Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 15 nr. 127
aprile 1985


Rivista Anarchica Online

Prima del giorno dopo
di Maria Teresa Romiti

In margine ad alcuni studi sulle guerre prossime venture

Al Progresso Militare
"Usi la tua mente
come macina per macinare
pula..."
(Marianne Moore)

Giorni che scorrono uguali. Nulla di nuovo. S'incontra la stessa gente negli stessi posti. Gente allegra oppure triste, soddisfatta o no che parla delle solite cose: la partita, il vestito della vetrina all'angolo, il film eccezionale che ho visto ieri, quel nuovo libro che devi assolutamente leggere, i soldi che non bastano mai... Gente che percorre ogni giorno le stesse strade, fa le stesse cose... tranquilla quotidianità. Parole, fatti comuni di gente qualunque che gira in questo mondo.
Lo stesso mondo che domani, oggi, ora potrebbe essere cancellato da un gigantesco colpo di spugna. Un lampo di luce accecante, una nuvola grigia, tutto finito, chiuso.
Siamo tutti così indifferenti da poter vivere senza preoccuparci di una simile minaccia? Indifferenza o paura? Incoscienza o angoscia? O tutte le cose messe assieme? Che mondo è il nostro? È proprio vero che la gente non si rende conto? O ci vuole coraggio, troppo coraggio per affrontare ad occhi aperti un'idea del genere? Un domani che potrebbe, fin troppo realisticamente, rivelarsi una parola senza senso, una distruzione totale, una morte quasi presente e nello stesso tempo inimmaginabile non possono che essere cancellati. Non è vero, non può essere vero. Rimosso, direbbero gli psicanalisti.
C'è da chiedersi come sia potuto succedere, come si sia potuti finire in questa spirale senza uscita. Quale sia stato l'oscuro meccanismo per cui si è potuto pensare che le armi (e soprattutto questo tipo di armi suicide) possano servire per mantenere la pace. Il segno di una cultura permeata di morte, non più in grado di pensare la vita? Una società troppo malata per riuscire a sopravvivere?
Di fronte e questo quadro anche il che fare sembra troppo altro, parola che appartiene all'ambito del razionale in un problema che pare partorito dall'incubo di menti malate.
Impossibilità mia, nostra a fare qualcosa. Tutto è già stato deciso e le forze sono troppo piccole per poter ottenere un minimo risultato. Condannati a morte senza speranza da un meccanismo che non riusciamo a controllare?
Provare a parlarne un poco, magari usando la logica, da un punto di vista scientifico, non perché questo sia il solo modo per affrontare il problema, ma perché a volte c'è bisogno di prendere le distanze per poter capire, soprattutto quando il coinvolgimento emotivo, troppo forte, rischia solo di paralizzare. E ora non possiamo permetterci il lusso di restare fermi.
War Day (di Strieber e Unetka, Mondadori, Milano 1984, lire 18.000) non è certo un libro difficile, né molto profondo, ma non è solo un gioco o un libro di fantascienza, è un "cosa succederebbe se..". Mettiamo il caso che un giorno qualsiasi, per una stupidaggine qualsiasi, scoppi una guerra tra URSS e USA, una guerra nucleare. Non l'olocausto che abbiamo accuratamente sepolto dentro di noi, non l'immane disastro, ma una guerrucola, poco più di una scaramuccia, una cosa da niente. Quali sarebbero le conseguenze?
Le bombe scoppiate sono poche, non fanno grossi danni, i morti sono meno di quelli della II guerra mondiale, ma le conseguenze sono apocalittiche. Russia e America scompaiono, le loro società vengono distrutte.
