Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 129
giugno 1985


Rivista Anarchica Online

Servo di due padroni
di Giuseppe Bucalo

"Il problema dibattuto dell'agire dentro le istituzioni o fuori le istituzioni, dentro al sistema o fuori dal sistema, presuppone che esistano un dentro e un fuori delle istituzioni, un dentro e un fuori del sistema, come posizioni nettamente separate e antagoniste. Ma il dentro e il fuori sono creati come poli opposti e incomunicabili proprio dal sistema sociale che si fonda sulla divisione a tutti i livelli. Quindi, accettando questa premessa, noi siamo già all'interno del gioco".

Franca Ongaro Basaglia


Credo fermamente, che nessuna questione possa essere seriamente posta da alcuno che non venga messo in questione egli stesso da quanto dice/è/fa. Ogni questione politica ed umana, per essere tale, deve poterci attraversare, deve poter mettere in "questione" il nostro stesso domandare, non può vederci spettatori neutrali e/o indifferenti, deve poterci coinvolgere direttamente, rifondarci e, al limite, "risolverci". Per questo ho messo una dietro l'altra le parole, le intenzioni, le affermazioni e le negazioni; per documentare un "percorso" politico-esistenziale che, in questo momento, segna un momento di riflessione teorico-pratico: una lunga marcia nella questione fondamentale per ogni essere umano: "Chi sono? E da/verso dove vengo/vado?".
La mia situazione "amministrativa" è quella di diplomando: quella posizione, a volte unica, in cui si pensa seriamente (o si è spinti a pensare) di fare una "scelta", di "essere o di non essere", di accettare o di rifiutare. Così dopo tre anni di formazione per diventare assistente sociale tento di mettere insieme esperienze, di appropriarmi delle possibilità e di vedere i limiti di questa mia nuova condizione sociale e umana: insomma tento di fare una "scelta".
Questo scritto ha, così, due intenti dichiarati (gli innumerevoli intenti che si celano dietro ogni parola non possono certo essere elencati, e, in fin dei conti, sono sempre più importanti le cose non dette, quelle che non si è riusciti a dire): 1) fornire uno spaccato politico nell'ambito di una professione sociale che è a diretto contatto con le crisi sociali e i movimenti di antinorma; 2) documentare e illustrare un percorso che, seppure personale, accomuna tutti i libertari che si trovano a dover vivere, sopravvivere o operare all'interno di un'organizzazione sociale.
Quanti direttamente o indirettamente hanno, o hanno avuto, a che fare con assistenti sociali, o hanno scelto il servizio sociale come professione, sanno quanto è importante definire il senso e la direzione di questa professione, per comprendere qual è il senso e la direzione del controllo e della repressione sociale.
Chi scrive si trova in una posizione di assoluto isolamento politico. Questo scritto vuol essere, quindi, un ponte percorribile e solido fra esperienze, oggi inevitabilmente individuali, disperatamente soggettive, inutilmente impotenti, per la creazione di un movimento la cui utilità e necessità, oltre che ad una esigenza personale-esistenziale, risponde ad una esigenza politica definita: essere presenti e abbattere i meccanismi di esclusione nel loro farsi pratico, rifiutando il ruolo, la funzione e il mandato di repressione/oppressione/recupero a cui siamo chiamati/precettati/coattati.

Ogni individuo al "suo" posto
Occorre subito puntualizzare che il servizio sociale e l'assistente sociale come professionista (AS) non possono accampare alcuna origine antropologico-culturale, alcuna identità autonoma. L'AS nasce ed è fondato dall'organizzazione sociale. Le esigenze da cui nasce sono in primo luogo le esigenze dell'organizzazione sociale della risposta che non tenta più di reprimere la domanda ma di penetrarla, manipolarla, farla esprimere in termini comprensibili, decifrabili, risolvibile, di inscriverla nella razionalità del potere della risposta.
