Rivista Anarchica Online
Psicoterapia e liberazione
di M. Marrone / A. Taschera / M. Valcarenghi
Gli interventi dello psicoterapeuta anarchico argentino Mario Marrone hanno suscitato interesse e
dibattito. Dopo una precisazione dello stesso Marrone, pubblichiamo ora gli interventi critici di
Aligi Taschera (militante radicale e psicoterapeuta comportamentista) e di Marina Valcarenghi
(psicanalista junghiana).
E se dicessi «vincolo» invece di «dipendenza»
Dobbiamo definire la differenza tra l'arte della psicoterapia e la scienza della psicologia
psicoanalitica. La parola «psicoanalisi» è stata usata in modo ambiguo. Freud, nella sua
autobiografìa (1925), scrisse: Mentre originariamente è stato il nome di un metodo terapeutico ora
si è trasformata in una scienza: la scienza dei processi mentali inconsci. Questa distinzione è applicabile a qualunque ramo della medicina. Esiste l'arte di prescrivere
medicine ed esiste una scienza farmacologica, ad esempio. E la stessa cosa vale per altri campi
dell'attività professionale in cui è necessario che una pratica artistica o artigianale si fondi su una
disciplina scientifìca, così come il giardinaggio si fonda sulla botanica. La storia dimostra però che
questo processo di differenziazione è a volte doloroso e difficile. In psicoterapia esistono l'arte
psicoterapeutica ed una scienza dei processi mentali, psicosomatici e interpersonali. La differenza
tra le diverse teorie e modelli psicoterapeutici è dovuta al fatto che molti autori hanno creduto che il
loro «stile artistico» potesse servire come base a una «teoria scientifica». In un articolo che John Bowlby pubblicò nel 1979 sull'International Review of Psychoanalysis,
intitolato «Psicoanalisi come arte e scienza», questo problema viene formulato molto chiaramente.
Al fine di sviluppare una teoria scientifica è necessario applicare e integrare diverse indagini
informative: non solo l'osservazione clinica nella situazione psicoterapeutica, ma anche lo studio
diretto delle interazioni tra madre e figlio e tra tutti i menbri di una famiglia, in diverse culture, in
diverse classi sociali, ecc. Sulla base di questa metodologia, con le conoscenze apportate da
ricercatori (psicologi, sociologi, antropologi) che non lavorano nella clinica, sarebbe possibile
unificare e integrare questa disciplina così complessa. Gli studi scientifici attuali stanno evidenziando che la necessità primaria dell'essere umano è quella
di allacciare vincoli stabili, discriminanti e duraturi, e da questo punto di vista il compito
terapeutico ha due obiettivi fondamentali: a) offrire all'analizzando una possibilità di «dipendenza»
dall'analista per un tempo prolungato; b) analizzare le vicissitudini dei vincoli di «dipendenza» che
l'analizzando ha stabilito nel passato e stabilisce nel presente, col suo analista o il suo gruppo
terapeutico ed anche con altre persone significative. A questo punto vorrei sostituire la parola «dipendenza», usata da Maria Teresa in senso negativo,
con la parola «vincolo». L'origine dell'angoscia, come normalmente si rivela nel corso di un'analisi,
è dovuta all'esistenza nella vita infantile delle persone di distorsioni, insicurezze e disturbi nelle
relazioni interpersonali, che hanno impedito la formazione di vincoli sicuri. Quanto la nostra
società possa influire sul fatto che le famiglie producono figli angosciati è un discorso che rimane
aperto su questa rivista. Desidero infine chiarire che sono venuto a vivere in Inghilterra nel 1973 (prima della dittatura
militare) per motivi di studio e non per essere stato perseguitato. Non sono ritornato in Argentina
durante il periodo fascista per molti motivi: rientrandovi avrei rischiato non solo in quanto
libertario ma anche in quanto psicoterapeuta di gruppo, giacché per il regime militare chiunque
riunisse gruppi di persone nella sua casa o nel suo studio era considerato «sospetto».
