Rivista Anarchica Online
Prima del giorno
dopo
di Maria Teresa Romiti
In margine ad alcuni studi sulle guerre prossime venture
Al Progresso
Militare "Usi la tua
mente come macina per
macinare pula..." (Marianne
Moore)
Giorni che scorrono
uguali. Nulla di nuovo. S'incontra la stessa gente negli stessi
posti. Gente allegra oppure triste, soddisfatta o no che parla delle
solite cose: la partita, il vestito della vetrina all'angolo, il film
eccezionale che ho visto ieri, quel nuovo libro che devi
assolutamente leggere, i soldi che non bastano mai... Gente che
percorre ogni giorno le stesse strade, fa le stesse cose...
tranquilla quotidianità. Parole, fatti comuni di gente qualunque che
gira in questo mondo. Lo stesso mondo che
domani, oggi, ora potrebbe essere cancellato da un gigantesco colpo
di spugna. Un lampo di luce accecante, una nuvola grigia, tutto
finito, chiuso. Siamo tutti così
indifferenti da poter vivere senza preoccuparci di una simile
minaccia? Indifferenza o paura? Incoscienza o angoscia? O tutte le
cose messe assieme? Che mondo è il nostro? È proprio vero che la
gente non si rende conto? O ci vuole coraggio, troppo coraggio per
affrontare ad occhi aperti un'idea del genere? Un domani che
potrebbe, fin troppo realisticamente, rivelarsi una parola senza
senso, una distruzione totale, una morte quasi presente e nello
stesso tempo inimmaginabile non possono che essere cancellati. Non è
vero, non può essere vero. Rimosso, direbbero gli psicanalisti. C'è da chiedersi
come sia potuto succedere, come si sia potuti finire in questa
spirale senza uscita. Quale sia stato l'oscuro meccanismo per cui si
è potuto pensare che le armi (e soprattutto questo tipo di armi
suicide) possano servire per mantenere la pace. Il segno di una
cultura permeata di morte, non più in grado di pensare la vita? Una
società troppo malata per riuscire a sopravvivere? Di fronte e questo
quadro anche il che fare sembra troppo altro, parola che appartiene
all'ambito del razionale in un problema che pare partorito
dall'incubo di menti malate. Impossibilità mia,
nostra a fare qualcosa. Tutto è già stato deciso e le forze sono
troppo piccole per poter ottenere un minimo risultato. Condannati a
morte senza speranza da un meccanismo che non riusciamo a
controllare? Provare a parlarne
un poco, magari usando la logica, da un punto di vista scientifico,
non perché questo sia il solo modo per affrontare il problema, ma
perché a volte c'è bisogno di prendere le distanze per poter
capire, soprattutto quando il coinvolgimento emotivo, troppo forte,
rischia solo di paralizzare. E ora non possiamo permetterci il lusso
di restare fermi. War Day (di
Strieber e Unetka, Mondadori, Milano 1984, lire 18.000) non è certo
un libro difficile, né molto profondo, ma non è solo un gioco o un
libro di fantascienza, è un "cosa succederebbe se..".
Mettiamo il caso che un giorno qualsiasi, per una stupidaggine
qualsiasi, scoppi una guerra tra URSS e USA, una guerra nucleare. Non
l'olocausto che abbiamo accuratamente sepolto dentro di noi, non
l'immane disastro, ma una guerrucola, poco più di una scaramuccia,
una cosa da niente. Quali sarebbero le conseguenze? Le bombe scoppiate
sono poche, non fanno grossi danni, i morti sono meno di quelli della
II guerra mondiale, ma le conseguenze sono apocalittiche. Russia e
America scompaiono, le loro società vengono distrutte. L'impulso
elettromagnetico, uno degli effetti secondari delle esplosioni
nucleari, cancella di colpo tutto ciò che di elettronico esiste.