Nel momento in cui venne istituita come professione e prevista nelle piante organiche dei servizi, la professione di AS non aveva ancora dimostrato la sua validità, efficienza ed efficacia, né la sua utilità sociale: essa era un'attività volontaristico-umanitaria che niente ha a che vedere con le pretese scientifiche e tecniche che accampa oggi. Eppure essa venne prevista e divenne, almeno nelle intenzioni, quella figura nuova e dinamica, figlia della tecnica moderna, strettamente collegata alle esigenze dello sviluppo produttivo e sociale del sistema, che, meglio di altre professioni storiche, irrimediabilmente infognate in una coazione a ripetere di tipo meccanico-reazionaria, può dar vita ad un processo di cambiamento "controllato" che sposti ed allarghi l'intervento diretto dello stato in tutta una serie di emergenze sociali, non chiaramente mediche, e, quindi, non chiaramente decifrabili con i consueti parametri di norma-antinorma, sanità-follia. L'AS viene "creato" come momento qualificante e professionale di un cambiamento di rotta nel modo in cui la norma rende inutile e neutralizza l'antinorma: egli deve essere il paladino della nuova "guerra santa": non repressione ma "recupero" della crisi, e i suoi carnefici?
Compito precipuo dell'AS sembra diventare quello di trasportare/trasformare le scoperte psico-sociologiche, le ideologie della realtà in "realtà ideologica": egli deve far sì che ciò che "si dice" su un dato fenomeno corrisponda a ciò che di fatto esso "è". Il suo compito è quello di trasformare la sofferenza dell'individuo in domanda sociale, in richiesta specifica, in modulo richiesto da compilare, evitando che questo processo sia collettivo (attraverso la definizione di categorie, diagnosi, definizioni, classificazioni, ecc.) o, peggio ancora, che sia gestito direttamente dal basso. Egli deve cambiare le "parole" originali della richiesta dell'individuo, cambiarne le origini, i luoghi, le situazioni, la classe e, a volte, stravolgerle in nome di un realismo e di un pragmatismo che è immobilismo, complicità, legittimazione della realtà come dato. L'utente deve vedere l'istituzione ed usufruirne (ed "esserne usufruito") attraverso gli occhi dell'AS. Egli (l'AS) deve essere il "volto umano" delle istituzioni, deve "mediare" fra l'umanità meccanica, burocratica, data, ordinata e prevista delle "risposte" e l'umanità creativa, disordinata, caotica, imprevista, radicale e urgente delle "domande". L'AS deve "irrigidire" la domanda, adeguandola nella sua "forma", "contenuto" e "tempi" alla "forma", "contenuto" e "tempi" della risposta socio-istituzionale prevista per quella situazione data. Per far ciò egli deve saper "praticizzare" le categorie sociologiche e psicologiche, riuscendo sempre a collocare ogni individuo-situazione in una particolare "scatola", "cassetto", "armadio" o "schedario" del suo ufficio. Egli deve saper vedere l'individuo attraverso "categorie generali ed individuali": deve metterlo al suo "posto" (e, cioè, deve saperlo mettere "a posto").
Ora, non si deve pensare che la "mediazione" e il "compromesso" siano delle funzioni "necessarie" del servizio sociale inserito in un dato contesto organizzato: il compromesso e la mediazione fanno, infatti, parte della "struttura" stessa della professione. L'AS, si dice, opera in un campo psico-sociale: e, cioè, "fra" individuo solitario e il sociale comunitario. Egli sta "fra" domanda e risposta, "fra" arte e scienza, "fra" organizzazione e autogestione. A mio avviso il S.S. è una professione che si fonda sul "vuoto". Come si fa infatti a presupporre che esista davvero qualcosa di simile ad un rapporto "fra" una persona esclusa, violentata ed espulsa dal contesto umano e sociale perché "improduttivo", "scomoda" e "non gestibile" nei "lager familiari", e i suoi carnefici?.
Quando diciamo infatti che lavoriamo in una prospettiva relazionale, noi al contrario scegliamo o l'uno o l'altro polo della contraddizione che la "crisi" dell'individuo apre nel sistema in equilibrio: e, cioè, o lavoriamo per mettere in crisi il sistema o per equilibrare l'individuo. La nostra non è una prospettiva relazionale ma "politica".
Questa affermazione ci introduce direttamente al "cuore" del problema tecnico e, in particolare, della capacità della tecnica di adattarsi docilmente a qualsiasi utilizzo, anche disumano, distruttivo, inutilmente violento, assurdamente punitivo. Ai professionisti si insegna la "neutralità" o meglio ancora l'indifferenza. Il tecnico, l'AS è (o ritiene di essere e/o di dover restare) "neutrale" rispetto al conflitto e alle contraddizioni in/su cui si trova ad operare. Egli deve ergersi come mediatore imparziale, realistico, attento al contempo al bene sociale e a quello individuale. Deve rendersi garante del rispetto delle "regole del gioco", senza protendere da una o dall'altra parte: deve stare "fra" e favorire la comunicazione tra i due sistemi (quello della domanda e quello della risposta), altrimenti irriducibili l'uno all'altro se non attraverso un'azione di forza.
