Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 14 nr. 118
aprile 1984


Rivista Anarchica Online

Psicoterapia e liberazione
di M. Marrone / A. Taschera / M. Valcarenghi

Gli interventi dello psicoterapeuta anarchico argentino Mario Marrone hanno suscitato interesse e dibattito. Dopo una precisazione dello stesso Marrone, pubblichiamo ora gli interventi critici di Aligi Taschera (militante radicale e psicoterapeuta comportamentista) e di Marina Valcarenghi (psicanalista junghiana).

E se dicessi «vincolo» invece di «dipendenza»

Dobbiamo definire la differenza tra l'arte della psicoterapia e la scienza della psicologia psicoanalitica. La parola «psicoanalisi» è stata usata in modo ambiguo. Freud, nella sua autobiografìa (1925), scrisse: Mentre originariamente è stato il nome di un metodo terapeutico ora si è trasformata in una scienza: la scienza dei processi mentali inconsci.
Questa distinzione è applicabile a qualunque ramo della medicina. Esiste l'arte di prescrivere medicine ed esiste una scienza farmacologica, ad esempio. E la stessa cosa vale per altri campi dell'attività professionale in cui è necessario che una pratica artistica o artigianale si fondi su una disciplina scientifìca, così come il giardinaggio si fonda sulla botanica. La storia dimostra però che questo processo di differenziazione è a volte doloroso e difficile. In psicoterapia esistono l'arte psicoterapeutica ed una scienza dei processi mentali, psicosomatici e interpersonali. La differenza tra le diverse teorie e modelli psicoterapeutici è dovuta al fatto che molti autori hanno creduto che il loro «stile artistico» potesse servire come base a una «teoria scientifica».
In un articolo che John Bowlby pubblicò nel 1979 sull'International Review of Psychoanalysis, intitolato «Psicoanalisi come arte e scienza», questo problema viene formulato molto chiaramente. Al fine di sviluppare una teoria scientifica è necessario applicare e integrare diverse indagini informative: non solo l'osservazione clinica nella situazione psicoterapeutica, ma anche lo studio diretto delle interazioni tra madre e figlio e tra tutti i menbri di una famiglia, in diverse culture, in diverse classi sociali, ecc. Sulla base di questa metodologia, con le conoscenze apportate da ricercatori (psicologi, sociologi, antropologi) che non lavorano nella clinica, sarebbe possibile unificare e integrare questa disciplina così complessa.
Gli studi scientifici attuali stanno evidenziando che la necessità primaria dell'essere umano è quella di allacciare vincoli stabili, discriminanti e duraturi, e da questo punto di vista il compito terapeutico ha due obiettivi fondamentali: a) offrire all'analizzando una possibilità di «dipendenza» dall'analista per un tempo prolungato; b) analizzare le vicissitudini dei vincoli di «dipendenza» che l'analizzando ha stabilito nel passato e stabilisce nel presente, col suo analista o il suo gruppo terapeutico ed anche con altre persone significative.
A questo punto vorrei sostituire la parola «dipendenza», usata da Maria Teresa in senso negativo, con la parola «vincolo». L'origine dell'angoscia, come normalmente si rivela nel corso di un'analisi, è dovuta all'esistenza nella vita infantile delle persone di distorsioni, insicurezze e disturbi nelle relazioni interpersonali, che hanno impedito la formazione di vincoli sicuri. Quanto la nostra società possa influire sul fatto che le famiglie producono figli angosciati è un discorso che rimane aperto su questa rivista.
Desidero infine chiarire che sono venuto a vivere in Inghilterra nel 1973 (prima della dittatura militare) per motivi di studio e non per essere stato perseguitato. Non sono ritornato in Argentina durante il periodo fascista per molti motivi: rientrandovi avrei rischiato non solo in quanto libertario ma anche in quanto psicoterapeuta di gruppo, giacché per il regime militare chiunque riunisse gruppi di persone nella sua casa o nel suo studio era considerato «sospetto».

