui ha il
senso di "coprire" "mistificare", "non far
parlare". L'AS e l'individuo che gli sta di fronte appaiono come
due che urlano per far udire la propria voce "su" quella
dell'altro. L'AS finisce, generalmente, per prevalere, questo
significa che egli si conquista il diritto/dovere di comprendere,
interpretare e definire la situazione dell'altro, di interpretare e
definire le sue domande e, quindi, di "progettare" le
risposte adatte al "caso". Essere "neutrale"
permette all'AS di mantenere in pugno la situazione, di mantenersi
sempre da questa parte della norma, della sanità, del prestigio e
riconoscimento sociale. Ciò facendo l'AS si sottrae da pericolose
crisi di identità e di ruolo: ciò che può essere messo in crisi è
la ideologia professionale, non certo la sua stesse esistenza, ruolo
e/o funzione sociale. Coinvolgersi nella questione della sofferenza e
del disagio altrui vuol dire "essere coinvolto/travolto dalla
questione". La sua "neutralità", quindi, non cura e
non ha alcuna funzione terapeutica: essa è solo l'indifferenza di
chi ha il "potere" e vuole mantenerlo.
Rompere il
binomio potere/sapere
Mettere in crisi le
proprie certezze professionali, così come rifiutare il proprio
mandato sociale, non è un proposito o un'azione puramente
ideologica, non può essere frutto di una scelta unidirezionale ed
individuale (o non solo): essa deve coinvolgere tanto noi come
carnefici/vittime, quanto le nostre stesse ""vittime".
Una cosa che, forse, tutti i libertari hanno chiaro è che nessuna
trasformazione o liberazione può essere imposta, può essere fatta e
decisa "su" gli individui: la libertà obbligatoria è, di
fatto, tra violenza paradossale dei "liberatori" che
scambiano "liberare" con "liberazione". È
proprio sul campo della pratica non-ideologica della crisi, delle
possibilità concrete che l'AS (ma anche ciascuno di noi) ha di
potere davvero rifiutare la delega/ruolo/mandato sociale, che
vogliamo incentrare la seconda parte di questo saggio. Lavorando nella
quotidianità delle crisi, delle ferite, delle crepe che il nostro
sistema di vita apre continuamente "negli" e "fra"
gli individui, nella contraddizione umana, prima ancora che politica,
di individui disperati senza alcuna via di uscita: noi ci troviamo di
fronte ad una possibilità/realtà che, spesso, non riusciamo ad
accettare fino a misconoscerla del tutto. Essa si riassume
nell'affermazione che "ribellarsi è un privilegio".
Paradossalmente, spesso, il nostro ribellarci e rigettare il mandato
di carcerieri che ci è stato affidato non è che la "prova di
forza", l'attestato del potere che abbiamo di poter rifiutare
ciò che ci viene imposto (indipendentemente dal fatto di riuscirci o
meno). Ma proviamo ad invitare gli operai di Comiso a ribellarsi, a
non andare a lavorare alla base missilistica, a non piegarsi al
ricatto economico, proviamo a dirlo a tanti miei coetanei che si
arruolano in una delle tante armi di questo nostro fottutissimo
esercito. La parola ribellione in questi contesti assume sfumature o
connotazioni qualitativamente diverse. Non possiamo certo ignorare
ciò quando, ad esempio, rifiutiamo il nostro mandato di carcerieri
negli ospedali psichiatrici o nei servizi di diagnosi e cura, e ci
troviamo "tra i piedi" le persone che noi abbiamo inteso
"liberare" che ci chiedono di essere "legati",
"contenuti", "addormentati" dai farmaci. Ribellarci, entrare
in crisi e mettere in crisi, per noi, può essere una esperienza
eccitante di purificazione, sicuramente un'esperienza acuta di
identità, di senso e di significato: ma per coloro che noi spingiamo
alla ribellione, essa può diventare l'immagine bloccata, ripetuta