L'impulso elettromagnetico, uno degli effetti secondari delle esplosioni nucleari, cancella di colpo tutto ciò che di elettronico esiste. Niente più computer, macchinari elettronici, niente aerei, niente banche, niente soldi, ecc... In un attimo bisogna ricominciare a vivere come cinquant'anni fa. Intanto i raccolti vengono distrutti dal clima, dalla mancanza di cura e dalle radiazioni, quindi scoppiano carestie. I malati cominciano ad essere un problema, i medici sono diminuiti e le attrezzature non ci sono più. Risultato: tutti i casi considerati incurabili o con poche speranze di vita vengono abbandonati. Scoppiano per la debolezza, la fame, le condizioni igienico-sanitarie pandemie (epidemie mondiali) tremende, l'influenza diventa una malattia mortale. E tutto questo in una guerra neppure mondiale.
Ma è solo un racconto per quanto ben scritto oppure c'è un fondo di realtà in queste immagini catastrofiche? È possibile sopravvivere ad una guerra nucleare?
l problema è sufficientemente complesso per destare discussioni tra gli scienziati. Prima di tutto bisogna vedere cosa si intende per sopravvivenza. Se ci basta pensare che qualche singolo essere umano o piccoli gruppi possono sopravvivere, allora forse il disastro dovrebbe essere ben grosso per cancellare completamente il genere umano dalla faccia della terra (siamo una specie molto adattabile), anche se non è possibile escluderlo. Ma se consideriamo la società come la conosciamo o comunque una società complessa, allora basta molto meno, bastano poche bombe, per dare un duro colpo al nostro mondo.
È vero, comunque, che cercare di prevedere le conseguenze dello scoppio di un ordigno nucleare non è facile. La bomba nucleare emette diverse forme di energia: onda d'urto e venti, calore, radiazioni, i cui effetti variano a seconda della distanza dal punto dell'esplosione, dalle condizioni climatiche della zona, dallo stato degli edifici ecc., e nello stesso tempo si sommano tra loro.
Un tentativo in tal senso lo fa Kosta Tsipis, specialista delle alte energie al M.I.T. (Massachusetts Institute of Technology) con il suo intervento pubblicato nel libro Tre minuti a mezzanotte. Basandosi su pubblicazioni americane, dà il possibile quadro dell'esplosione di una bomba da un megaton sulla città di Detroit (da notare che la bomba di Hiroshima era di 20 kiloton, cioè 1/50 di megaton). Secondo Tsipis i morti sarebbero (nel migliore dei casi) 220.000 e i feriti 430.000, su una popolazione di circa un milione di abitanti. Bisogna però considerare che le possibilità di sopravvivenza dei feriti risulterebbero molto scarse, tenendo presente la mancanza di medici, gli ospedali distrutti dall'esplosione, la difficoltà di far giungere i soccorritori. Inoltre resta da quantificare il fall out a breve termine, che ricadrebbe nelle seguenti settimane in una striscia lunga oltre 300 chilometri.
Se le conseguenze di una sola esplosione sono difficili da determinare, gli effetti di una guerra sono ancora più imponderabili. In questo caso entrano in campo fattori complessi, interagiscono tra di loro diversi effetti. I fattori principali per poter stabilire la possibilità di sopravvivenza sono due e ambedue sono di difficile quantificazione. Il primo è il fattore psicologico; un evento così catastrofico produce di certo un grosso shock sui sopravvissuti, ma è molto difficile capire quanto sarà grande questo fattore e soprattutto quanto interferirà sulla capacità di sopravvivenza. Freeman Dyson, noto fisico americano, nel suo libro Armi e Speranze (Boringhieri, Torino 1984, pagg. 345, lire 25.000) considera, speranzoso, che anche le previsioni sul fattore psicologico nella II guerra mondiale risultarono errate, ma la sua rimane più una speranza che un dato. Il secondo fattore è il cosiddetto "inverno nucleare", cioè la diminuzione di luce e calore provocata dalla nuvola nera di polvere che si forma in seguito all'esplosione nucleare. In una guerra le nuvole di più esplosioni si sommeranno tra di loro provocando problemi in tutto l'emisfero settentrionale e probabilmente anche in quello meridionale.
