Rivista Anarchica Online
L'immaginario
devastato
di Pino Bertelli
Il cinema ha dato
molta corda alla violenza della società sull'individuo e alle ferite
oscure o deformi di soggetti ghettizzati nella devianza o nella
mostruosità. L'istituzione mercantile del cinema ha diffuso ovunque
la credenza che tutto ciò che è "diverso" è anche il
"male". Follia, omosessualità, deformità, terrorismo,
ecc., sono i "demoni" distruttori della s/ragione
dominante: l'altra faccia dello specchio sociale. Si è confusa
l'Anarchia col Caos e adorato la Croce con il Nulla volgarizzati
nelle mitologie sul "buon governo" della teologia marxista.
E tutto sotto l'ala protettrice di un dio bastardo eretto e
perpetuato sulle forche papaline della soggezione allargata: "getta
via quel che non ferisce il buon senso" (1). Ricordiamolo.
Anarchia è assenza di potere. Fine dell'oppressione dell'uomo per
mezzo dell'uomo. "La stessa verità dell'uomo non è altro che
la rivelazione della sua propria natura e per far ciò bisogna che
egli si scopra da se stesso, che si liberi di tutto quello che gli è
estraneo, che si astragga all'estremo sbarazzandosi di ogni autorità,
riconquistando la sua innocenza" (2). Il Caos è la
rappresentazione della società dello spreco. Il disordine della
prassi e della burocrazia armata messo in leggi. La devastazione
dell'immaginario popolare si situa nei rituali mistici e negli stili
accademici del culto della menzogna. Gli ultimi non hanno memoria,
sono condannati a pregare (a pagare) in anticipo la loro sorte;
bastonati, incarcerati, fucilati, impazziti, i naufraghi della realtà
disperata si trovano ai bordi dell'immacolata concezione dello Stato
dove i più mansueti, i più pigri, i più vigliacchi mettono
volontariamente sul ceppo della democrazia apparente le loro teste.
"Quando ogni senso scompare, l'ultima possibilità di senso è
l'apocalisse, che è la possibilità di senso della catastrofe"
(3). I mostri quotidiani
che hanno popolato lo schermo dalla nascita del cinema hanno spesso
commemorato la violenza che la società tutta intera porta al
"diverso". I figli delle tenebre sono la parte marcia della
favola. Il passaggio obbligato, spettacolare, che mostra nel
"fenomeno" il punto critico: il bello è il totem
funzionale della pratica sociale. È il contenitore multiforme dei
miti che cristallizzano l'utopia collettiva. In principio David
W. Griffith con The avenging conscience (1914); Stellan Rye
con Lo studente di Praga (Der student von Prag, 1913);
Paul Wegener con Il Golem (Der Golem, 1920)
tramortiscono il gusto cronachistico dell'orrido e pongono il
demoniaco come fantasma latente nei sogni, nei desideri
dell'ordinario ammutolito. Qualche tempo dopo
Robert Wiene filma Il gabinetto del dottor Caligari (Das
Kabinett des Dr. Caligari, 1919) che traccia il cerimoniale, il
consueto momento di rottura del "diverso" e il richiamo
degli sguardi all'ordine costituito. Tutta la catenaria filmica di
vampiri, licantropi, figure della deformità, mostri sanguinari,
pazzi assassini, ecc., escono dal "caligarismo" e in fondo
quello che invocano è la soppressione del "brutto", la
messa a morte della "diversità" nella figurazione
simulata, splendente, della socialità. Film celebri ci
scorrono negli occhi; Dracula (1931) di Tod Browning, Il
dottor Jekyll (Dr.Jekyll and Mr. Hyde,
1932) di Rouben Mamoulian, Nosferatu il vampiro
(Nosferatu/eine Symphonie des Grauens, 1922) di Wilhelm
Murnau, Frankenstein (1931) di James Whale, King Kong
(1933) di Ernest B. Schoedsack e Merian C. Cooper, La bella
e la bestia (La belle et la bête,
1945) di Jean Cocteau, Il fantasma dell'Opera (The phantom
of the opera, 1925) di Rupert Julian, L'Uomo