Mario Marrone
Comportamentista e orgoglioso di esserlo
L'articolo «Psicoterapia e Società», comparso sul numero di febbraio di «A», con le sue
considerazioni alquanto riduttive sulla psicologia comportamentale, mi ha stimolato a mettere sulla
carta alcune considerazioni che mi stanno a cuore proprio in quanto libertario e psicologo di
indirizzo comportamentale, che ritiene non solo compatibili, ma anche strettamente connesse le due
cose. Senza pretendere di dare dell'approccio comportamentale alla psicologia un quadro un po' meno
succinto di quello dato da Mario Marrone (impresa che richiederebbe ben altro spazio) vorrei
partire comunque da due sue affermazioni. Si tratta delle seguenti: A livello filosofico (...) la
psicologia comportamentale si disinteressa delle esperienze soggettive dell'uomo e di fatto le nega
(...). A livello politico può essere pericolosa. Soggettività, oggettività, intersoggettività. Partirò dalla prima. E' innegabile che per un libertario
una posizione che neghi le esperienze soggettive sia, almeno a prima vista, decisamente repellente.
Ma che significa dire che la psicologia comportamentale (o comportamentista, come più
comunemente ci si esprime) nega le esperienze soggettive? Nessun comportamentista si è mai
sognato di sostenere che non esista un soggetto, o che non esistano esperienze soggettive, o che
esse non siano degne di considerazione. Ciò che il comportamentismo ha sempre affermato è, se
vogliamo, un'ovvietà: e cioè che nessuno può avere accesso alle esperienze soggettive di un altro.
Tuttavia se noi vogliamo costruire una scienza psicologica o una prassi psicoterapeutica, dobbiamo
compiere un'impresa collettiva, un'impresa intersoggettiva. Infatti una scienza delle esperienze
soggettive sarebbe perfettamente legittima e controllabile solo se costruita e usata esclusivamente
da chi ha accesso a simili esperienze, e cioè dal soggetto stesso che le prova; ma una tale scienza
sarebbe una scienza solipsistica costruita per un solo soggetto e pertanto non generalizzabile ad
altri; e dunque, in quanto non generalizzabile, sarebbe perfettamente inutile e non sarebbe
nemmeno una scienza. Lo stesso dicasi per l'attività terapeutica: essa presuppone una relazione tra
due o più soggetti, che sia in qualche misura ripetibile; al di fuori di ciò non si tratterebbe di attività
terapeutica, ma di una storia personale non ripetibile. Psicologia e psicoterapia, dunque, o sono imprese collettive e intersoggettive o non sono; ma se sono imprese collettive e
intersoggettive allora il loro oggetto di studio e di intervento non può che essere altrettanto
intersoggettivo e collettivamente osservabile; dunque esse non possono occuparsi direttamente di
esperienze soggettive, che sono accessibili solo al soggetto che le vive, ma solo di eventi
«oggettivi» osservabili collettivamente da una molteplicità di soggetti. Tali eventi sono gli atti
attraverso i quali il soggetto si mette in relazione con il mondo a lui esterno e con gli altri soggetti:
i comportamenti. Questi sono i limiti che non è lecito valicare; lo psicologo e lo psicoterapista che
li valichi illudendosi di occuparsi direttamente delle esperienze soggettive altrui finirà
inevitabilmente per costruirsi un sistema di idee inverificabile e inconfutabile sulla soggettività
altrui, rischiando di sovrapporlo arbitrariamente e autoritariamente sulla soggettività degli altri. Ma allora questa posizione consiste nella negazione della soggettività, o non consiste per caso nel
massimo rispetto possibile per la soggettività stessa? Mario Marrone afferma poi che la psicologia comportamentale a livello politico può essere