Nel libro Tre minuti a mezzanotte (di AA.VV., Editori Riuniti, Roma 1984, pagg. 311, lire 18.000) è riportata la ricerca di un gruppo di scienziati americani che hanno simulato al calcolatore diversi scenari di guerra nucleare, per vedere le conseguenze sui fattori climatici e biologici. I risultati sono sorprendenti, nonostante la varietà degli scenari considerati (da 100 e 10.000 Megaton di potenza) non c'è molta differenza sugli esiti: per almeno tre mesi la terra rimarrebbe con poca o nessuna luce e la temperatura scenderebbe sotto lo zero anche se fossimo in piena estate. Questo vorrebbe dire che la vegetazione, almeno per quel che riguarda l'emisfero settentrionale, sarebbe gravemente compromessa insieme all'equilibrio ecologico di molte zone. Sarebbero completamente distrutte tutte le piante a riproduzione annuale (la maggior parte dei raccolti, quindi), verrebbero danneggiate gravemente anche le più resistenti tra le piante sempreverdi. I fenomeni si intensificherebbero l'uno con l'altro producendo una sequela di carestie, epidemie (dovute a fame, debolezza ecc.). Anche se si può considerare, come fa notare Dyson, la climatologia come distante da una scienza esatta (in effetti le sue previsioni sono poco attendibili anche nel breve termine), non è certo la prima volta che la terra conosce fenomeni del genere dovuti a disastri naturali, ma con effetti simili.
Nel 1816 gli Stati Uniti e l'Europa furono colpiti da un anno particolarmente disastroso. Sulla costa orientale degli USA caddero 20-30 centimetri di neve in pieno giugno, a luglio lastre di ghiaccio ricoprivano le coste e in agosto il ghiaccio, spesso 2-3 centimetri regnava ancora incontrastato. In Inghilterra lo ricordarono come "l'anno senza estate". I raccolti furono distrutti e la carestia imperversò. Solo nelle Isole Britanniche morirono più di 65.000 persone a causa di un'epidemia di tifo dovuta alla carestia. Il responsabile di simili disastri era un vulcano delle isole Orientali Olandesi, il Monte Tambora che aveva avuto una delle più grosse esplosioni degli ultimi 10.000 anni. La polvere lanciata nell'atmosfera aveva diminuito la luce, con tutte le conseguenze del caso. Una guerra nucleare sarebbe molto peggio per il clima.
Ma oggi qual è la situazione degli armamenti nucleari? Su cosa si basano le proliferazioni di armi sparse per il mondo? Cercare di capire le teorie delle armi atomiche è cercare di entrare in un labirinto senza senso.
La più importante delle teorie strategiche, quella su cui gli americani fondano la loro difesa è la teoria della distruzione assicurata o deterrente. I due contendenti non inizierebbero una guerra nucleare poiché sarebbe sempre possibile, di fronte ad un attacco, rispondere distruggendo completamente l'avversario. La teoria ovviamente non tiene conto della possibilità di non avere più nessuno che possa schiacciare il bottone o comunque che le comunicazioni non siano più in grado di funzionare.
I russi invece si basano di più sulla teoria della cosiddetta "controforza". Al primo allarme i missili dovrebbero essere in grado di partire immediatamente per colpire i missili dell'avversario prima che si possano alzare e distruggerli alla base. La teoria ha il piccolo difetto di non tenere conto che colpire una base missilistica è come cercare di colpire un ago nel pagliaio.
Le teorie difensive delle due superpotenze invece assomigliano proprio ai videogiochi più in. Armati dei propri missili i difensori devono evitare che nugoli di missili dell'attaccante riescano a perforare le difese e colpire gli obiettivi. Sapete tutti come finiscono i videogiochi.