che ride (The man who laughs, 1928) di Paul
Leni , Nôtre
Dame (The Hunchback of Nôtre
Dame, 1939) di William Dieterle... tutti evidenziano la ricchezza
interiore del "diverso", ma quello che ripercorrono è "il
cammino della morte in un mondo dove i valori universali sono sempre
disposti ad assicurare l'irresponsabilità e la tranquilla coscienza,
tanto che l'innocenza ricopre il misfatto e dove per di più si muore
anonimamente" (4). Insomma i "mostri" vengono
suicidati dalla "cultura ufficiale" perché deturpano i
sonni della facciata sociale. Il melodramma, il paternalismo,
l'effervescenza di una "sana morale" volta all'efficientismo,
al produttivismo, a un'estetica figurativa imperfetta sono i più
abusati mezzi pregiudiziali sull'emarginazione: la verità del
"diverso" è sovversiva! Per questo il "diverso"
è condannato a morte. All'interno di un
cinema di confezione alcuni autori sono riusciti a comunicare in
qualche modo l'umanità violentata dei "diversi". Tod
Browning, Wilhelm Murnau o James Whale ad es., hanno messo nelle loro
opere momenti di grande coraggio eversivo, delineato una forza
espressiva che si portava oltre il firmamento di celluloide dei
semidei di Hollywood. Nell'immediato il
Nosferatu di Murnau seduce per l' arditezza della struttura
cinematografica ; eccezionali inquadrature, notevole senso della
figurazione, sapienza di montaggio, sperimentazioni linguistiche
immesse nel testo filmico lasciano leggere Nosferatu su piani
diversi; al fondo dei contenuti vediamo che Murnau affonda nei
fianchi della comunità la tristezza e la morale del "diverso"
come anello disgregante della catenaria sociale: "oggetto di
terrore che implode all'interno dello schema pacificato, arreso"
(5). La paura della
paura giustifica tutto. Hitler, Mussolini o Stalin ne sono la tragica
testimonianza. Sullo schermo e fuori "la libertà è "una
forma di dominio": e precisamente quella in cui i mezzi imposti
soddisfano i bisogni dell'individuo col minimo di dispiacere e di
rinuncia" (6). Il primo raggio di sole su Brema uccide
Nosferatu, il principe delle tenebre, l'intolleranza del discorso
dominante ucciderà tutte le altre figure devianti che dell'ombra,
della notte, del buio della solitudine hanno fatto il proprio covo. Browning si muove
nei sogni "marci" dell'emarginazione. Lo fa con due film
magistrali: Lo sconosciuto (The unknown, 1927) e Freaks
(1932). In Lo sconosciuto Browning lavora con Lon Chaney (con
il quale aveva già fatto The unholy three (1925), e ne esce
fuori uno dei più rigorosi lavori sulla quotidianità emarginata.
Una storia d'amore "diversa" che smantella le aspettative
dell'ordinario e i narcisismi teologici dell'avanguardia. Braccato dalla
polizia Chaney si nasconde in un circo. Con la complicità di un
amico cela le braccia sotto delle fasce e vive lanciando coltelli coi
piedi. Chaney s'innamora di Joan Crawford, la cavallerizza che non
sopporta di essere toccata dalle mani di un uomo. Lei gli confida i
propri turbamenti, lui gli regala le carezze dei suoi occhi e la
propria vita. Il lanciatore di coltelli si fa tagliare le braccia e
dopo alcuni mesi torna al circo per chiedere alla Crawford di
sposarlo. La cavallerizza ha ormai superato i timori che la
allontanavano dagli uomini ed è divenuta la compagna dell'uomo più
forte del circo: "l'amore moltiplica i problemi. La libertà
furibonda s'impadronisce degli amanti più devoti l'uno all'altro
dello spazio al grembo dell'aria. La donna serba sempre nella sua
finestra la luce della stella, e nella sua mano la linea della vita
dell'amante..." (7). Browning e Chaney
si scagliano contro "l'immacolata concezione" della donna.