pericolosa e spiega questa affermazione dicendo che la sperimentazione di queste tecniche può
anche servire ad una causa ben più pericolosa: la manipolazione psicologica del comportamento
umano. E prosegue dicendo: Al contrario, gli psicanalisti cercano di influenzare il meno possibile i
loro clienti, non danno consigli né istruzioni e invece di determinare il corso degli eventi cercano
di mettere le carte in tavola affinché la persona possa giudicare liberamente. Non voglio certo negare che le tecniche comportamentali possano essere usate per la
manipolazione del comportamento umano (ma, come più volte ha fatto notare B.P. Skinner, la
manipolazione del comportamento umano è vecchia come il mondo: al massimo la psicologia
comportamentista ne ha rese note le modalità, ma non ha inventato nulla di nuovo). Mi interessa
invece qui far cadere l'attenzione sulla seconda affermazione di Marrone, e cioè quella che dice che
gli psicanalisti cercano di influenzare il meno possibile. E' sicuramente vero che essi non danno istruzioni né consigli, ma non è necessario essere degli
esperti in meccanismi di controllo del comportamento umano per accorgersi che si può influenzare
potentemente una persona senza darle consigli né istruzioni esplicite. Gli psicanalisti non danno
consigli ma sono esperti nell'influenzare gli analizzati: del resto se la pratica psicanalitica produce
dei risultati, e cioè dei mutamenti nell'analizzato, è implicito in ciò che quest 'ultimo sia in qualche
modo influenzato da quella (...). La psicanalisi può realizzare una relazione che non solo influenza l'analizzato, ma anche in un
modo particolarmente autoritario, in quanto l'analizzando non può mai confutare seriamente quanto
gli viene proposto dall'analista: così anch'essa a livello politico può essere pricolosa almeno tanto
quanto il comportamentismo. Ma c'è una differenza: mentre il comportamentista sa benissimo di
non fare altro che influenzare il paziente e modificarne il comportamento, e lo dichiara, lo
psicanalista illude se stesso e gli altri di esercitare un'influenza minima, di limitarsi a «mettere le
carte in tavola», di servire solo a una presa di coscienza liberatoria; e così aggiunge
all'autoritarismo la mistificazione, se pure in buonafede. Ma c'è di più. In genere la psicanalisi, come la psichiatria, si basa su un modello medico della
devianza e del comportamento nevrotico. Ciò che conta è l'«apparato psichico» che, pur non
essendo una realtà organica, viene visto come un organo; come un organo esso ha un suo equilibrio
fisiologico che corrisponde alla sanità, e i suoi possibili squilibri che corrispondono alla patologia.
Il comportamento, pertanto, non viene considerato di per sé, ma come una manifestazione del
sottostante apparato psichico. Un apparato psichico sano, perciò, produrrà un certo tipo di
comportamento, detto normale, mentre un apparato patologico produrrà un comportamento
deviante o nevrotico. A questo modo lo psicanalista si propone come colui che «guarisce» i comportamenti nevrotici o
devianti, che non sono che sintomi, «curando» il sottostante apparato psichico patologico per
riportarlo alla sanità. E' evidente come questa posizione diventi conservatrice quando la normalità,
considerata espressione di un sottostante apparato sano, viene fatta coincidere con i comportamenti
prescritti dalle regole sociali dominanti, mentre di conseguenza i comportamenti non congruenti
con tali regole diventano in quanto tali sintomi di patologia. In questo modo ogni scelta e
comportamento non conformista e non congruente con le aspettative sociali viene considerato
sintomo di patologia e così deve essere ricondotto alla normalità. Con questo sistema qualunque gesto ribelle o più semplicemente non conformista viene
