Rivista Anarchica Online
Io sottoscritto
Gianfranco Bertoli
di Gianfranco Bertoli
In una lucida
lettera al giudice Nunziata, Bertoli protesta per il blocco della
corrispondenza, rivendica la sua identità anarchica, ribadisce
la sua condanna degli attentati dinamitardi
Era ancora
fresco di stampa lo scorso numero della rivista, quando abbiamo
appreso che a partire dal 15 gennaio tutta la corrispondenza da e per
Gianfranco Bertoli, detenuto nel carcere di Porto Azzurro, viene
bloccata ed inviata sul tavolo del sostituto procuratore Claudio
Nunziata, responsabile - tra l'altro - delle indagini sulla strage
nella galleria ferroviaria Firenze-Bologna il 23 dicembre scorso.
Proprio sullo scorso numero della rivista abbiamo pubblicato, su
quella strage e più in generale sulla logica che sottende le
stragi che da oltre un quindicennio insanguinano l'Italia, un lucido
intervento dello stesso Bertoli. Il provvedimento
amministrativo disposto dal giudice Nunziata, pur limitato nel tempo
(dovrebbe durare 40 giorni), è assurdo, inaccettabile,
offensivo. In un comunicato pubblicato su Umanità
Nova abbiamo subito protestato invitando i compagni ed i
gruppi ad inviare telegrammi di protesta all'indirizzo del giudice
(Claudio Nunziata, Palazzo di Giustizia, 40100 Bologna). Qualsiasi
tentativo di collegamento, per quanto vago ed indiretto, del nostro
compagno (e collaboratore) all'infame strage dell'antivigilia di
Natale è inaccettabile. Non è superfluo sottolineare
che il provvedimento firmato dal giudice Nunziata è stato di
poco successivo alle note dichiarazioni del socialista Formica che,
all'indomani della strage nella galleria, definì Bertoli "uomo
dei servizi segreti" ed anello di congiunzione (in quanto unico
"stragista" arrestato) tra le numerose (e, per quanto
riguarda autori e mandanti, misteriose) stragi succedutesi in Italia
da piazza Fontana in poi. La difesa di
Bertoli, in vista di possibili azioni giudiziarie volte a tutelare la
sua identità ed a sconfessare ancora una volta le falsità
e le calunnie sul suo conto, è stata assunta dall'avv. Alfredo
Salerni, militante del gruppo "Malatesta" della Federazione
Anarchica Italiana. Ecco il testo
dell'istanza che, una settimana dopo l'inizio del blocco della sua
corrispondenza, Bertoli ha inviato a Nunziata. Al di là della
pur significativa questione oggetto dell'istanza, si tratta di un
documento di notevole contenuto umano, etico e politico.
Preg.mo Dott.
Claudio Nunziata Sost. Procuratore della Repubblica, Bologna
Sono Gianfranco
Bertoli, nato a Venezia il 30 aprile 1933, condannato all'ergastolo
per il tragico attentato di cui mi sono reso responsabile il 17
maggio 1973, lanciando una bomba davanti alla Questura di Milano in
occasione della commemorazione del commissario Luigi Calabresi. Non sono tanto
ingenuo da non rendermi conto di come, nei confronti di un individuo
del mio genere, un magistrato, seppur istituzionalmente tenuto
all'imparzialità, ben possa nutrire una istintiva ostilità.