Lo sconosciuto mostra che ogni morale è provvisoria e la
banalità dell'ordinario è che si ama sempre qualcuno o qualcosa
compreso all'interno della propria mediocrità riflessa nello
specchio sociale. Sulla scena (e fuori) Chaney è l'eretico. Il
"diverso". Acrobati, cavallerizzi, prestigiatori, clown,
domatori di leoni sono la norma; il lanciatore di coltelli senza mani
è "lo sconosciuto" che incrina l'estetica giocosa del
cerimoniale. Infatti non è mai dentro i loro sogni artistici,
rappresenta invece l'ostilità e l'insolenza della figura che non
amoreggia con la propria "diversità" ma che dispone della
forza di rompere con lo spettacolo del fenomeno per superare la
soglia di messa a morte del consueto: il deforme, il patetico, il
"diverso" divengono in Chaney categorie/figure di riscatto
della condizione negativa. Chi ne Lo
sconosciuto ha scorto "orrore allo stato puro, con ampio
ricorso al sado-masochismo" (8) ha perduto i valori eversivi,
nichilisti di quest'opera radicale contro la "coscienza felice"
(Herbert Marcuse) borghese. Molto importante è
l'apporto di Chaney alla caratterizzazione dei personaggi che
interpreta. È nota la sua inclinazione a portare sullo schermo
storie di emarginati. Figlio di genitori
sordomuti, il padre barbiere, la madre inferma per quasi tutta la
sua vita, Chaney aveva presto conosciuto la miseria, la solitudine,
la difficoltà di comunicare all'interno della propria famiglia e con
gli altri. In modo forzato Chaney apprende il linguaggio gestuale e
dopo avere fatto di tutto nel mondo dello spettacolo, dietro le
quinte e sulla ribalta di teatri viaggianti, si trova nel cinema come
trovarobe al servizio del regista Allan Dwan. Dal 1913 al 1919
Chaney interpreta (e a volte dirige) molti corti e mediometraggi nei
quali veste spesso i panni dello scemo, del deforme, del "diverso";
in poco tempo delinea sullo schermo una galleria di personaggi
marcati, ripugnanti, abnormi e le sue interpretazioni squarciano
l'attoralità accademica/teatrale abusata dai "fantocci" di
Hollywood. Quando muore (1930) per un cancro alla gola, ha poco più
di quarant'anni: non lascerà eredi sulla tela bianca. Blizzard, l'uomo
senza gambe di The penalty (1920), Quasimodo il gobbo di Nôtre
Dame de Paris, il misantropo sfigurato de Il fantasma
dell'Opera, il lanciatore di coltelli senza mani di Lo
sconosciuto, disegnano i percorsi e i legami di Chaney con i
"diversi" della terra. Chaney entrava nei
personaggi che portava sullo schermo in modo diretto. Trasformava il
proprio corpo con trucchi complessi, sopportava patimenti incredibili
per giungere a figurare/comunicare l'intermondo dei disadattati, dei
fenomeni, delle vite scellerate che sopravvivono ai bordi del
sociale. Gli mutilano le braccia, le gambe, gli deformano il corpo,
gli sconvolgono la faccia; la frantumazione dell'uomo s'identifica
con la vivisezione dell'attore che riemerge poco a poco nella
presenza/testimonianza morale dei personaggi violentati nella propria
quotidianità.
Il più
maledetto tra i film maledetti
Interpretare i
conflitti conviviali dell'emarginazione è partire da rapporti di
fratellanza e di solidarietà con chi è stato "toccato"
(non importa se come e dove) dalla ferocità dell'esistenza. Freud ci
ricorda che "si ama ciò che possiede quella perfezione che
manca all'io per poterne fare l'ideale" (9). Si capisce bene
come la storia del pensiero conforme alla facciata sociale abbia
ghettizzato (e ghettizzi ancora con mezzi più squisiti) tutto ciò
che rappresenta il giudizio estetico/etico dell'umanità
amministrata sui canoni del bello, dell'efficiente, del produttivo.
Chi non può correre nel delirio generale è un giocattolo rotto.
Viene escluso dal gioco degli eccessi. Espulso dal mercato e dalla
logica del conforme. Sbattuto fuori dalla politica dell'ostentazione
audiovisuale sospetta: è il trionfo della merce che si demoltiplica
nello spettacolo seriale della vita corrente. Sullo schermo più
di ogni altro, è Tod Browning a descrivere il codice morale dei
"diversi". Lo fa con Freaks, un film eccezionale che
ancora oggi è sistematicamente censurato dal mercato
(cinematografico e televisivo). Le sue apparizioni in cinema per
"addetti ai lavori" o trasmissioni televisive della notte
sono di estrema rarità. I tratti essenziali
di Freaks: Cleopatra (Olga Baclanova) è la bella trapezista
che fa innamorare perdutamente di sé il nano Hans (Harry Earles).