L'uso della forza, in società post-industriali, post-moderne, post-umane è senz'altro qualcosa di molto "impopolare" ed "inopportuno": è uno scontro inutile, un inutile spreco di energie e di forze produttive. È più sicuro e, allo stesso tempo, paradossale "far costruire al carcerato da sé la propria cella".

La neutralità impossibile
Essere "neutri" ci tira fuori da ogni responsabilità morale, sociale, umana o politica. In fondo noi siamo dei professionisti, praticizziamo un sapere secondo gli ambiti economico-produttivi, socio-familiari e religioso-morali dell'organizzazione sociale in cui operiamo. I nostri ambiti, funzioni e competenze sono stabiliti "per legge", le nostre responsabilità sono tecniche, pratiche o terapeutiche, ma noi non abbiamo "colpa" se non nel senso generale che "tutta la società ha colpa" del formarsi delle situazioni di disagio e di disperazione a cui noi "rispondiamo".
Ma noi a chi o a cosa rispondiamo? Sicuramente non al soggetto che "domanda" (o non necessariamente): noi rispondiamo alla "domanda" che noi stessi preformiamo in vista della "risposta" che sappiamo/dobbiamo/possiamo darle. Questo nostro modo di "rispondere", quindi, non ha niente a che vedere con la situazione interpersonale d'aiuto che vorrebbe riprodurre. Il "rispondere" qui ha il senso di "coprire" "mistificare", "non far parlare". L'AS e l'individuo che gli sta di fronte appaiono come due che urlano per far udire la propria voce "su" quella dell'altro. L'AS finisce, generalmente, per prevalere, questo significa che egli si conquista il diritto/dovere di comprendere, interpretare e definire la situazione dell'altro, di interpretare e definire le sue domande e, quindi, di "progettare" le risposte adatte al "caso". Essere "neutrale" permette all'AS di mantenere in pugno la situazione, di mantenersi sempre da questa parte della norma, della sanità, del prestigio e riconoscimento sociale. Ciò facendo l'AS si sottrae da pericolose crisi di identità e di ruolo: ciò che può essere messo in crisi è la ideologia professionale, non certo la sua stesse esistenza, ruolo e/o funzione sociale. Coinvolgersi nella questione della sofferenza e del disagio altrui vuol dire "essere coinvolto/travolto dalla questione". La sua "neutralità", quindi, non cura e non ha alcuna funzione terapeutica: essa è solo l'indifferenza di chi ha il "potere" e vuole mantenerlo.

Rompere il binomio potere/sapere
Mettere in crisi le proprie certezze professionali, così come rifiutare il proprio mandato sociale, non è un proposito o un'azione puramente ideologica, non può essere frutto di una scelta unidirezionale ed individuale (o non solo): essa deve coinvolgere tanto noi come carnefici/vittime, quanto le nostre stesse ""vittime". Una cosa che, forse, tutti i libertari hanno chiaro è che nessuna trasformazione o liberazione può essere imposta, può essere fatta e decisa "su" gli individui: la libertà obbligatoria è, di fatto, tra violenza paradossale dei "liberatori" che scambiano "liberare" con "liberazione".
È proprio sul campo della pratica non-ideologica della crisi, delle possibilità concrete che l'AS (ma anche ciascuno di noi) ha di potere davvero rifiutare la delega/ruolo/mandato sociale, che vogliamo incentrare la seconda parte di questo saggio.
Lavorando nella quotidianità delle crisi, delle ferite, delle crepe che il nostro sistema di vita apre continuamente "negli" e "fra" gli individui, nella contraddizione umana, prima ancora che politica, di individui disperati senza alcuna via di uscita: noi ci troviamo di fronte ad una possibilità/realtà che, spesso, non riusciamo ad accettare fino a misconoscerla del tutto. Essa si riassume nell'affermazione che "ribellarsi è un privilegio". Paradossalmente, spesso, il nostro ribellarci e rigettare il mandato di carcerieri che ci è stato affidato non è che la "prova di forza", l'attestato del potere che abbiamo di poter rifiutare ciò che ci viene imposto (indipendentemente dal fatto di riuscirci o meno). Ma proviamo ad invitare gli operai di Comiso a ribellarsi, a non andare a lavorare alla base missilistica, a non piegarsi al ricatto economico, proviamo a dirlo a tanti miei coetanei che si arruolano in una delle tante armi di questo nostro fottutissimo esercito. La parola ribellione in questi contesti assume sfumature o connotazioni qualitativamente diverse. Non possiamo certo ignorare ciò quando, ad esempio, rifiutiamo il nostro mandato di carcerieri negli ospedali psichiatrici o nei servizi di diagnosi e cura, e ci troviamo "tra i piedi" le persone che noi abbiamo inteso "liberare" che ci chiedono di essere "legati", "contenuti", "addormentati" dai farmaci.