Ritengo, anzi, possibile che sul piano emotivo Ella, come tanti
altri, sia stata fra coloro che, al tempo della tragica vicenda di
cui sono stato protagonista, si sono rammaricati che le leggi
italiane non prevedessero la pena di morte, ritenendo quella
dell'ergastolo troppo mite. Non è, però, per tentare di
accattivarmi la Sua simpatia che mi sono permesso di importunarla con
questa lettera. Questo anche perché credo che nessun
magistrato possa permettere a se stesso di cercare di andare troppo a
fondo nel comprendere l'animo umano e le intime motivazioni di tutte
le azioni penalmente perseguibili per l'ovvia ragione che, se facesse
questo, non gli sarebbe, forse, moralmente più possibile
condannare nessuno. Ciò su cui spero di poter contare è
nella di Lei equità e nella pura e semplice onestà
intellettuale, doti che, pur non conoscendola, credo le vadano
riconosciute. La mattina del 24
dicembre scorso, in seguito ad una disposizione che mi è stato
detto essere stata impartita da Lei, la cella da me occupata nel
penitenziario di Porto Azzurro è stata sottoposta ad una
perquisizione straordinaria. L'operazione in sé (condotta,
peraltro con molta correttezza da parte dei sottufficiali che se ne
sono occupati) non poteva particolarmente turbarmi. Mi trovo,
infatti, in carcere da circa dodici anni e a queste cose ho fatto
l'abitudine. Le confesso però di essere rimasto profondamente
scosso, psicologicamente amareggiato e profondamente ferito dal fatto
che questa perquisizione fosse stata decisa in relazione al grave
attentato perpetrato la sera prima con i viaggiatori del rapido
Napoli-Milano. L'aver preso questa
decisione nei miei riguardi, implica la postulazione di una ipotesi,
quella di una possibile connessione tra me e chi può aver
effettuato quella strage, che non mi pare sia logicamente sostenibile
e che recepisco come insultante. Un magistrato ha, come ogni altro
essere umano, il personale diritto di disprezzare o di odiare un
individuo a cagione di quello che costui può aver commesso, ma
non ha, credo (ed a maggior ragione perché le leggi gli
offrono la forza e i mezzi di poterlo fare) il diritto morale di
infliggere ingiustificate afflizioni aggiuntive, che si risolvono in
forme di persecuzione, ad un condannato che già sta espiando
la pena che le leggi in vigore stabiliscono per quello che lui ha
fatto. Chi sconta un ergastolo per gravi che siano state le sue
colpe, è pur sempre un uomo ed un uomo che soffre. E chi
soffre, ha il diritto ad un minimo di rispetto. Io mi sono reso
responsabile di una strage; è vero. Ma, Sig. procuratore,
anche se uniformati, sotto il profilo della sanzione giuridica che un
certo tipo di fatto-reato prevede, da una comune denominazione, non
tutti i delitti che vengono indicati con lo stesso nome sono la
stessa cosa. Non è un procedimento logicamente valido (ed,
anzi, è una forma di ragionamento che conduce a "fallacia
sofistico" quello di unificare "in assenza" cose ed
eventi che hanno tra loro solo un'unità "accidentale",
certi effetti e/o una contiguità storico-temporale). Io, quel
17 maggio 1973, ho lanciato una bomba a mano, non ho deposto una bomba
ad orologeria. Sono andato davanti ad una questura, in occasione di
una specifica circostanza, non ho fatto esplodere un ordigno in un
treno. Quel giorno sono state colpite anche persone che si trovavano
lì per caso, questo è vero. Ma è anche vero che
io avevo lanciato la bomba che avevo con me in direzione di un gruppo
di autorità civili e militari, ed è costoro che mi
proponevo di colpire. Ciò non cambia nulla sul piano della
responsabilità penale, né attenua molto la gravità
sul piano etico, dell'aver scelto la violenza come modalità
d'azione. Ma cambia molto rispetto ad una valutazione di quella che
può essere la mia personalità e di quale sia il mio
carattere, per rapporto a quella che può essere la "forma
mentis" di chi mette delle bombe nei treni. Sig. Procuratore,
non ho il culto dell'eroismo e le dirò anche che non sono un
individuo dotato dalla natura di un carattere particolarmente
coraggioso. Non sono, però, neppure vile e soprattutto ho
anch'io una mia etica e un mio codice morale. Questa mia particolare
etica e questo codice morale non ammettono che un uomo possa arrivare
a dare la morte senza contemporaneamente mettersi nella situazione di
poter restare ucciso anche lui e, comunque, senza la certezza di
pagare le conseguenze del suo atto. Dopo aver subito
quella perquisizione e superato il momento di abbattimento in cui ero
caduto per quella che è stata per me una grave umiliazione, mi
ero detto che ben poteva essersi trattato della interpretazione
estensiva di una disposizione da Lei impartita nell'immediatezza del
fatto e, pertanto, genericamente formulata. Il 14 c.m., però,
mi veniva comunicato che, sempre dietro un Suo provvedimento e in
relazione alle indagini sulla strage del treno, veniva disposto il
sequestro di tutta la mia corrispondenza in arrivo e partenza, che
doveva venire inviata alla Questura di Livorno e da lì al di
Lei ufficio per venire controllata. A prescindere dal piccolo
fastidio che ciò arreca inevitabilmente (a causa degli immensi
ritardi della ricezione della posta che simile procedura comporta) ad
un carcerato che ha come unico legame col mondo il tenue filo dei
rapporti epistolari (privo di famiglia, ho potuto godere in dodici
anni di soli tre colloqui), il fatto che le mie lettere possano
essere lette da terzi non mi crea alcuna preoccupazione perché
ne ho avuto l'abitudine per lunghi anni. Ma, vede Dott.