Mario Marrone

Comportamentista e orgoglioso di esserlo

L'articolo «Psicoterapia e Società», comparso sul numero di febbraio di «A», con le sue considerazioni alquanto riduttive sulla psicologia comportamentale, mi ha stimolato a mettere sulla carta alcune considerazioni che mi stanno a cuore proprio in quanto libertario e psicologo di indirizzo comportamentale, che ritiene non solo compatibili, ma anche strettamente connesse le due cose.
Senza pretendere di dare dell'approccio comportamentale alla psicologia un quadro un po' meno succinto di quello dato da Mario Marrone (impresa che richiederebbe ben altro spazio) vorrei partire comunque da due sue affermazioni. Si tratta delle seguenti: A livello filosofico (...) la psicologia comportamentale si disinteressa delle esperienze soggettive dell'uomo e di fatto le nega (...). A livello politico può essere pericolosa.
Soggettività, oggettività, intersoggettività. Partirò dalla prima. E' innegabile che per un libertario una posizione che neghi le esperienze soggettive sia, almeno a prima vista, decisamente repellente. Ma che significa dire che la psicologia comportamentale (o comportamentista, come più comunemente ci si esprime) nega le esperienze soggettive? Nessun comportamentista si è mai sognato di sostenere che non esista un soggetto, o che non esistano esperienze soggettive, o che esse non siano degne di considerazione. Ciò che il comportamentismo ha sempre affermato è, se vogliamo, un'ovvietà: e cioè che nessuno può avere accesso alle esperienze soggettive di un altro. Tuttavia se noi vogliamo costruire una scienza psicologica o una prassi psicoterapeutica, dobbiamo compiere un'impresa collettiva, un'impresa intersoggettiva. Infatti una scienza delle esperienze soggettive sarebbe perfettamente legittima e controllabile solo se costruita e usata esclusivamente da chi ha accesso a simili esperienze, e cioè dal soggetto stesso che le prova; ma una tale scienza sarebbe una scienza solipsistica costruita per un solo soggetto e pertanto non generalizzabile ad altri; e dunque, in quanto non generalizzabile, sarebbe perfettamente inutile e non sarebbe nemmeno una scienza. Lo stesso dicasi per l'attività terapeutica: essa presuppone una relazione tra due o più soggetti, che sia in qualche misura ripetibile; al di fuori di ciò non si tratterebbe di attività terapeutica, ma di una storia personale non ripetibile.
Psicologia e psicoterapia, dunque, o sono imprese collettive e intersoggettive o non sono; ma se sono imprese collettive e intersoggettive allora il loro oggetto di studio e di intervento non può che essere altrettanto intersoggettivo e collettivamente osservabile; dunque esse non possono occuparsi direttamente di esperienze soggettive, che sono accessibili solo al soggetto che le vive, ma solo di eventi «oggettivi» osservabili collettivamente da una molteplicità di soggetti. Tali eventi sono gli atti attraverso i quali il soggetto si mette in relazione con il mondo a lui esterno e con gli altri soggetti: i comportamenti. Questi sono i limiti che non è lecito valicare; lo psicologo e lo psicoterapista che li valichi illudendosi di occuparsi direttamente delle esperienze soggettive altrui finirà inevitabilmente per costruirsi un sistema di idee inverificabile e inconfutabile sulla soggettività altrui, rischiando di sovrapporlo arbitrariamente e autoritariamente sulla soggettività degli altri.
Ma allora questa posizione consiste nella negazione della soggettività, o non consiste per caso nel massimo rispetto possibile per la soggettività stessa?
Mario Marrone afferma poi che la psicologia comportamentale a livello politico può essere pericolosa e spiega questa affermazione dicendo che la sperimentazione di queste tecniche può anche servire ad una causa ben più pericolosa: la manipolazione psicologica del comportamento umano. E prosegue dicendo: Al contrario, gli psicanalisti cercano di influenzare il meno possibile i loro clienti, non danno consigli né istruzioni e invece di determinare il corso degli eventi cercano di mettere le carte in tavola affinché la persona possa giudicare liberamente.
Non voglio certo negare che le tecniche comportamentali possano essere usate per la manipolazione del comportamento umano (ma, come più volte ha fatto notare B.P. Skinner, la manipolazione del comportamento umano è vecchia come il mondo: al massimo la psicologia comportamentista ne ha rese note le modalità, ma non ha inventato nulla di nuovo). Mi interessa invece qui far cadere l'attenzione sulla seconda affermazione di Marrone, e cioè quella che dice che gli psicanalisti cercano di influenzare il meno possibile.
E' sicuramente vero che essi non danno istruzioni né consigli, ma non è necessario essere degli esperti in meccanismi di controllo del comportamento umano per accorgersi che si può influenzare potentemente una persona senza darle consigli né istruzioni esplicite. Gli psicanalisti non danno consigli ma sono esperti nell'influenzare gli analizzati: del resto se la pratica psicanalitica produce dei risultati, e cioè dei mutamenti nell'analizzato, è implicito in ciò che quest 'ultimo sia in qualche modo influenzato da quella (...).