all'infinito, di un fallimento, di una sconfitta: dobbiamo renderci
conto che esistono esseri umani per i quali la riapertura della
ferita è un fatto incomprensibilmente violento, una violenza senza
scopo. Proprio per questo non basta solo condividere con altri il
loro disagio e la loro volontà di ritornare a vivere: noi dobbiamo
"rischiare", dobbiamo condividerne il destino, dobbiamo
poterci liberare con loro, dobbiamo trasformarci per trasformare per
trasformarci: dobbiamo saper/poter passare dalla loro parte,
diventare "uno di loro". Le nostre scelte devono essere
socializzate, confrontate, dialettizzate con chi queste scelte
dovrebbe subirle: insieme si deve elaborare un progetto di
intervento, una piattaforma di proposte, di tensioni, di risoluzioni
che ci coinvolgano entrambi. Solo così, a mio
avviso, si può tentare di spezzare il binomio, altrimenti
inscindibile, potere/sapere: socializzando potere e sapere e
gestendolo insieme. Il rifiuto del
nostro mandato ha cosi un senso "rivoluzionario" preciso
solo quando è concertato col desiderio e la lotta delle nostre
vittime di diventare "persone", "individui", "esseri
umani". Si deve praticizzare, insomma, la massima secondo cui
nessun uomo può essere veramente libero quando in una qualsiasi
altra parte di questo pianeta ci siano uomini in catene. La
liberazione deve coinvolgere sia l'AS che il suo assistito: entrambi
devono liberarsi dal rapporto sociale di potere imposto ad entrambi. L'AS deve liberarsi
dalla sua educazione e formazione, deve imparare a trattare da esseri
umani gli uomini con cui ha a che fare, deve superare "neutralità"
impossibili, deve liberarsi dalla tecnica che lo rinchiude nella
solitudine violenta della sua professionalità: deve poter rientrare
nelle cose che fa, deve potersi esprimere senza dover, per forza,
ostentare e praticare sicurezza, autorità, potere. L'assistito, la
sua sofferenza devono, cioè, liberare l'AS. Se egli (AS) assume la
posizione di chi ha da essere liberato e non del liberatore, se si
rende conto di avere lui bisogno dell'assistito, più di
quanto quest'ultimo abbia bisogno dell'AS, allora, forse, avremo
nella pratica superato il privilegio della ribellione e potremo
parlare di una ribellione collettiva. È
questa tensione che ci distingue, come libertari, dai
"rivoluzionaristi" di ogni epoca e luogo: noi non crediamo
nelle "avanguardie", nei "partiti guida", non
crediamo che qualcuno possa pensare o cambiare al nostro "posto". Ma cos'è che
impedisce all'AS di liberarsi? Di ascoltare le richieste dei suoi
assistiti? Di comprendere le profonde implicazioni politiche e
repressive della sua azione? L'assistente
sociale è un individuo "accecato", non solo dalla
ideologia sociale, ma anche dalla propria ideologia/formazione
professionale: il suo compito precipuo è quello di accecarsi e di
accecare, quello di coprire ogni tentativo di rivolta umana, di
deviazione della norma, di farsi, con ciò, scienza certa, religione
assoluta. L'AS deve chiudere le crisi: egli deve, cioè, agire sugli
effetti "distruttivi" individuali delle crisi (e quindi
violenze) sociali. Un processo del genere, ripetuto e ideologizzato,
fa sì che, nell'uso comune e politico, si confonda "l'effetto"
con la "causa". Si lotta così a spada tratta contro/su/per
gli individui per recuperarli/
punirli/sottometterli/rieducarli/riconvertirli/ricoverarli ecc. e si
lascia in piedi (e anzi lo si conferma/riproduce) il sistema (e,
cioè, la scenografia, la prospettiva, l'orizzonte in cui ogni
sofferenza diventa disperazione). È
come ricucire quello che rimane di un soldato, saltato in aria con
una mina, per rimandarlo al fronte.