L'altro tipo di difesa è quello cosiddetto passivo che consisterebbe nel cercare di salvare il maggior numero possibile di esseri umani evacuando le città e costruendo rifugi atomici. Ovviamente bisogna vivere per mesi in questi rifugi con adeguate scorte di cibo, acqua e via dicendo e con i mezzi per ricostruire qualcosa una volta che si possa riuscire all'aria aperta.
Ma tutte queste teorie non sembrano rendere sufficientemente sicuri i due continenti che vorrebbero applicarle tutte insieme, in più per gli americani evitando anche l'invasione dell'Europa. La difesa europea prevederebbe la possibilità di attaccare con piccole bombe, sempre nucleari, gli eserciti russi. Ovvero il rimedio peggiore del male, perché cercare di colpire i carri armati ben protetti e sparsi dell'esercito russo non è certo facile, in compenso è molto più facile, vista la densità della popolazione europea, colpire qualche città e fare in un attimo milioni di morti.
E il domani cosa ci può riservare? La trovata americana sarebbero le "guerre stellari": la possibilità di un sistema di difesa spaziale laser, fasci di particelle pronte a neutralizzare i missili nemici. È la novità dell'anno, ne parlano tutti; sembra essere alla base di qualsiasi dibattito, se ne discute a Ginevra all'ultima riunione tra i due "grandi".
Il piccolo problema è che sono armi che non funzioneranno mai. Infatti oltre a difficoltà tecniche notevoli (precisione massima del fascio, ampiezza del disco riflettente, facilità di contromisure, basta una vernice riflettente per salvare il missile) c'è da considerare che un simile sistema è molto complesso e, quindi per questa stessa ragione, facile da mettere fuori uso. Perché discutere allora di quelle che Dyson con un termine felice chiama "follie tecniche". Follie che possono forse far luccicare gli occhi a militari che sognano ancora il film "Guerre stellari", ma che sono assolutamente inattuabili.
Ma parlare dei sogni come fossero realtà, discutere sulla limitazione di un progetto irrealizzabile, magari accordarsi anche sulla sua messa al bando, serve ad evitare di parlare degli arsenali tranquillamente sepolti che ormai stanno raggiungendo cifre iperboliche 5.000 - 10.000 megaton. Se può sembrare solo follia riflettiamo, come fa notare Frederick Manning, "che sono gli uomini a fare la guerra, non gli animali, né gli dei". Esistono uomini per i quali la guerra non è un orrore, per i quali i valori che pongono a fondamento del loro esistere possono giustificare anche la più atroce delle carneficine. Dyson cita l'ultima deposizione di Alfred Jodl, generale hitleriano "...Io credo e professo: il dovere verso il popolo e la patria sta al di sopra di qualsiasi altra cosa. L'adempimento di questo dovere ha rappresentato per me l'onore, l'imperativo supremo. Sono orgoglioso di averlo compiuto". E il triste è che questi pensieri non erano molto differenti da quelli di Robert Oppenheimer o di molti ufficiali inglesi. È da questa mentalità che nasce il pensiero che le armi possano essere il miglior modo di difendere la pace.
Il problema è che questo ragionamento rende il pericolo di una guerra sempre più vicino. Per quanto possa sembrare pazzia scatenare una guerra di queste condizioni, a volte gli uomini fanno pazzie. La situazione odierna è una situazione di stallo. Un blocco e, per quanto il blocco non sia una situazione negativa in sé, a lungo andare l'uomo tende a volerlo superare con qualsiasi mezzo. Durante la guerra delle Falkland Dyson rimase molto colpito dall'atmosfera 1939 che si viveva sull'isola, riuscì a capirne i motivi dopo aver sentito questa frase: "Beh, sarà un macello, e nessuno ci dirà grazie, ma è sempre meglio che starsene qui fermi senza far niente". Ma c'è una soluzione? Lasciamo perdere la strada ufficiale, fin troppo conosciuta: una serie di trattative lunghissime ed esasperanti per una manciata di missili in più o in meno. Come se potesse importare qualcosa di fronte ad un arsenale nucleare in grado di distruggere dieci volte l'avversario.