Ribellarci, entrare in crisi e mettere in crisi, per noi, può essere una esperienza eccitante di purificazione, sicuramente un'esperienza acuta di identità, di senso e di significato: ma per coloro che noi spingiamo alla ribellione, essa può diventare l'immagine bloccata, ripetuta all'infinito, di un fallimento, di una sconfitta: dobbiamo renderci conto che esistono esseri umani per i quali la riapertura della ferita è un fatto incomprensibilmente violento, una violenza senza scopo. Proprio per questo non basta solo condividere con altri il loro disagio e la loro volontà di ritornare a vivere: noi dobbiamo "rischiare", dobbiamo condividerne il destino, dobbiamo poterci liberare con loro, dobbiamo trasformarci per trasformare per trasformarci: dobbiamo saper/poter passare dalla loro parte, diventare "uno di loro". Le nostre scelte devono essere socializzate, confrontate, dialettizzate con chi queste scelte dovrebbe subirle: insieme si deve elaborare un progetto di intervento, una piattaforma di proposte, di tensioni, di risoluzioni che ci coinvolgano entrambi.
Solo così, a mio avviso, si può tentare di spezzare il binomio, altrimenti inscindibile, potere/sapere: socializzando potere e sapere e gestendolo insieme.
Il rifiuto del nostro mandato ha cosi un senso "rivoluzionario" preciso solo quando è concertato col desiderio e la lotta delle nostre vittime di diventare "persone", "individui", "esseri umani". Si deve praticizzare, insomma, la massima secondo cui nessun uomo può essere veramente libero quando in una qualsiasi altra parte di questo pianeta ci siano uomini in catene. La liberazione deve coinvolgere sia l'AS che il suo assistito: entrambi devono liberarsi dal rapporto sociale di potere imposto ad entrambi.
L'AS deve liberarsi dalla sua educazione e formazione, deve imparare a trattare da esseri umani gli uomini con cui ha a che fare, deve superare "neutralità" impossibili, deve liberarsi dalla tecnica che lo rinchiude nella solitudine violenta della sua professionalità: deve poter rientrare nelle cose che fa, deve potersi esprimere senza dover, per forza, ostentare e praticare sicurezza, autorità, potere. L'assistito, la sua sofferenza devono, cioè, liberare l'AS. Se egli (AS) assume la posizione di chi ha da essere liberato e non del liberatore, se si rende conto di avere lui bisogno dell'assistito, più di quanto quest'ultimo abbia bisogno dell'AS, allora, forse, avremo nella pratica superato il privilegio della ribellione e potremo parlare di una ribellione collettiva. È questa tensione che ci distingue, come libertari, dai "rivoluzionaristi" di ogni epoca e luogo: noi non crediamo nelle "avanguardie", nei "partiti guida", non crediamo che qualcuno possa pensare o cambiare al nostro "posto".
Ma cos'è che impedisce all'AS di liberarsi? Di ascoltare le richieste dei suoi assistiti? Di comprendere le profonde implicazioni politiche e repressive della sua azione?
L'assistente sociale è un individuo "accecato", non solo dalla ideologia sociale, ma anche dalla propria ideologia/formazione professionale: il suo compito precipuo è quello di accecarsi e di accecare, quello di coprire ogni tentativo di rivolta umana, di deviazione della norma, di farsi, con ciò, scienza certa, religione assoluta. L'AS deve chiudere le crisi: egli deve, cioè, agire sugli effetti "distruttivi" individuali delle crisi (e quindi violenze) sociali. Un processo del genere, ripetuto e ideologizzato, fa sì che, nell'uso comune e politico, si confonda "l'effetto" con la "causa". Si lotta così a spada tratta contro/su/per gli individui per recuperarli/ punirli/sottometterli/rieducarli/riconvertirli/ricoverarli ecc. e si lascia in piedi (e anzi lo si conferma/riproduce) il sistema (e, cioè, la scenografia, la prospettiva, l'orizzonte in cui ogni sofferenza diventa disperazione). È come ricucire quello che rimane di un soldato, saltato in aria con una mina, per rimandarlo al fronte.