Delegittimiamo
la delega
A questo punto
l'interrogativo si fa pressante: cosa può fare l'AS? È
possibile, utile o inutile che "diserti"? E per chi o cosa? Dire "rifiuto
della delega" e "diserzione" è dire/fare due scelte
diverse: nella prima si mette in crisi e si "sta", si
"resta" nella crisi; nella seconda ci si ritira dai luoghi
e tempi in cui la crisi si forma e la si riapre ad altri livelli,
luoghi e tempi, ci si rifiuta di partecipare ad un massacro. Le
scelte, poi, non sono così nette, né si escludono a vicenda: esse,
infatti, si richiamano a vicenda, si completano l'un l'altra. Il rifiuto della
delega non può fermarsi alla ricerca di un migliore utilizzo di essa
(come se fosse possibile esercitare il potere in un modo "migliore"
o più "umano"), ma deve essere una pratica quotidiana in
cui delega e mandato sociale perdano legittimità e autorità, in cui
all'ordine non venga ubbidito. Ecco che per noi libertari rifiuto
della delega e diserzione vuol dire cambiare non solo "chi
comanda" ma il fatto stesso del "comandare". L'AS in questo
senso può essere un agente di cambiamento, un soggetto di esso: egli
può coinvolgersi o essere coinvolto in una trasformazione radicale
dell'organizzazione sociale in cui non sia necessario fare un buon
uso della delega perché non sarà necessaria la delega. Ma si obietterà
che l'AS, come chiunque, può farsi promotore di un cambiamento
sostanziale a patto che rifiuti e metta in discussione il suo posto e
la società in cui ha trovato un "posto": questo è vero.
Ma è altrettanto vero che l'AS si trova a vivere un'esperienza
particolare, direttamente e praticamente coinvolto nei processi di
trasformazione, preso nella morsa di un dualismo che è insieme il
suo limite e le sue possibilità: egli è appunto servo di due
padroni. Abbiamo avuto modo
di definire quali sono i limiti "oggettivi" e "politici"
di questa professione, proviamo a tracciare le possibilità e i
significati alternativi. Il servizio sociale
è innanzitutto una professione d'aiuto che aiuta altri ad aiutarsi
da sé. Questa affermazione usata, ed abusata, in tutte le scuole
professionali, ha una profonda valenza "politica". Essa
afferma: compito dell'AS è quello di aiutare le persone a fare a
meno di lui: aiutare altri ad autogestirsi da sé. Parole come
"autodeterminazione" o "libertà di scelta" sono usate,
ed abusate, per quanto riguarda la formazione di tutto il personale
dell'assistenza/repressione sociale e sanitaria, ma nel caso dell'AS
assumono una valenza, preponderanza, decisione del tutto nuova. Il
fatto di trovarsi a contatto diretto con le crisi sociali, là dove
si formano, a contatto con tutta la loro forza eversiva,
distruttrice, disorganizzata, spontanea, umana, fa sì che l'AS,
quando non si irrigidisca nel suo ruolo/funzione di potere, sia
coinvolto/travolto da/in una politica della sofferenza che è
politica della trasformazione: egli si trova continuamente
"proiettato" nei territori dell'antinorma nel tentativo di
chiarire, comprendere, aiutare. Ma ridefinire le
esperienze "deviate" vuol dire innanzitutto ridefinire le
esperienze "normali": l'AS comprende l'altro nella misura
in cui mette in crisi se stesso e, con il suo ruolo, l'intera
organizzazione logico-razionale-politico-sociale in cui ha trovato un
"posto". L'AS deve smettere di essere il simbolo e il garante
dell'ordine e, allo stesso modo, abbandonare il tentativo di essere
simbolo e garante del disordine: l'utopia e la pratica che lo muove è
quella dell'aiuto (e, cioè, di una realtà umana ed esistenziale che
si valida da sé). Gente da aiutare sta da una parte e dall'altra
della norma, ma anche da una parte all'altra del potere. Per quanto
possa sembrare paradossale, penso sia necessario cominciare a pensare
e ad agire per aiutare i potenti a liberarsi dal "potere",
almeno con lo stesso impegno e la stessa foga che mettiamo nel
tentare di liberare gli oppressi e gli esclusi dal potere: cambiare i
rapporti fra gli uomini comporta che riusciamo ad offrire agli
individui la possibilità di poter vivere senza esercitare o subire
il potere come un fatto inevitabile (sul tipo o domini o sei
dominato, o vinci o sei vinto ecc.). I miti violentano sia coloro che
non possono/non riescono ad adeguarsi, sia chi si adegua. Penso che a
lungo andare sarà estremamente difficile, se non impossibile,
definire chi è la vittima e chi è il carnefice. Questo senza voler
assolvere (ma anche senza voler condannare) nessuno. L'AS, ma anche
ognuno di noi, non può ergersi come tribunale del popolo o di dio:
la complessità dei rapporti umani è tale da rendere impraticabile
ogni idea di giustizia bene/male, lecito/illecito, giusto/ingiusto;
così è altrettanto sterile parlare in termini di responsabilità
individuale o puramente "collettiva". Quella che abbiamo
di fronte quando operiamo è una catena di violenza, più o meno
ovvia, in cui noi dovremmo assumere il ruolo di anello di
congiunzione, di trasmissione, un'ennesima violenza su chi soffre.