Niente più computer, macchinari elettronici, niente aerei, niente
banche, niente soldi, ecc... In un attimo bisogna ricominciare a
vivere come cinquant'anni fa. Intanto i raccolti vengono distrutti
dal clima, dalla mancanza di cura e dalle radiazioni, quindi
scoppiano carestie. I malati cominciano ad essere un problema, i
medici sono diminuiti e le attrezzature non ci sono più. Risultato:
tutti i casi considerati incurabili o con poche speranze di vita
vengono abbandonati. Scoppiano per la debolezza, la fame, le
condizioni igienico-sanitarie pandemie (epidemie mondiali) tremende,
l'influenza diventa una malattia mortale. E tutto questo in una
guerra neppure mondiale. Ma è solo un
racconto per quanto ben scritto oppure c'è un fondo di realtà in
queste immagini catastrofiche? È possibile sopravvivere ad una
guerra nucleare? l problema è
sufficientemente complesso per destare discussioni tra gli
scienziati. Prima di tutto bisogna vedere cosa si intende per
sopravvivenza. Se ci basta pensare che qualche singolo essere umano o
piccoli gruppi possono sopravvivere, allora forse il disastro
dovrebbe essere ben grosso per cancellare completamente il genere
umano dalla faccia della terra (siamo una specie molto adattabile),
anche se non è possibile escluderlo. Ma se consideriamo la società
come la conosciamo o comunque una società complessa, allora basta
molto meno, bastano poche bombe, per dare un duro colpo al nostro
mondo. È vero, comunque,
che cercare di prevedere le conseguenze dello scoppio di un ordigno
nucleare non è facile. La bomba nucleare emette diverse forme di
energia: onda d'urto e venti, calore, radiazioni, i cui effetti
variano a seconda della distanza dal punto dell'esplosione, dalle
condizioni climatiche della zona, dallo stato degli edifici ecc., e
nello stesso tempo si sommano tra loro. Un tentativo in tal
senso lo fa Kosta Tsipis, specialista delle alte energie al M.I.T.
(Massachusetts Institute of Technology) con il suo intervento
pubblicato nel libro Tre minuti a mezzanotte. Basandosi su
pubblicazioni americane, dà il possibile quadro dell'esplosione di
una bomba da un megaton sulla città di Detroit (da notare che la
bomba di Hiroshima era di 20 kiloton, cioè 1/50 di megaton). Secondo
Tsipis i morti sarebbero (nel migliore dei casi) 220.000 e i feriti
430.000, su una popolazione di circa un milione di abitanti. Bisogna
però considerare che le possibilità di sopravvivenza dei feriti
risulterebbero molto scarse, tenendo presente la mancanza di medici,
gli ospedali distrutti dall'esplosione, la difficoltà di far
giungere i soccorritori. Inoltre resta da quantificare il fall out a
breve termine, che ricadrebbe nelle seguenti settimane in una
striscia lunga oltre 300 chilometri. Se le conseguenze
di una sola esplosione sono difficili da determinare, gli effetti di
una guerra sono ancora più imponderabili. In questo caso entrano in
campo fattori complessi, interagiscono tra di loro diversi effetti. I
fattori principali per poter stabilire la possibilità di
sopravvivenza sono due e ambedue sono di difficile quantificazione.
Il primo è il fattore psicologico; un evento così catastrofico
produce di certo un grosso shock sui sopravvissuti, ma è molto
difficile capire quanto sarà grande questo fattore e soprattutto
quanto interferirà sulla capacità di sopravvivenza. Freeman Dyson,
noto fisico americano, nel suo libro Armi e Speranze
(Boringhieri, Torino 1984, pagg. 345, lire 25.000) considera,
speranzoso, che anche le previsioni sul fattore psicologico nella II
guerra mondiale risultarono errate, ma la sua rimane più una
speranza che un dato. Il secondo fattore è il cosiddetto "inverno
nucleare", cioè la diminuzione di luce e calore provocata dalla
nuvola nera di polvere che si forma in seguito all'esplosione
nucleare. In una guerra le nuvole di più esplosioni si sommeranno
tra di loro provocando problemi in tutto l'emisfero settentrionale e
probabilmente anche in quello meridionale. Nel libro Tre
minuti a mezzanotte (di AA.VV., Editori Riuniti, Roma 1984, pagg.