La psicanalisi può realizzare una relazione che non solo influenza l'analizzato, ma anche in un modo particolarmente autoritario, in quanto l'analizzando non può mai confutare seriamente quanto gli viene proposto dall'analista: così anch'essa a livello politico può essere pricolosa almeno tanto quanto il comportamentismo. Ma c'è una differenza: mentre il comportamentista sa benissimo di non fare altro che influenzare il paziente e modificarne il comportamento, e lo dichiara, lo psicanalista illude se stesso e gli altri di esercitare un'influenza minima, di limitarsi a «mettere le carte in tavola», di servire solo a una presa di coscienza liberatoria; e così aggiunge all'autoritarismo la mistificazione, se pure in buonafede.
Ma c'è di più. In genere la psicanalisi, come la psichiatria, si basa su un modello medico della devianza e del comportamento nevrotico. Ciò che conta è l'«apparato psichico» che, pur non essendo una realtà organica, viene visto come un organo; come un organo esso ha un suo equilibrio fisiologico che corrisponde alla sanità, e i suoi possibili squilibri che corrispondono alla patologia. Il comportamento, pertanto, non viene considerato di per sé, ma come una manifestazione del sottostante apparato psichico. Un apparato psichico sano, perciò, produrrà un certo tipo di comportamento, detto normale, mentre un apparato patologico produrrà un comportamento deviante o nevrotico.
A questo modo lo psicanalista si propone come colui che «guarisce» i comportamenti nevrotici o devianti, che non sono che sintomi, «curando» il sottostante apparato psichico patologico per riportarlo alla sanità. E' evidente come questa posizione diventi conservatrice quando la normalità, considerata espressione di un sottostante apparato sano, viene fatta coincidere con i comportamenti prescritti dalle regole sociali dominanti, mentre di conseguenza i comportamenti non congruenti con tali regole diventano in quanto tali sintomi di patologia. In questo modo ogni scelta e comportamento non conformista e non congruente con le aspettative sociali viene considerato sintomo di patologia e così deve essere ricondotto alla normalità.
Con questo sistema qualunque gesto ribelle o più semplicemente non conformista viene medicalizzato (ad esempio: la donna che non vuole sposarsi viene definita affetta da «fobia del matrimonio»), perdendo la sua dignità di scelta cosciente e diventando così oggetto di cura. Questa applicazione conservatrice del modello medico è la norma, è la posizione che forse il 90% degli psicanalisti e degli psicologi ad orientamento analitico tengono costantemente nella loro pratica quotidiana; non si tratta purtroppo di un'eccezione che io segnalo per dar sostegno alla mia tesi.
Diversa, in questo riguardo è la posizione comportamentale. Questa posizione considera tutti i comportamenti, sia normali che non-normali, di per sé, e non come espressioni di qualche cosa d'altro (l'apparato psichico) sottostante. In tal modo la normalità non ha nulla a che fare con la sanità, così come la non normalità non è malattia: al massimo le due cose hanno un significato puramente statistico: è normale ciò che viene fatto dalla maggioranza delle persone, e non è normale ciò che non viene fatto dalla maggioranza.
A questo punto lo psicologo comportamentista non ha alcun motivo per agire sulla anormalità per ricondurla alla normalità, dato che questa non è l'espressione della sanità di qualcosa di sottostante, né quella della patologia. Perciò in genere egli sa di non «curare» né di «guarire» nessuno, ma sa che la sua azione consiste in una pura e semplice modificazione del comportamento del paziente; la direzione di tale modificazione è pertanto arbitraria. Per questo motivo, solitamente, il terapista del comportamento affida al suo cliente la decisione di stabilire quali obiettivi raggiungere, e poi lo aiuta a modificare il suo comportamento nella direzione da esso stabilita.
Ma anche quando ciò non avvenisse, lo psicologo comportamentale non può nascondere che quando si interviene sulla persona umana la decisione della direzione dell'intervento non può essere data dalla scienza che applica né dalla tecnica che usa, ma si tratta di una scelta che appartiene alla sfera etica e politica; pertanto esso non può spacciare le sue scelte per atti medici moralmente e politicamente neutri.
Ancora una volta, qual è la posizione politicamente più pericolosa?
Come si vede non solo la psicologia comportamentale, ma anche la psicanalisi può essere pericolosa a livello politico; anzi, è possibile sostenere una posizione secondo la quale la psicanalisi è ben più pericolosa del comportamentismo. Dico questo non per sostenere una specie di corporativismo comportamentista, secondo il quale la psicologia comportamentale sarebbe politicamente buona e liberatoria mentre la psicanalisi sarebbe cattiva e reazionaria. Questo sarebbe una sciocchezza, come sarebbe una sciocchezza sostenere il contrario.
La questione è un 'altra. E' che tutte le scienze, tutte le psicologie e le tecniche psicoterapeutiche possono essere pericolose a livello politico; e possono non esserlo, e anzi essere utili, solo se ogni singolo gesto che le traduce in pratica viene costantemente controllato alla luce di un'idea morale o politica. Per questo mi fido di più di uno psicanalista anarchico (purché svolga questa opera di controllo), che di un comportamentista notoriamente reazionario, come Eysenk, citato da Marrone.
Ad ogni modo rivendico la mia scelta di campo comportamentista proprio perché essa, rendendo evidente che gli interventi psicologici sono atti di controllo, stimola sia i tecnici che i fruitori al controcontrollo, al controllo politico e morale delle azioni «terapeutiche», non permettendo mai di allentare la sorveglianza nell'illusione che si tratti di atti medici policamente e moralmente neutri.