Cleopatra vuole sposare il nano per poi ucciderlo e rapinarlo della
recente eredità. Architetta il piano insieme a Ercole (Henry
Victor), l'"uomo più forte del mondo". Frida (Daisy
Earles) l'ex-fidanzata di Hans (anch'essa nana) con i "freaks"
del circo scoprono il complotto di Cleopatra e Ercole; la notte che
precede le nozze fra la "bella e il mostro" i "freaks"
aggrediscono l'"uomo più forte del mondo" e puniscono la
trapezista... il film si chiude con l'esposizione dei "mostri"
al pubblico. Tra loro c'è Cleopatra con la faccia sfigurata e il
corpo di gallina. Hans e Frieda tornano al loro amore "speciale". Di Ercole non
sappiamo più nulla. La versione integrale, mai apparsa in pubblico,
"lo mostra nel finale, castrato, che con una voce in falsetto
canta nello stesso spettacolo in cui è mostrata la donna-gallina"
(10). Browning ricalca
appena il romanzo di Clarence A. "Tod" Robbins, "Spurs"
(1923) che la "MGM" gli aveva commissionato; si avvicina
invece alla quotidianità dei "mostri di natura", descrive
con piglio quasi documentario la loro vita privata, la loro esistenza
sofferta di "capricci del destino" e/o "fenomeni"
esposti all'impietosità degli sguardi dei "normali". Daisy e Violet
Hilton (le sorelle siamesi), Schlitze (Capocchia di spillo), Ehire e
Jennie Lee Snow (Capocchie di spillo), Jo-Frances O' Connor (la
Vivente Venere di Milo), Peter Robinson (lo Scheletro umano), Olga
Roderick (la Donna barbuta), Koo Koo (la Ragazza-uccello), Martha
Morris (la Donna senza braccia), Prince Radian (il Torso vivente),
Elizabeth Green (la Cicogna umana) interpretano loro stessi, ci fanno
entrare nel dentro della loro condizione esistenziale, e conoscere i
piccoli/grandi drammi di un'ordinarietà senza barriere: il confine
tra "mostruosità" e "normalità" si assottiglia
fino a scomparire nei segni comuni a tutta l'umanità. "Tra i film
"maledetti" Freaks è forse il più maledetto di tutti"
(Maurizio Del Vecchio); nei generi cinematografici è stato
catalogato come un capolavoro dell'horror e confuso così con
fantomatici vampiri, mostri di Londra, principi delle tenebre; niente
di più inesatto gli poteva succedere. Freaks è un saggio
antropologico della vita offesa. I pennivendoli della critica lo
derisero, boicottarono, stroncarono senza mezzi termini; le loro
ovazioni erano riservate alla magniloquenza di Cecil B. De Mille,
alle scemenze di Frank Capra, all'ambiguità narcisista/piccolo
borghese di Charlie S. Chaplin. Scrive John C.
Moffit: "Questo film non ha scusanti. Solo una mente corrotta
può averlo prodotto e ci vuole un gran stomaco per sopportarlo. Fu
fatto soltanto per far soldi e basta. Esattamente come si faceva il
liquore per far soldi. Gli interessi sui liquori resero possibili
determinate circostanze di tale degradazione in quel campo da
provocare il proibizionismo. In Freaks i film fanno un grande
passo verso la censura nazionale. Se la otterranno non avranno da
rimproverare altri che se stessi" (11). Su altre pieghe
dell'analisi si pone Jean Claude Romer: "Tod Browning ha saputo
rispettare la dignità della gente di spettacolo, degli oppressi e
dei deboli che la società ha respinto. Egli non ha mai messo in
ridicolo quel mondo che lui stesso aveva così ben conosciuto, e
tanto amato e, meglio di qualsiasi altro, ha saputo trovare uno
sguardo lucido, a sua volta impietoso ma sempre generoso, per
descriverci la vita dolorosa degli emarginati" (12). Freaks resta
un'opera dell'oltraggio. Declassifica ogni altra lettura che non sia
quella della solidarietà e dell'amore per gli "irregolari":
la "diversità" è l'arma del conforme e serve per impedire
al "deforme", al sottomesso, al battuto di non amare altro
Dio che l'apparenza.