Delegittimiamo la delega
A questo punto l'interrogativo si fa pressante: cosa può fare l'AS? È possibile, utile o inutile che "diserti"? E per chi o cosa?
Dire "rifiuto della delega" e "diserzione" è dire/fare due scelte diverse: nella prima si mette in crisi e si "sta", si "resta" nella crisi; nella seconda ci si ritira dai luoghi e tempi in cui la crisi si forma e la si riapre ad altri livelli, luoghi e tempi, ci si rifiuta di partecipare ad un massacro. Le scelte, poi, non sono così nette, né si escludono a vicenda: esse, infatti, si richiamano a vicenda, si completano l'un l'altra.
Il rifiuto della delega non può fermarsi alla ricerca di un migliore utilizzo di essa (come se fosse possibile esercitare il potere in un modo "migliore" o più "umano"), ma deve essere una pratica quotidiana in cui delega e mandato sociale perdano legittimità e autorità, in cui all'ordine non venga ubbidito. Ecco che per noi libertari rifiuto della delega e diserzione vuol dire cambiare non solo "chi comanda" ma il fatto stesso del "comandare".
L'AS in questo senso può essere un agente di cambiamento, un soggetto di esso: egli può coinvolgersi o essere coinvolto in una trasformazione radicale dell'organizzazione sociale in cui non sia necessario fare un buon uso della delega perché non sarà necessaria la delega.
Ma si obietterà che l'AS, come chiunque, può farsi promotore di un cambiamento sostanziale a patto che rifiuti e metta in discussione il suo posto e la società in cui ha trovato un "posto": questo è vero. Ma è altrettanto vero che l'AS si trova a vivere un'esperienza particolare, direttamente e praticamente coinvolto nei processi di trasformazione, preso nella morsa di un dualismo che è insieme il suo limite e le sue possibilità: egli è appunto servo di due padroni.
Abbiamo avuto modo di definire quali sono i limiti "oggettivi" e "politici" di questa professione, proviamo a tracciare le possibilità e i significati alternativi.
Il servizio sociale è innanzitutto una professione d'aiuto che aiuta altri ad aiutarsi da sé. Questa affermazione usata, ed abusata, in tutte le scuole professionali, ha una profonda valenza "politica". Essa afferma: compito dell'AS è quello di aiutare le persone a fare a meno di lui: aiutare altri ad autogestirsi da sé. Parole come "autodeterminazione" o "libertà di scelta" sono usate, ed abusate, per quanto riguarda la formazione di tutto il personale dell'assistenza/repressione sociale e sanitaria, ma nel caso dell'AS assumono una valenza, preponderanza, decisione del tutto nuova. Il fatto di trovarsi a contatto diretto con le crisi sociali, là dove si formano, a contatto con tutta la loro forza eversiva, distruttrice, disorganizzata, spontanea, umana, fa sì che l'AS, quando non si irrigidisca nel suo ruolo/funzione di potere, sia coinvolto/travolto da/in una politica della sofferenza che è politica della trasformazione: egli si trova continuamente "proiettato" nei territori dell'antinorma nel tentativo di chiarire, comprendere, aiutare.
Ma ridefinire le esperienze "deviate" vuol dire innanzitutto ridefinire le esperienze "normali": l'AS comprende l'altro nella misura in cui mette in crisi se stesso e, con il suo ruolo, l'intera organizzazione logico-razionale-politico-sociale in cui ha trovato un "posto". L'AS deve smettere di essere il simbolo e il garante dell'ordine e, allo stesso modo, abbandonare il tentativo di essere simbolo e garante del disordine: l'utopia e la pratica che lo muove è quella dell'aiuto (e, cioè, di una realtà umana ed esistenziale che si valida da sé). Gente da aiutare sta da una parte e dall'altra della norma, ma anche da una parte all'altra del potere. Per quanto possa sembrare paradossale, penso sia necessario cominciare a pensare e ad agire per aiutare i potenti a liberarsi dal "potere", almeno con lo stesso impegno e la stessa foga che mettiamo nel tentare di liberare gli oppressi e gli esclusi dal potere: cambiare i rapporti fra gli uomini comporta che riusciamo ad offrire agli individui la possibilità di poter vivere senza esercitare o subire il potere come un fatto inevitabile (sul tipo o domini o sei dominato, o vinci o sei vinto ecc.). I miti violentano sia coloro che non possono/non riescono ad adeguarsi, sia chi si adegua. Penso che a lungo andare sarà estremamente difficile, se non impossibile, definire chi è la vittima e chi è il carnefice. Questo senza voler assolvere (ma anche senza voler condannare) nessuno. L'AS, ma anche ognuno di noi, non può ergersi come tribunale del popolo o di dio: la complessità dei rapporti umani è tale da rendere impraticabile ogni idea di giustizia bene/male, lecito/illecito, giusto/ingiusto; così è altrettanto sterile parlare in termini di responsabilità individuale o puramente "collettiva".