medicalizzato (ad esempio: la donna che non vuole sposarsi viene definita affetta da «fobia del
matrimonio»), perdendo la sua dignità di scelta cosciente e diventando così oggetto di cura. Questa
applicazione conservatrice del modello medico è la norma, è la posizione che forse il 90% degli
psicanalisti e degli psicologi ad orientamento analitico tengono costantemente nella loro pratica
quotidiana; non si tratta purtroppo di un'eccezione che io segnalo per dar sostegno alla mia tesi. Diversa, in questo riguardo è la posizione comportamentale. Questa posizione considera tutti i
comportamenti, sia normali che non-normali, di per sé, e non come espressioni di qualche cosa
d'altro (l'apparato psichico) sottostante. In tal modo la normalità non ha nulla a che fare con la
sanità, così come la non normalità non è malattia: al massimo le due cose hanno un significato
puramente statistico: è normale ciò che viene fatto dalla maggioranza delle persone, e non è
normale ciò che non viene fatto dalla maggioranza. A questo punto lo psicologo comportamentista non ha alcun motivo per agire sulla anormalità per
ricondurla alla normalità, dato che questa non è l'espressione della sanità di qualcosa di sottostante,
né quella della patologia. Perciò in genere egli sa di non «curare» né di «guarire» nessuno, ma sa
che la sua azione consiste in una pura e semplice modificazione del comportamento del paziente; la
direzione di tale modificazione è pertanto arbitraria. Per questo motivo, solitamente, il terapista del
comportamento affida al suo cliente la decisione di stabilire quali obiettivi raggiungere, e poi lo
aiuta a modificare il suo comportamento nella direzione da esso stabilita. Ma anche quando ciò non avvenisse, lo psicologo comportamentale non può nascondere che
quando si interviene sulla persona umana la decisione della direzione dell'intervento non può essere
data dalla scienza che applica né dalla tecnica che usa, ma si tratta di una scelta che appartiene alla
sfera etica e politica; pertanto esso non può spacciare le sue scelte per atti medici moralmente e
politicamente neutri. Ancora una volta, qual è la posizione politicamente più pericolosa? Come si vede non solo la psicologia comportamentale, ma anche la psicanalisi può essere
pericolosa a livello politico; anzi, è possibile sostenere una posizione secondo la quale la psicanalisi
è ben più pericolosa del comportamentismo. Dico questo non per sostenere una specie di
corporativismo comportamentista, secondo il quale la psicologia comportamentale sarebbe
politicamente buona e liberatoria mentre la psicanalisi sarebbe cattiva e reazionaria. Questo sarebbe
una sciocchezza, come sarebbe una sciocchezza sostenere il contrario. La questione è un 'altra. E' che tutte le scienze, tutte le psicologie e le tecniche psicoterapeutiche
possono essere pericolose a livello politico; e possono non esserlo, e anzi essere utili, solo se ogni
singolo gesto che le traduce in pratica viene costantemente controllato alla luce di un'idea morale o
politica. Per questo mi fido di più di uno psicanalista anarchico (purché svolga questa opera di
controllo), che di un comportamentista notoriamente reazionario, come Eysenk, citato da Marrone. Ad ogni modo rivendico la mia scelta di campo comportamentista proprio perché essa, rendendo
evidente che gli interventi psicologici sono atti di controllo, stimola sia i tecnici che i fruitori al
controcontrollo, al controllo politico e morale delle azioni «terapeutiche», non permettendo mai di
allentare la sorveglianza nell'illusione che si tratti di atti medici policamente e moralmente neutri.