Il "mostro"
e la bambina
James Whale si
avvicina al bordo dei "diversi" in modo intelligente. I
suoi film Frankenstein e La moglie di Frankenstein (The
bride of Frankenstein, 1935) sono trasfigurazioni del
reale ma giungono puntuali a sovvertire la banalità della trama e
l'atteggiamento orrorifico. Ii "mostro"
(Boris Karloff) creato dal dottor Frankenstein (Colin Clive) è
un'insieme di infantilismo e di violenza; epifenomeno della scienza
si trova fuori dalle categorie di ciò che è bene e di quello che è
male; paga con la morte la sua "diversità": il tragico del
proprio immaginario devastato. La "creatura" di
Frankenstein è condannata al rogo perché porta con sé le
turbolenze inquietanti della "diversità": il "mostro"
è l'elemento perturbatore della quotidianità sonnolenta della
società. E per questo viene ucciso. Indimenticabili le
sequenze dell'incontro tra il "mostro" e la bambina nel bosco,
sulla sponda di un lago immobile; "la fanciulla lo accoglie
senza timore, gli offre un fiore e lo invita a giocare con lei:
gettano in acqua dei fiori e stanno a guardarli galleggiare; la
creatura, che per la prima volta sorride, afferra la bambina e la
getta in acqua per vederla galleggiare..." (13); abbozza un
sorriso guardando i cerchi che increspano l'acqua (14); Whale non è
mai melodrammatico né artificioso, scopre i valori, la spontaneità,
la gioia della dimensione infantile che fa della "diversità"
un gioco. Dell'omicidio un atto d'amore. Ma il cinema è
sogno. Impronta del mercato sulla testa. Di/seducazione dello
sguardo. E Deleuze ci riporta a Goethe e a Mefistofele: "noi
diavoli o vampiri, siamo liberi per il primo atto, ma già schiavi
del secondo" (15). L'intera parte finale di Frankenstein
mostra l'inclinazione al supplizio delle masse; un eretico, un
"mostro" o un terrorista fa lo stesso; ciò che importa è
placare la propria sete di sangue sotto la maschera della giustizia o
della violenza permessa; la lapidazione del "cattivo" è un
avvicinamento a Dio e la sottomissione allo Stato. Il "mostro"
di Frankenstein muore bruciato in un mulino abbandonato ma come le
streghe di onorata carriera risorge qualche anno dopo in La
moglie di Frankenstein. È ancora Whale a
dirigere La moglie di Frankenstein, ed è forse la sua
opera maggiore. A una lettura superficiale il film si presenta come
il seguito del celeberrimo Frankenstein del '31. Avvicinandoci più
avvertitamente alla struttura filmica vediamo emergere momenti di
tensione, di drammaticità celati nel grottesco, velati nell'uso
sistematico dell'ironia rovesciata. Alcuni punti del
film pongono interrogativi inquietanti:
1. La resurrezione
del "mostro" dalle acque del mulino abbandonato.
L'uccisione dei genitori della bambina affogata nel primo film. La
morte accidentale di un'altra bambina in questo. 2. La presenza del
malefico dott. Pretorius; scienziato senza scrupoli che vuole dare
una "sposa" al "mostro", produrre una razza nuova. Con i
suoi esperimenti ha creato in modo artificiale degli omuncoli che
tiene in bottiglie. Frankenstein non vuole ripetere l'esperimento.