Nunziata, alle mie richieste di maggiori chiarimenti intorno alla
motivazione di tale provvedimento, mi è stato detto che si
trattava di una disposizione applicata a "tutti coloro che
avevano appartenuto ad organizzazioni eversive che praticassero una
strategia rivoluzionaria basata sulle stragi". In pratica,
quindi, un ben circoscritto ambito di elementi che appartengono ad
una precisa area. E, questa area mi pare non possa essere individuata
che in quella dell'estremismo politico di ispirazione neofascista e
neonazista. Con quella gente, Sig. Procuratore io ho tutto il diritto
a non venire confuso e quello di elevare la più sentita
protesta vedendomi accomunato a loro. E questo, sia sul piano
giuridico-formale dato che mai nella mia vita ho subito condanne né
incriminazioni per reati associativi, sia su quello di possibili
sospetti perché mai ho appartenuto a partiti o a gruppi, anche
legali, di estrema destra, mai ho intrattenuto rapporti epistolari
con elementi riconducibili a quell'area. Inoltre, persino quando
durante i lunghi anni che ho trascorso nelle "carceri speciali"
mi sono trovato in istituti dove vigeva una separazione tra detenuti
di diverse fazioni, mai sono stato collocato (e tanto meno ho chiesto
di esservi!) nelle sezioni che ospitavano detenuti di estrema destra.
Al contrario, ed in ragione del tipo di classificazione attribuitomi,
sono sempre stato assegnato nelle sezioni riservate ai detenuti della
sinistra. E ciò fino a quando, a causa dell'acuirsi di
divergenze ideologiche, che non credo sia qui il caso di dettagliare
ma che se Le interessasse conoscere potrà farlo agevolmente,
per averle io esposte pubblicamente sulle pagine di giornali in
libera vendita al pubblico, come "A-rivista anarchica" (n.
80, febbraio 1980 e n. 87 del novembre 1980) e il settimanale della
Federazione Anarchica Italiana, "Umanità Nova" (n.
38 del 30 novembre 1980 e n. 3 del 25 gennaio 1981), ho preferito
isolarmi anche da questo tipo di detenuti. È
vero che, al tempo dell'attentato di cui mi sono reso responsabile,
vi fu chi volle vedere in me un possibile fascista e che questa
versione venne a lungo sostenuta con tanto impegno e da tante parti
sino a diventare un luogo comune diffuso e consolidato. Ma si è
trattato di illazioni ipotetiche, mai corroborate da risultanze
oggettive e da dati di fatto. Al contrario, tutte, senza eccezione,
le presunte "rivelazioni" con cui si pretendeva di
puntellare quella tesi, caddero pietosamente, rivelandosi per quello
che erano: fantastiche elucubrazioni e calunnie (non interessa qui se
frutto di errore o di menzogna). Non ignoro neppure che, ancor oggi e
contro ogni evidenza, vi è chi rispolvera certe insinuazioni e
come questo sia stato fatto, recentissimamente, anche da un
autorevole uomo politico (che probabilmente non si è curato di
verificare l'attendibilità dei dati in suo possesso). Ma, Sig.
Procuratore, una cosa sono i discorsi e le "verità di
comodo" di chi fa il politico di professione e un'altra è
la verità "tout court", alla quale compete,
deontologicamente, di attenersi per un magistrato. Ora, Preg.mo Dott.
Nunziata, il tipo di argomentazione pseudo-logica con cui mi si è
definito "fascista" si regge sull'affermazione che io sarei
un "sedicente anarchico" e quest'ultima su quella che sarei
un "fascista". Ci troviamo,
quindi, di fronte ad una forma classica di dimostrazione sofistica
per "circolo vizioso", che appare, anche a chi sia del
tutto digiuno delle più elementari leggi logiche, del tutto
improponibile. L'etichetta di "sedicente anarchico" mi è
stata appioppata ormai tante volte che è entrata nella
consuetudine per molti giornalisti, al punto che nel linguaggio
massmediatico io sono stato identificato quasi come il "sedicente"
per antonomasia. Ma, a ben vedere,
chi può essere il più qualificato ad esprimere giudizi
intorno alla sincerità della mia adesione all'idea anarchica?