311, lire 18.000) è riportata la ricerca di un gruppo di scienziati
americani che hanno simulato al calcolatore diversi scenari di guerra
nucleare, per vedere le conseguenze sui fattori climatici e
biologici. I risultati sono sorprendenti, nonostante la varietà
degli scenari considerati (da 100 e 10.000 Megaton di potenza) non
c'è molta differenza sugli esiti: per almeno tre mesi la terra
rimarrebbe con poca o nessuna luce e la temperatura scenderebbe sotto
lo zero anche se fossimo in piena estate. Questo vorrebbe dire che la
vegetazione, almeno per quel che riguarda l'emisfero settentrionale,
sarebbe gravemente compromessa insieme all'equilibrio ecologico di
molte zone. Sarebbero completamente distrutte tutte le piante a
riproduzione annuale (la maggior parte dei raccolti, quindi),
verrebbero danneggiate gravemente anche le più resistenti tra le
piante sempreverdi. I fenomeni si intensificherebbero l'uno con
l'altro producendo una sequela di carestie, epidemie (dovute a fame,
debolezza ecc.). Anche se si può considerare, come fa notare Dyson,
la climatologia come distante da una scienza esatta (in effetti le
sue previsioni sono poco attendibili anche nel breve termine), non è
certo la prima volta che la terra conosce fenomeni del genere dovuti
a disastri naturali, ma con effetti simili. Nel 1816 gli Stati
Uniti e l'Europa furono colpiti da un anno particolarmente
disastroso. Sulla costa orientale degli USA caddero 20-30 centimetri
di neve in pieno giugno, a luglio lastre di ghiaccio ricoprivano le
coste e in agosto il ghiaccio, spesso 2-3 centimetri regnava ancora
incontrastato. In Inghilterra lo ricordarono come "l'anno senza
estate". I raccolti furono distrutti e la carestia imperversò.
Solo nelle Isole Britanniche morirono più di 65.000 persone a causa
di un'epidemia di tifo dovuta alla carestia. Il responsabile di
simili disastri era un vulcano delle isole Orientali Olandesi, il
Monte Tambora che aveva avuto una delle più grosse esplosioni degli
ultimi 10.000 anni. La polvere lanciata nell'atmosfera aveva
diminuito la luce, con tutte le conseguenze del caso. Una guerra
nucleare sarebbe molto peggio per il clima. Ma oggi qual è la
situazione degli armamenti nucleari? Su cosa si basano le
proliferazioni di armi sparse per il mondo? Cercare di capire le
teorie delle armi atomiche è cercare di entrare in un labirinto
senza senso. La più importante
delle teorie strategiche, quella su cui gli americani fondano la loro
difesa è la teoria della distruzione assicurata o deterrente. I due
contendenti non inizierebbero una guerra nucleare poiché sarebbe
sempre possibile, di fronte ad un attacco, rispondere distruggendo
completamente l'avversario. La teoria ovviamente non tiene conto
della possibilità di non avere più nessuno che possa schiacciare il
bottone o comunque che le comunicazioni non siano più in grado di
funzionare. I russi invece si
basano di più sulla teoria della cosiddetta "controforza".