Pretorius lo ricatta col rapimento della moglie. 3. Il rapporto del
"mostro" col cieco che vive isolato in una capanna. Il
cieco gli insegna a mangiare, a fumare, a dire qualche parola... Un
cacciatore spara addosso al "mostro" che nella fuga dà
fuoco alla capanna del cieco. 4. Il "mostro",
ferito, si nasconde in un cimitero. Pretorius lo cattura e lo porta
nel suo laboratorio. 5. Pretorius e
Frankenstein danno vita al nuovo "essere". La "creatura"
respinge il "mostro" e scatena la sua furia. Il "mostro"
fa esplodere il laboratorio uccidendo Pretorius e la "promessa
sposa": mette fine alla sua esistenza di "diverso". Il barone
Frankenstein, perdonato dal "mostro", si allontanerà nella
notte con la moglie portando con sé il peso della propria colpa:
essersi sostituito a Dio ed avere creato l'altra faccia
dell'esistenza. Sul film aleggia un
moralismo a tratti perverso; Whale non fa mistero del suo amore per
il "mostro" e del rancore che porta alla scienza e alla
norma; sembra dire che solo un cieco può accogliere nella sua
solitudine la bruttezza o la deformità, tutti gli altri denunciano
la loro pochezza comunitaria rimanendo ancorati all'apparenza. Un po' troppo
partecipati, anche se volutamente grezzi, appaiono gli omicidi del
"mostro". L'intero film è pervaso da una specie
d'innocenza cattiva dove ognuno è specchio della propria coscienza o
della rinuncia dell'identità piegata alla sacralizzazione d'un
silenzio sfigurato, deforme, mostruoso dove si è allo stesso tempo
vittime e carnefici. L'antagonismo che
nasce tra il "mostro" e la "sposa" è un atto
d'amore mancato. Il rifiuto repellente di qualcuno o qualcosa che
trasfigura ciò che appare come riproduzione del codificato è il
segno di sottomissione alla circolarità del cerimoniale estetico,
alla scenografia del "normale" canonico. La funzione
eversiva del "cinismo sessuale". Whale la imprime nel
rifiuto della "sposa" di amare il "mostro".
Conferma qui che la "diversità" è una prigione: "la
cosa migliore è non essere nati, altrimenti, morire presto"
(16). Una certa misoginia
sparsa nei film di Whale, l'ambientazione di stampo teatrale
(abbastanza lontana dall'Espressionismo cinematografico tedesco),
l'illuminazione precisa dei volti e dei corpi, l'attoralità marcata,
piuttosto accentuata nei momenti di tensione psicologica sono gli
attrezzi espressivi correnti nel cinema dell'americano; la sua
grandezza non ebbe possibilità di evolversi, produrre film della
devianza; l'omosessualità di Whale andò a cozzare contro il
costume, l'estetica del controllo di Hollywood e dopo La moglie di
Frankenstein non gli fu dato modo di lavorare e negli anni
successivi tornò qualche volta al cinema per cose alimentari. Jimmy Whale venne
trovato morto nel fondo della sua piscina nel 1961. A volte ci si
uccide semplicemente per stanchezza di un mondo troppo imbecille,
indegno di essere vissuto. La via del suicidio
sembra essere l'unica soluzione alla "diversità" data
dalla macchina/cinema hollywoodiana all'interno dello schermo
catastrofico/avveniristico della mostruosità profetizzata dal "New
horror USA" (17). Qui le aspettative dell'ostentazione dell'osceno
mostruoso sono tutte confermate. A detronizzare il fantastico di
"Frankenstein" e dei suoi fratelli, le ombre minacciose
dell'Espressionismo tedesco degli anni '20, i miti devianti della
"Universal" (1939/1946), lo spettacolo della paura nella
produzione inglese dal 1951 al 1964 fino all'apogeo della
"mostruosità" come antagonismo sociale della "Hammer-Film"
(1968/1976) pensano gli autori rampanti del terrore spettacolare
americano; ad es., Tode Hoope (Poltergeist, 1982), George A.
Romero Zombi (Dawn of the dead!, 1978), Paul Schrader Il
bacio della pantera (Cat people, 1982), John
Carpenter La cosa (The thing, 1982). Qui si gioca con
il terrore degli effetti speciali per coprire gli eccessi del terrore
quotidiano.