La risposta mi pare dovrebbe essere ovvia: gli altri anarchici! Bene,
come può venire allora conciliata la sicumera con cui taluni
persistono a negare la mia identità politica, col fatto che il
mio nome appaia sistematicamente da anni su tutte le pubblicazioni
del movimento anarchico, ogni volta che vi sono stati stampati
elenchi di compagni detenuti? Come si spiega che io abbia avuti
pubblicati miei scritti su diversi periodici del movimento anarchico
e vi abbia anche collaborato con lavori di traduzione? Come si spiega
che durante gli anni che ho trascorso, senza la possibilità di
lavorare, nelle "carceri speciali" io sia stato sostenuto e
aiutato con sottoscrizioni in mio favore, l'invio di libri e
giornali, quello di pacchi di indumenti, da parte di anarchici e di
gruppi anarchici, italiani e stranieri, se tutti costoro non
credessero nella mia onestà e sincerità? C'è stato, è
vero, il mio essermi reso responsabile di un grave episodio di
violenza ed è innegabile che i fascisti hanno una certa
vocazione per la violenza ed hanno spesso fatto ricorso all'uso di
esplosivi. Ma, come è noto sin dalla sillogistica
aristotelica, una proposizione particolare affermativa, come potrebbe
esserlo quella: "Vi sono dei fascisti che mettono bombe"
non ammette una conversione del soggetto e del predicato ed una
contemporanea trasformazione dei quantificatori (dal "particolare"
all'"universale") dalle quali inferire legittimamente la
conclusione: "tutti coloro che fanno uso di bombe sono
fascisti". E inoltre: io ho lanciato una bomba, i
fascisti hanno sempre messo delle bombe; non si tratta di una
sfumatura priva di importanza, la differenza è essenziale. A
proposito di dimostrazioni "dialleliche" (di presunte
dimostrazioni, cioè; dove la sola prova dell'"explicans"
viene ad essere l'"explicandum" stesso) K.R. Popper
propone, in funzione esemplificativa, il seguente dialogo: "perché
oggi il mare è agitato?" "perché Nettuno è
molto arrabbiato". "Ma quale prova puoi portare a sostegno
della tua asserzione, che Nettuno è molto arrabbiato?"
"Oh ma non vedi come è agitato il mare? E il mare non è
sempre agitato quando Nettuno è arrabbiato?". Ecco, Sig.
Procuratore, il tipo di inferenza deduttiva attraverso il quale si è
arrivati ad affibbiarmi l'epiteto (per me altamente infamante) di
"fascista" è dello stesso tipo di quello della
citazione popperiana che ho più sopra riportata. La struttura
logico-sintattica è la stessa, basta sostituire qualche
termine. Ora, Preg.mo Dott.
Nunziata, io sono stato e rimango un anarchico. Non sono mai stato,
né sono diventato un "fascista". Il mio gesto di
violenza è stato compiuto individualmente ed è stato
frutto di una decisione individuale. Non ho mai fatto parte di gruppi
armati di nessun colore. Che cosa rimane allora per potermi
ragionevolmente collegare con gli autori di una strage come quella
del 23 dicembre? In passato ho teorizzato ed ho praticato la rivolta
violenta, anche con l'uso di bombe. È
vero, ma è anche vero che ho da sempre condannato senza
ambiguità le particolari forme (e "a fortiori" le
presumibili motivazioni) di attentati come quelli di Piazza Fontana,
di Piazza della Loggia, del Treno Italicus, della stazione di Bologna
e quello, ultimissimo, del rapido 904. Ciò non è tutto,
sin dal 1979 (ben prima cioè che prendesse corpo il fenomeno
delle dissociazioni e delle relative autocritiche di molti militanti
della lotta armata) io ho pubblicamente dichiarato (cfr. il mio
scritto "atti individuali e terrorismo" in "A-Rivista
anarchica" n.74 del maggio 1979) di essere arrivato a ritenere
che il mio gesto era stato sbagliato e che, in generale, la pratica
degli attentati dinamitardi sia stata sempre eticamente deplorevole e
politicamente inefficace in una prospettiva di lotta per
l'emancipazione sociale. Si è trattato per me del risultato di
un riesame assai lungo e sofferto di quelle che erano state le mie
convinzioni passate e di cui avevo ritenuto doveroso rendere
partecipi coloro che considero compagni per affinità ideali. È
la prima volta, questa, che arrivo a fare un'ammissione del genere
rivolgendomi ad un magistrato, persona che per il suo ruolo, non è
abitualmente un interlocutore privilegiato per un anarchico. Quanto vengo a
chiederle, Sig. Procuratore, è di voler disporre la revoca del
provvedimento di censura della mia corrispondenza, non fosse che
anche un solo giorno prima della prefissata data di scadenza. Perché
il tipo di afflizione morale che ha costituito per me vedermi
sottoposto a quella misura in simili specifiche circostanze,
oltrepassa di gran lunga il livello della più rigida
concezione retributivo-punitiva della pena vista come vendetta. Io ho ucciso e
morirò in un carcere. Lo sapevo da prima e non me ne lamento.
Ma, Sig. Procuratore, nessuno ha umanamente il diritto di andare
oltre la pena che mi è stata comminata, a nessuno può
essere moralmente lecito perseguitare gratuitamente e torturare
l'animo di un uomo. La ringrazio per quello che il Suo buon senso e
la Sua onestà le suggeriranno di fare e la prego accettare
distinti saluti.
(Porto
Azzurro,22 gennaio 1985)
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