Quella che abbiamo di fronte quando operiamo è una catena di violenza, più o meno ovvia, in cui noi dovremmo assumere il ruolo di anello di congiunzione, di trasmissione, un'ennesima violenza su chi soffre. Noi possiamo certo scegliere di chiudere gli occhi e di pensare di essere dei tecnici che applicano teorie oggettive, ma possiamo anche e meglio, decidere di "spezzare" la catena non ubbidendo, non agendo così come "ci si aspetta da noi", scardinando la pratica e il sistema di legittimazione sociale, togliendo inevitabilità, doverosità, eternità al potere ed alla sua violenza.

Dentro o fuori le istituzioni?
L'AS ha le sue porte/possibilità: egli può entrare nel gioco domanda e risposta dando voce alle voci mute degli esclusi degli emarginati in genere: abbandonando il suo ruolo, cancellando la sua "mediazione" egli può permettere che la "crisi" giunga al cuore del sistema, l'antinorma al cuore dell'antinorma, l'utopia del cuore della realtà; può far sì che gli individui si trovino uno di fronte all'altro senza la giustificazione/autorità di un potere (o di un non potere) costituito.
E allora: lavorare "dentro" o lavorare "fuori" lo stato, le istituzioni?
L'intestazione di questo saggio risponde a questa domanda in maniera dialettica anche se occorrono delle precisazioni. Io ritengo (e non solo come una sorta di autogiustificazione e/o di compromesso) che la nostra azione deve essere adeguata ai diversi livelli ed alla complessità del reale. Questo naturalmente non vuol dire appiattimento del realismo/immobilismo, né accettazione delle regole del gioco (l'unità mezzi/fini resta un punto fermo qualitativo che contraddistingue il movimento libertario nella sua azione), ma molto più semplicemente che occorra muoversi in più direzioni e con creatività, accettando, ove possibile e/o utile, di "sporcarsi le mani", visto che l'essere "fuori" ci è precluso (e forse non è neanche auspicabile). Personalmente non credo alle trasformazioni dall'interno del sistema, ma, alla stesso modo, non credo in una pratica che si stacchi dalle situazioni e dalle crisi nei modi e nei tempi e nei luoghi in cui si manifestano.
Allora occorre creatività, inventiva, "anarchia pura"; occorre lavorare "fuori-dentro", organizzare e preparare un'alternativa; occorre non assolutizzare nessuno dei due poli, né assumere come assoluta la loro incomunicabilità; occorre essere presenti da una parte e dall'altra: se vogliamo creare una società in cui non ci sia un dentro e un fuori occorre che già da ora noi agiamo affinché ciò che adesso si esclude a vicenda possa essere ricomposto in una nuova unità: poiché dentro o fuori che si sia il nostro unico scopo e fine sono gli esseri umani, la loro vita, la loro libertà, la loro possibilità di essere semplicemente uomini.
Mi rendo conto che a molti (e non a torto) possa sembrare che gli A.S. siano poco utili (se non addirittura "dannosi" e "pericolosi") nel movimento e nella pratica libertaria; così come sono conscio che probabilmente i libertari non hanno alcun bisogno di A.S.. Ma sicuramente, e senza ombra di dubbio, gli A.S. hanno bisogno dei libertari, hanno bisogno di liberarsi, di trasformare e di trasformarsi, di rendere pratica l'utopia di tutti: la libera convivenza, in un'umanità libera da qualsiasi frontiera (nazionale, internazionale, sociale, politica, religiosa, interpersonale, ecc.) e da qualsiasi potere.