Dalla pattumiera
della storia
Nel "New
horror USA" la mostruosità del fantasma, lo scarto immaginario, la
maschera che si offre alla ghigliottina del sociale; lo schermo
diviene la cornice della confessione, la scena oscena dove il lavoro
primario del linguaggio filmico è la cancellazione del "diverso",
bestia, cosa o sogno che rappresentano la metafora/perturbazione
della favola impermeabile del conforme. I demoni di Dostoevskij
circolano tra noi; il "diverso" assume su di sé
"l'immagine del rapace che irrompe tra gli animali da cortile e
risveglia in essi gli istinti sopiti. Irrompendo nella quotidianità"
(18). Prendere i propri incubi sul serio significa entrare nella
realtà dalla parte dell'apocalisse. Fra tanta
mediocrità orrorifica del cinema USA si colgono un paio di cose
interessanti, Un lupo mannaro americano a Londra
(An american werewolf in London, 1982) di
John Landis e The elephant man (1980) di David Linch. Landis, autore
ampiamente sopravvalutato per il film demenziale Animal house
(1978) e per la "soap-opera" rock The blues brothers
(1980) in Un lupo mannaro americano
a Londra riesce a raccontare con impressionante ironia e
lucido pessimismo la storia di un perdente. Cosi Landis:
"...l'intenzione era di trattare un soggetto soprannaturale, e
dunque un soggetto fondamentalmente assurdo, in un modo del tutto
normale... L'idea era, se un tuo carissimo amico dovesse telefonarti
e dirti, - "Ho un problema molto serio. Dobbiamo parlarne"
-, e tu andassi ad incontrarlo in un ristorante e lui ti sedesse di
fronte e dicesse, - "Senti, è una cosa seria. Ieri notte mi
sono tramutato in un lupo, ho ucciso sei persone dilaniando loro la
gola" -, cosa risponderesti?... Non lo prendiamo sul serio;
l'intenzione era di trattare il tema in modo normale, e questa è la
ragione per cui è diventato divertente - l'orrore è diretto, e
alquanto orrifico. Ma la risposta della gente a quel che vi accade è
di divertimento" (19). Il film si compone
di momenti di frizzante humour ad altri brani di "terrore"
elaborato (gli omicidi dell'uomo-lupo e il trucco della
trasformazione). Anche l'amore non riuscirà a vincere contro il
destino di "diverso" dell'uomo-lupo; sotto l'influsso del
plenilunio uccide poi torna uomo fra la gente ma nell'impossibilità
di tornare/essere "normale": "ora belva sanguinaria a
quattro zampe, ora povero corpo ignudo che batte i denti per il
freddo. Il risultato è un mito giovanilistico riproposto con
divertita tenerezza e limpido pessimismo" (20). I fucili dei
"corpi speciali" della polizia inglese riportano alla
realtà, massacrano il "mostro" e abbiamo la sensazione
netta che quella esecuzione è una prova generale, un rimando a
fucilazioni sommarie di altri "mostri clandestini" (magari
dell'Irlanda sovversiva). "La nostra
epoca devastatrice, che distrugge tutto, non risparmia neanche i bar"
(Luis Buñuel), come non può condannare la "diversità"
alla morte? La devastazione dell'immaginario collettivo è il terreno
lavorato della consuetudine: si uccide la "mostruosità del
vero" per tacere delle possibilità di cambiamento dello
scenario quotidiano. The elephant
man è la biografia di John Merrick, l'"uomo-elefante"
vissuto nella seconda metà dell'800; la sua vita disperata ci è
stata fatta conoscere attraverso le memorie del dott. Frederick
Treves pubblicate nel 1923. Linch riesce, senza
compiacimenti figurativi, a comunicare il dolore di Merrick; prima
come fenomeno da fiera, poi come caso clinico da studiare nelle
università (21). L'incontro del "mostro" con il dott.