Aligi Taschera
Ma la psicanalisi si esprime in un rapporto d'amore
Cari amici di «A», mi avete chiesto di scrivere perché non mi sono piaciuti i due articoli di Mario Marrone su
«Psicoterapia e Società». La prima cosa che ho pensato alla fine di questa lettura è stato: «Ma allora
che lavoro faccio? Qui dentro il mio lavoro e quello dei miei pazienti non c'è, non si vede, non si
immagina nemmeno». Invece mi sono emozionata leggendo le due brevi intense testimonianze di
Antonia e Loredana: le ho riconosciute. Ma - come leggo nell'introduzione di Maria Teresa Romiti - lo scritto di Marrone non intende
descrivere il lavoro analitico e i suoi intrecci col sociale, ma si propone di offrire «un quadro
generale delle teorie psicanalitiche e delle diverse pratiche terapeutiche», e cioè - allora penso - un
lavoro compilatorio, il più possibile obbiettivo, uno strumento in grado di orientare il lettore
profano. Bene: da questo punto di vista questo articolo è una truffa: 20 colonne di stampa sull'evoluzione
della psicanalisi in cui non si nomina Jung e l'inconscio collettivo e in cui non si parla di
personaggi come Adler, Klein, Neumann, Lacan. Esse non rappresentano qualcosa su cui si possa
intervenire criticamente, non si possono definire imprecise e lacunose; si può solo stenderci sopra
un pietoso velo. E' come se in un libro di storia sull'800 italiano non si nominassero Mazzini,
Garibaldi e la breccia di Porta Pia. Difatti, se questo articolo non fosse apparso sulla vostra rivista,
non avrei speso un minuto del mio tempo per parlarne. Io credo però che questi riassunti (e non solo sulla psicanalisi), anche quando sono fatti bene, siano
operazioni apparentemente progressiste («tutti possono sapere le cose di scienza») ma
sostanzialmente demagogiche («anche voi potete sparare due luoghi comuni in materia»). L'errore,
secondo me, è nel pensare che questo genere di sintesi possa avere una funzione culturale, cioè di
conoscenza, di riflessione e di confronto. Forse sarebbe stato meglio, in questo caso, chiedere a diversi analisti, di diversa formazione, di
parlare «dal di dentro» delle loro esperienze, del loro modo di lavorare; è vero, senza pretesa di
completezza e di obbiettività, ma tanto la completezza e l'obbiettività ci sono lo stesso e almeno ne
sarebbe venuto fuori un insieme meno cerebrale, almeno secondo me. Faccio un esempio: se io descrivo un bosco di betulle come «agglomerato di fagali con corteccia
biancastra, foglie alterne romboidali, fiori in amenti e frutti a cono alati». Ecco, se lo descrivo così,
anche se è vero, che cosa ne sai tu a questo punto di un bosco di betulle? Forse la leggerezza di
quel chiarore sottile? Il fruscio di quelle foglioline d'argento? La sensazione struggente di stare lì
sotto a guardare il cielo? E non è così anche per l'anarchia, il mare, l'amore, la morte? Per tutte le
grandi esperienze umane? E allora perché non per la psicanalisi che è tra le esperienze umane una
delle più profonde e delle più inquietanti? Che cosa ne so io, dopo aver letto Marrone, dell'ansia della prima seduta, la sensazione curiosa
delle prime volte in cui l'inconscio ti viene svelato da un sogno, l'eccitazione che un giorno ti fa
volare a una seduta e la depressione che, un altro giorno, ti fa pensare di mollare tutto? E la forza
del sentimento che unisce quelle due persone che stanno insieme combattendo contro qualcosa che
fa male dentro e la gioia inesprimibile quando si trova il nuovo dentro di noi e insieme si sente che
non è tanto nuovo quanto dimenticato ... Altro che «inserimento nel sistema». Cosa c'è di più trasformativo dell'analisi se non, forse,
l'amore? Del resto la psicanalisi è una scienza che si esprime in un rapporto d'amore. «Inseriti nel
sistema» saranno caso mai quei gufi che riassumono l'amore - come la psicanalisi - in istituzioni,
tecniche, breviari e compendi, in grumi di astratte nozioni «di testa». E sapete perché? Perché in
questo modo cercano (quanto inconsciamente non lo so) di rendere razionale ciò che è intuitivo,
rassicurante ciò che è inquietante, tecnico ciò che è semplicemente umano. Appiattire, regolamentare, riassumere, definire sono in questi casi poveri esorcismi per
depotenziare i nostri demoni. Ma è un modo per conoscere la paura o solo per dimenticarla? Un grande abbraccio.
Marina Valcarenghi
|