Noi possiamo certo scegliere di chiudere gli occhi e di pensare di
essere dei tecnici che applicano teorie oggettive, ma possiamo anche
e meglio, decidere di "spezzare" la catena non ubbidendo, non
agendo così come "ci si aspetta da noi", scardinando la
pratica e il sistema di legittimazione sociale, togliendo
inevitabilità, doverosità, eternità al potere ed alla sua
violenza.
Dentro o fuori le
istituzioni?
L'AS ha le sue
porte/possibilità: egli può entrare nel gioco domanda e risposta
dando voce alle voci mute degli esclusi degli emarginati in genere:
abbandonando il suo ruolo, cancellando la sua "mediazione"
egli può permettere che la "crisi" giunga al cuore del
sistema, l'antinorma al cuore
dell'antinorma, l'utopia del
cuore della realtà; può far sì che gli individui si trovino uno di
fronte all'altro senza la giustificazione/autorità di un potere (o
di un non potere) costituito. E allora: lavorare
"dentro" o lavorare "fuori" lo stato, le istituzioni? L'intestazione di
questo saggio risponde a questa domanda in maniera dialettica anche
se occorrono delle precisazioni. Io ritengo (e non solo come una
sorta di autogiustificazione e/o di compromesso) che la nostra azione
deve essere adeguata ai diversi livelli ed alla complessità del
reale. Questo naturalmente non vuol dire appiattimento del
realismo/immobilismo, né accettazione delle regole del gioco
(l'unità mezzi/fini resta un punto fermo qualitativo che
contraddistingue il movimento libertario nella sua azione), ma molto
più semplicemente che occorra muoversi in più direzioni e con
creatività, accettando, ove possibile e/o utile, di "sporcarsi
le mani", visto che l'essere "fuori" ci è precluso (e
forse non è neanche auspicabile). Personalmente non credo alle
trasformazioni dall'interno del sistema, ma, alla stesso modo, non
credo in una pratica che si stacchi dalle situazioni e dalle crisi
nei modi e nei tempi e nei luoghi in cui si manifestano. Allora occorre
creatività, inventiva, "anarchia pura"; occorre lavorare
"fuori-dentro", organizzare e preparare un'alternativa; occorre
non assolutizzare nessuno dei due
poli, né assumere come assoluta la loro incomunicabilità; occorre
essere presenti da una parte e dall'altra: se vogliamo creare una
società in cui non ci sia un dentro e un fuori occorre che già da
ora noi agiamo affinché ciò che adesso si esclude a vicenda possa
essere ricomposto in una nuova unità: poiché dentro o fuori che si
sia il nostro unico scopo e fine sono gli esseri umani, la loro vita,
la loro libertà, la loro possibilità di essere semplicemente
uomini. Mi rendo conto che
a molti (e non a torto) possa sembrare che gli A.S. siano poco utili
(se non addirittura "dannosi" e "pericolosi") nel
movimento e nella pratica libertaria; così come sono conscio che
probabilmente i libertari non hanno alcun bisogno di A.S.. Ma
sicuramente, e senza ombra di dubbio, gli A.S. hanno bisogno dei
libertari, hanno bisogno di liberarsi, di trasformare e di
trasformarsi, di rendere pratica l'utopia di tutti: la libera
convivenza, in un'umanità libera da qualsiasi frontiera (nazionale,
internazionale, sociale, politica, religiosa, interpersonale, ecc.) e
da qualsiasi potere.
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