Treves permette di entrare più dentro nel carattere di quest'uomo
storpio, semi-paralitico, con la faccia e buona parte del corpo
devastati da escrescenze tumorali; così scopriamo che sotto la
"mostruosità" di Merrick vive un uomo sensibile alla cultura,
alla conoscenza della vita, dell'amore con gli altri... nel pieno
delle sue facoltà mentali Merrick si dà la morte all'età di 27
anni. Aveva conosciuto i reali d'Inghilterra, attrici di teatro gli
dedicarono i loro lavori, l'aristocrazia vittoriana lo degnò della
sua pietà contenuta; Merrick era comunque un reietto, l'increscioso
"oggetto mostruoso" che incrinava la facciata conviviale. Il film è girato
in un ricco bianco e nero, a tratti anche troppo goduto. Lynch non
cade mai nel patetico né si lascia prendere la mano dall'estetica
del deforme e fabbrica il ritratto di una vita offesa, straordinaria. Al cinema (come
nella vita) il "diverso" è segnato da caratteri
eminentemente spettacolari. È difficile cogliere sulla tela la
violenza, la follia, la deformità di un dolore senza rimedio; sullo
schermo (come nella vita) l'apparenza è la maschera dove il
paternalismo istituzionale e il filantropismo cristiano muovono
facili lacrime e innaffiano "premi Oscar". L'assurdo,
l'orrido, il mostruoso sono imprigionati in vezzi estetizzanti,
folcloristici, banali che l'utenza mercantile dell'immagine utilizza
ampiamente come intrattenimento o didattica dell'eliminazione del
"diverso" sulla faccia del sociale. Cinema della
Diversità è ciò che turba, inquieta, rompe con le attese del reale
illusorio diffuse dallo schermo mercantile; sopprimere il "diverso"
è eliminare la trasgressione, l'esistenza di un pensiero tragico, il
proprio doppio osceno che infrange tutti gli specchi della
quotidianità per essere ucciso nella coscienza di tutti. E ogni morte è la
fine di una confessione o il diario eretico di una imposizione. I
corpi "diversi" colano putridi dalla pattumiera della
storia.
(1)
André Breton e Paul Eluard: L'immacolata concezione, Forum
1968, pag. 109. (2)
Max Stirner: Il falso principio della nostra educazione/Le leggi
della scuola, Anarchismo 1982, pag. 38. (3)
Sergio Quinzio: La croce e il nulla, Adelphi 1984, pag. 224. (4)
Alberto Boatto. Cerimoniale di messa a morte interrotta,
Cooperativa Scrittori 1977, pag. 36. (5)
Per la trattazione della "diversità" come sovversione
sociale vedi: Né Cinema né Capitale di Pino Bertelli, Tracce
1982. (6)
Herbert Marcuse: Psicanalisi e politica, Laterza 1968, pag.
13. (7)
André Breton e Paul Eluard: op. cit., pagg.93/94. (8)
Vedi: Il cinema/Grande storia illustrata, vol. I, De Agostini
1981, pag. 169. (9)
Sigmund Freud: Al di là del principio del piacere, Newton
Compton 1974, pag. 137. (10)
Vedi: Storia del cinema dell'orrore di Teo Mora, Vol. I,
Fanucci 1977, pag. 180. La copia del film che noi abbiamo visto era
notevolmente più corta (64 minuti) delle pellicole di normale
distribuzione (90 minuti). Le molte mutilazioni sono evidenti. Il
massacro di Freaks dovuto alla mente mercantile del bottegaio "MGM"
Irving Thalberg non riesce comunque ad intaccare l'insieme di un film
di grande bellezza morale. (11)
Ibidem: pag. 181. (12)
Ibidem: pag. 181. (13)
Ibidem: pag. 132. (14)
Il segmento dell'affogamento della bambina è stato tagliato dalla
produzione; l'effetto dei cerchi nell'acqua ha però fortificato
l'innocenza infantile del "mostro". (15)
Gilles Deleuze: L'immagine-movimento I, Ubulibri 1984, pag.
138. (16)
Friedrich Nietzsche: Verità e menzogna, Newton Compton,
pag.72. (17)
Vedi la monografia di "Cinema & Cinema": La cosa di
questo mondo/Il new horror USA, gennaio-marzo 1983. (18)
Sergio Givone: in Illustrazione Italiana, Dicembre 1984, n.
20. (19)
Vedi: Cinema & Cinema, gennaio-marzo 1983,
pag. 24, op. cit. (20)
Tullio Kezich: Il nuovissimo millefilm/Cinque anni al cinema
1971/1982, Mondadori 1983, pag. 228. (21)
Un film molto diverso da questo di Lynch, L'enigma di Kaspar
Hauser (Jerde für
sich und Gott gegen Allettrad, 1974) di Werner Herzog, si pone
anch'esso dalla parte del "diverso" e giunge a dire con più
forza di The elephant man che la violenza della norma è la
pelle abituale della realtà. Ne parleremo più diffusamente nella II
parte.
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