Al primo allarme i missili dovrebbero essere in grado di partire
immediatamente per colpire i missili dell'avversario prima che si
possano alzare e distruggerli alla base. La teoria ha il piccolo
difetto di non tenere conto che colpire una base missilistica è come
cercare di colpire un ago nel pagliaio. Le teorie difensive
delle due superpotenze invece assomigliano proprio ai videogiochi più
in. Armati dei propri missili i difensori devono evitare che nugoli
di missili dell'attaccante riescano a perforare le difese e colpire
gli obiettivi. Sapete tutti come finiscono i videogiochi. L'altro tipo di
difesa è quello cosiddetto passivo che consisterebbe nel cercare di
salvare il maggior numero possibile di esseri umani evacuando le
città e costruendo rifugi atomici. Ovviamente bisogna vivere per
mesi in questi rifugi con adeguate scorte di cibo, acqua e via
dicendo e con i mezzi per ricostruire qualcosa una volta che si possa
riuscire all'aria aperta. Ma tutte queste
teorie non sembrano rendere sufficientemente sicuri i due continenti
che vorrebbero applicarle tutte insieme, in più per gli americani
evitando anche l'invasione dell'Europa. La difesa europea
prevederebbe la possibilità di attaccare con piccole bombe, sempre
nucleari, gli eserciti russi. Ovvero il rimedio peggiore del male,
perché cercare di colpire i carri armati ben protetti e sparsi
dell'esercito russo non è certo facile, in compenso è molto più
facile, vista la densità della popolazione europea, colpire qualche
città e fare in un attimo milioni di morti. E il domani cosa ci
può riservare? La trovata americana sarebbero le "guerre
stellari": la possibilità di un sistema di difesa spaziale
laser, fasci di particelle pronte a neutralizzare i missili nemici. È
la novità dell'anno, ne parlano tutti; sembra essere alla base di
qualsiasi dibattito, se ne discute a Ginevra all'ultima riunione tra
i due "grandi". Il piccolo problema
è che sono armi che non funzioneranno mai. Infatti oltre a
difficoltà tecniche notevoli (precisione massima del fascio,
ampiezza del disco riflettente, facilità di contromisure, basta una
vernice riflettente per salvare il missile) c'è da considerare che
un simile sistema è molto complesso e, quindi per questa stessa
ragione, facile da mettere fuori uso. Perché discutere allora di
quelle che Dyson con un termine felice chiama "follie tecniche".
Follie che possono forse far luccicare gli occhi a militari che
sognano ancora il film "Guerre stellari", ma che sono
assolutamente inattuabili. Ma parlare dei
sogni come fossero realtà, discutere sulla limitazione di un
progetto irrealizzabile, magari accordarsi anche sulla sua messa al
bando, serve ad evitare di parlare degli arsenali tranquillamente
sepolti che ormai stanno raggiungendo cifre iperboliche 5.000 -
10.000 megaton. Se può sembrare solo follia riflettiamo, come fa
notare Frederick Manning, "che sono gli uomini a fare la guerra,
non gli animali, né gli dei". Esistono uomini per i quali la
guerra non è un orrore, per i quali i valori che pongono a
fondamento del loro esistere possono giustificare anche la più
atroce delle carneficine. Dyson cita l'ultima deposizione di Alfred
Jodl, generale hitleriano "...Io credo e professo: il dovere
verso il popolo e la patria sta al di sopra di qualsiasi altra cosa.
L'adempimento di questo dovere ha rappresentato per me l'onore,
l'imperativo supremo. Sono orgoglioso di averlo compiuto". E il
triste è che questi pensieri non erano molto differenti da quelli di
Robert Oppenheimer o di molti ufficiali inglesi. È da questa
mentalità che nasce il pensiero che le armi possano essere il
miglior modo di difendere la pace. Il problema è che
questo ragionamento rende il pericolo di una guerra sempre più
vicino. Per quanto possa sembrare pazzia scatenare una guerra di
queste condizioni, a volte gli uomini fanno pazzie. La situazione
odierna è una situazione di stallo. Un blocco e, per quanto il
blocco non sia una situazione negativa in sé, a lungo andare l'uomo
tende a volerlo superare con qualsiasi mezzo. Durante la guerra delle
Falkland Dyson rimase molto colpito dall'atmosfera 1939 che si viveva