La soluzione io non l'ho. Non sono nemmeno così ottimista come Robert Jungk che nel libro L'onda pacifista (Garzanti, Milano 1984, pagg. 255, lire 18.000) mostra l'universo dei pacifisti con un occhio a volte troppo indulgente. Ed ora che ai media il fenomeno interessa meno, che i partiti non sentono più il bisogno di cavalcare la tigre, convinti di essere riusciti nel recupero e, almeno in Europa, preoccupati dal problema "verdi", sono rimasti quelli veramente convinti a continuare con i metodi utilizzati da sempre: le occupazioni simboliche (sono quasi tutti nonviolenti), le dimostrazioni davanti alle basi, i blocchi giornalieri. Sono un gruppo altamente variegato: ex hippy con ex militari, tecnici con operai, cattolici e protestanti con monaci buddisti, gruppi etnici minoritari con scienziati, giovani con vecchi, donne e uomini.
Hanno ideologie differenti, ma i loro scopi e i loro metodi sono simili. Non vogliono morire, non vogliono vedere i loro figli morire, hanno deciso che il tempo della rassegnazione è finito, che bisogna fare tutto ciò che si può. Sono solo la punta di un iceberg, dietro ogni partecipante attivo ci sono migliaia di altri che non se la sentono di andare fino in fondo, ma danno appoggio, sostegno, soldi. Una rete sotterranea che è la loro base migliore.
Ho conosciuto le donne di Greenham Common. Sono pragmatiche come io non riuscirei mai ad essere, probabilmente. Non si sono mosse per i massimi sistemi, ma solo perché non volevano vedere la loro campagna rovinata, i loro figli uccisi. Hanno pochi punti fermi: non-violenza (funziona meglio e poi i mezzi devono essere conseguenti al fine), azione diretta (hanno sperimentato quanto poco funzionano i sistemi ufficiali). Via via hanno scoperto l'importanza di prendere le decisioni insieme, hanno scoperto come la guerra sia solo una conseguenza del militarismo, come il militarismo sia una faccia di un potere più vasto. Hanno cominciato anche a sognare, i pazzi sogni di un mondo diverso dove donne e uomini si sentano e siano uguali, dove ci sia attenzione per l'ambiente come per gli esseri umani.
Forse sono l'esempio più valido di questo universo variegato, ma tutto questo mondo per quanto minoritario non va sottovalutato. Spiega a Jungk, Ellsberg, grande collaboratore del governo, prima di diventare convinto pacifista e di licenziarsi dopo aver fotocopiato e pubblicato documenti top-secret sulla guerra nucleare: "Avendo vissuto questa situazione dall'interno, so bene che i potenti sono completamente disarmati quando si trovano di fronte ad un vasto movimento di massa deciso a non ubbidire".
Non so se questa sia la sola strada possibile, praticabile. Probabilmente no, ma non vedo una soluzione nel disarmo unilaterale (quale stato sceglierebbe mai di accettarlo?) o in altre iniziative istituzionali. Mi spiace forse che il movimento resti bloccato sui temi della pace, arrivando solo raramente a considerare il militarismo come un tutto unico contro cui combattere. E so bene che tutte le volte che esce dal ristretto gruppo (minoranza nella minoranza) degli attivisti, dei partecipanti diviene facile preda di partiti, organizzazioni, dei media che lo stravolgono e lo riportano al punto di partenza. Certo che è sempre meglio che restare fermi a pontificare dall'alto delle proprie certezze. Si può rimanere nelle proprie torri d'avorio o forse ci si può sporcare le mani, insieme agli altri ovunque. Dopotutto un obiettivo principale e lontano può avere dei sottobiettivi coerenti con il primo e nello stesso tempo più semplici e raggiungibili, senza per questo perdere in forza e coesione.
Ma soprattutto forse è tempo che la parola agisca.