Aligi Taschera

Ma la psicanalisi si esprime in un rapporto d'amore

Cari amici di «A»,
mi avete chiesto di scrivere perché non mi sono piaciuti i due articoli di Mario Marrone su «Psicoterapia e Società». La prima cosa che ho pensato alla fine di questa lettura è stato: «Ma allora che lavoro faccio? Qui dentro il mio lavoro e quello dei miei pazienti non c'è, non si vede, non si immagina nemmeno». Invece mi sono emozionata leggendo le due brevi intense testimonianze di Antonia e Loredana: le ho riconosciute.
Ma - come leggo nell'introduzione di Maria Teresa Romiti - lo scritto di Marrone non intende descrivere il lavoro analitico e i suoi intrecci col sociale, ma si propone di offrire «un quadro generale delle teorie psicanalitiche e delle diverse pratiche terapeutiche», e cioè - allora penso - un lavoro compilatorio, il più possibile obbiettivo, uno strumento in grado di orientare il lettore profano.
Bene: da questo punto di vista questo articolo è una truffa: 20 colonne di stampa sull'evoluzione della psicanalisi in cui non si nomina Jung e l'inconscio collettivo e in cui non si parla di personaggi come Adler, Klein, Neumann, Lacan. Esse non rappresentano qualcosa su cui si possa intervenire criticamente, non si possono definire imprecise e lacunose; si può solo stenderci sopra un pietoso velo. E' come se in un libro di storia sull'800 italiano non si nominassero Mazzini, Garibaldi e la breccia di Porta Pia. Difatti, se questo articolo non fosse apparso sulla vostra rivista, non avrei speso un minuto del mio tempo per parlarne.
Io credo però che questi riassunti (e non solo sulla psicanalisi), anche quando sono fatti bene, siano operazioni apparentemente progressiste («tutti possono sapere le cose di scienza») ma sostanzialmente demagogiche («anche voi potete sparare due luoghi comuni in materia»). L'errore, secondo me, è nel pensare che questo genere di sintesi possa avere una funzione culturale, cioè di conoscenza, di riflessione e di confronto.
Forse sarebbe stato meglio, in questo caso, chiedere a diversi analisti, di diversa formazione, di parlare «dal di dentro» delle loro esperienze, del loro modo di lavorare; è vero, senza pretesa di completezza e di obbiettività, ma tanto la completezza e l'obbiettività ci sono lo stesso e almeno ne sarebbe venuto fuori un insieme meno cerebrale, almeno secondo me.
Faccio un esempio: se io descrivo un bosco di betulle come «agglomerato di fagali con corteccia biancastra, foglie alterne romboidali, fiori in amenti e frutti a cono alati». Ecco, se lo descrivo così, anche se è vero, che cosa ne sai tu a questo punto di un bosco di betulle? Forse la leggerezza di quel chiarore sottile? Il fruscio di quelle foglioline d'argento? La sensazione struggente di stare lì sotto a guardare il cielo? E non è così anche per l'anarchia, il mare, l'amore, la morte? Per tutte le grandi esperienze umane? E allora perché non per la psicanalisi che è tra le esperienze umane una delle più profonde e delle più inquietanti?
Che cosa ne so io, dopo aver letto Marrone, dell'ansia della prima seduta, la sensazione curiosa delle prime volte in cui l'inconscio ti viene svelato da un sogno, l'eccitazione che un giorno ti fa volare a una seduta e la depressione che, un altro giorno, ti fa pensare di mollare tutto? E la forza del sentimento che unisce quelle due persone che stanno insieme combattendo contro qualcosa che fa male dentro e la gioia inesprimibile quando si trova il nuovo dentro di noi e insieme si sente che non è tanto nuovo quanto dimenticato ...
Altro che «inserimento nel sistema». Cosa c'è di più trasformativo dell'analisi se non, forse, l'amore? Del resto la psicanalisi è una scienza che si esprime in un rapporto d'amore. «Inseriti nel sistema» saranno caso mai quei gufi che riassumono l'amore - come la psicanalisi - in istituzioni, tecniche, breviari e compendi, in grumi di astratte nozioni «di testa». E sapete perché? Perché in questo modo cercano (quanto inconsciamente non lo so) di rendere razionale ciò che è intuitivo, rassicurante ciò che è inquietante, tecnico ciò che è semplicemente umano.
Appiattire, regolamentare, riassumere, definire sono in questi casi poveri esorcismi per depotenziare i nostri demoni. Ma è un modo per conoscere la paura o solo per dimenticarla?
Un grande abbraccio.

Marina Valcarenghi