sull'isola, riuscì a capirne i motivi dopo aver sentito questa
frase: "Beh, sarà un macello, e nessuno ci dirà grazie, ma è
sempre meglio che starsene qui fermi senza far niente". Ma c'è
una soluzione? Lasciamo perdere la strada ufficiale, fin troppo
conosciuta: una serie di trattative lunghissime ed esasperanti per
una manciata di missili in più o in meno. Come se potesse importare
qualcosa di fronte ad un arsenale nucleare in grado di distruggere
dieci volte l'avversario. La soluzione io non
l'ho. Non sono nemmeno così ottimista come Robert Jungk che nel
libro L'onda pacifista (Garzanti, Milano 1984, pagg. 255, lire
18.000) mostra l'universo dei pacifisti con un occhio a volte troppo
indulgente. Ed ora che ai media il fenomeno interessa meno, che i
partiti non sentono più il bisogno di cavalcare la tigre, convinti
di essere riusciti nel recupero e, almeno in Europa, preoccupati dal
problema "verdi", sono rimasti quelli veramente convinti a
continuare con i metodi utilizzati da sempre: le occupazioni
simboliche (sono quasi tutti nonviolenti), le dimostrazioni davanti
alle basi, i blocchi giornalieri. Sono un gruppo altamente variegato:
ex hippy con ex militari, tecnici con operai, cattolici e protestanti
con monaci buddisti, gruppi etnici minoritari con scienziati, giovani
con vecchi, donne e uomini. Hanno ideologie
differenti, ma i loro scopi e i loro metodi sono simili. Non vogliono
morire, non vogliono vedere i loro figli morire, hanno deciso che il
tempo della rassegnazione è finito, che bisogna fare tutto ciò che
si può. Sono solo la punta di un iceberg, dietro ogni partecipante
attivo ci sono migliaia di altri che non se la sentono di andare fino
in fondo, ma danno appoggio, sostegno, soldi. Una rete sotterranea
che è la loro base migliore. Ho conosciuto le
donne di Greenham Common. Sono pragmatiche come io non riuscirei mai
ad essere, probabilmente. Non si sono mosse per i massimi sistemi, ma
solo perché non volevano vedere la loro campagna rovinata, i loro
figli uccisi. Hanno pochi punti fermi: non-violenza (funziona meglio
e poi i mezzi devono essere conseguenti al fine), azione diretta
(hanno sperimentato quanto poco funzionano i sistemi ufficiali). Via
via hanno scoperto l'importanza di prendere le decisioni insieme,
hanno scoperto come la guerra sia solo una conseguenza del
militarismo, come il militarismo sia una faccia di un potere più
vasto. Hanno cominciato anche a sognare, i pazzi sogni di un mondo
diverso dove donne e uomini si sentano e siano uguali, dove ci sia
attenzione per l'ambiente come per gli esseri umani. Forse sono
l'esempio più valido di questo universo variegato, ma tutto questo
mondo per quanto minoritario non va sottovalutato. Spiega a Jungk,
Ellsberg, grande collaboratore del governo, prima di diventare
convinto pacifista e di licenziarsi dopo aver fotocopiato e
pubblicato documenti top-secret sulla guerra nucleare: "Avendo
vissuto questa situazione dall'interno, so bene che i potenti sono
completamente disarmati quando si trovano di fronte ad un vasto
movimento di massa deciso a non ubbidire". Non so se questa
sia la sola strada possibile, praticabile. Probabilmente no, ma non
vedo una soluzione nel disarmo unilaterale (quale stato sceglierebbe
mai di accettarlo?) o in altre iniziative istituzionali. Mi spiace
forse che il movimento resti bloccato sui temi della pace, arrivando
solo raramente a considerare il militarismo come un tutto unico
contro cui combattere. E so bene che tutte le volte che esce dal
ristretto gruppo (minoranza nella minoranza) degli attivisti, dei
partecipanti diviene facile preda di partiti, organizzazioni, dei
media che lo stravolgono e lo riportano al punto di partenza. Certo
che è sempre meglio che restare fermi a pontificare dall'alto delle
proprie certezze. Si può rimanere nelle proprie torri d'avorio o
forse ci si può sporcare le mani, insieme agli altri ovunque.
Dopotutto un obiettivo principale e lontano può avere dei
sottobiettivi coerenti con il primo e nello stesso tempo più
semplici e raggiungibili, senza per questo perdere in forza e
coesione. Ma soprattutto
forse è tempo che la parola agisca.
|