Rivista Anarchica Online
Quando la scuola é sorda
di Alessandro Scarpellini
L'esperienza di un insegnante per bambini ipoacustici
Sono un giovane insegnante comunale, opero da qualche anno nella scuola elementare per favorire (è
il mio lavoro) l'integrazione e l'inserimento dei fanciulli portatori di handicaps. Il termine «alunni portatori di handicaps» o più comunemente «handicappati» è così generale,
indefinito, da creare pericolosi fraintendimenti ed abusi. C'è anche chi include in questa categoria i
disadattati e i caratteriali. La legge 118 del 1971, che ha avviato l'inserimento di bambini «diversi» (gli
alunni delle famose scuole speciali e classi differenziali), così definisce i bambini portatori di
handicaps: (...) che abbiano difficoltà persistenti a svolgere i compiti e le funzioni proprie della loro
età. Ma tale disposizione ministeriale, come d'altronde le successive circolari, non definisce il problema
e soprattutto non lo esaurisce, al massimo lo solleva. Lo stesso termine handicappato risulta di dubbia
interpretazione, anche se quest'anno, per ragioni di bilancio pubblico, si tende a prendere in
considerazione legalmente solo i bambini con problemi organici e clinici. Ci sono spastici e disabili con intelligenza sufficiente, per i quali le strutture architettoniche delle
scuole sono ostiche anche ai più elementari bisogni. Ci sono sordastri, ipoacustici, ciechi, che
necessitano di particolari sussidi didattici e di interventi di specialisti, oltre che del continuo ausilio di
insegnanti di sostegno con specifiche competenze. Ci sono i cosiddetti mongoloidi, che non possono
certo stare in una classe quattro ore a vegetare senza esplodere in comportamenti di «rifiuto». Ci sono
gli insufficienti mentali con danni cerebrali o microdanni, che necessitano di particolari interventi
individualizzati che poco o niente hanno a che fare con la didattica tradizionale (dettati, problemi,
poesie, testi, riassunti, operazioni, ecc. ecc.) ... Se qualcuno vivesse, come me, dentro la scuola, assisterebbe a cose ben curiose, ai piccoli e grandi
drammi della vita scolastica di tutti i giorni: conseguenze logiche di una cattiva organizzazione dei
servizi, a volte di una mentalità poco disponibile ed aperta degli operatori scolastici, ma soprattutto
conseguenze di una legge che ha curato solo l'aspetto formale del problema senza preoccuparsi di
creare le condizioni reali per l'inserimento degli handicappati nella scuola dell'obbligo. Lo Stato doveva rispondere in qualche modo a quella parte dell'opinione pubblica (quella direttamente
interessata e quella progressista) che chiedeva la fine dello scandalo pubblico delle scuole speciali
(spesso private) e delle classi differenziali (in genere pubbliche): la loro abolizione è stata però una
convenienza politica, una elusione demagogica del problema. Addirittura si arriva a rimpiangere le
scuole speciali, che almeno, operavano con competenza. Nelle scuole italiane ci si arrangia, per gli handicappati, come si può: mancano, agli insegnanti,
sufficienti conoscenze dei problemi specifici che si trovano ad affrontare, mancano i sussidi opportuni,
manca il personale ausiliario specializzato (i «custodi») che li accudisca o li aiuti nelle loro esigenze
fisiologiche e di movimento, mancano gli insegnanti di sostegno, mancano gli interventi specialistici,
manca una soddisfacente opera di prevenzione e di intervento da parte delle Unità Sanitarie Locali,
manca un progetto di «nuova» scuola per tutti, ecc. ecc.. Ci si raccomanda, insomma, alla buona
volontà degli educatori e degli operatori, ai loro sforzi più o meno volenterosi ma molto improvvisati. L'handicappato diviene così un vero e proprio «handicap» per l'insegnante di classe, che si trova ad
affrontare, praticamente da solo, questo alunno «diverso» che non trova sempre interessante e
sopportabile la scuola in cui è stato inserito, che non è certo partecipe alle attività proposte, e che si
mostra a volte insofferente (indisciplina, aggressività, ecc.), ostacolando la «normale» vita della
classe. Non dovrebbe troppo scandalizzare che molti bambini «problematici» trascorrano buona
parte della mattinata nei corridoi o nelle aulette appartate, vigilati dai custodi od assistiti dagli
insegnanti di sostegno, perché è veramente insostenibile la loro presenza in classe o perché, e
questo è gravissimo, indesiderati dai loro insegnanti di classe. Gli stessi insegnanti di sostegno (da
non confondere con gli specialisti, che sono un'altra cosa) dovrebbero aiutare l'insegnante di classe
a creare situazioni particolarmente propizie all'handicappato che ha bisogno di spazi didattici
«diversi» per esprimersi (si parlava, nella legge 517, anche di attività integrative), ma questo non
succede, anche perché la normativa prevede un insegnante di sostegno ogni quattro bambini
portatori di handicaps (sei ore settimanali ciascuno, e non sempre). Lo stesso ruolo che deve avere un insegnante di sostegno è ancora velato da un fitto mistero. I
discorsi dei pedagogisti nelle conferenze ufficiali sono molto aperti ed interessanti ma la loro
applicazione pratica non esiste: un insegnante di sostegno è tutto, ma in pratica «niente». Bisogna ricordare che alcuni handicaps necessitano di accertamenti e trattamenti assai precoci, ma
le strutture sanitarie sono insufficienti ed inefficienti. L'équipe psico-pedagogica che dovrebbe interessarsi dei «problematici» che frequentano la scuola
dell'obbligo manca di personale sufficiente, interviene in un territorio vastissimo, riesce solo a dare
consigli molto generali agli operatori scolastici riguardo alle particolarità educative: il suo compito
principale sembra quello di sfornare diagnosi ufficiali, perché il Provveditorato assegni personale
di sostegno al Circolo didattico in cui sono presenti i bambini portatori di hanicaps. Gli specialisti, i
terapisti, non intervengono nella scuola, essi operano negli appositi centri o nelle cliniche
universitarie dove i bambini bisognosi sono condotti per iniziativa dei genitori. Spesso,
all'handicappato viene solo garantita la frequenza scolastica. La scuola dell'obbligo che boccia pure i normali («che perde per la strada tanti bambini senza poi
tornarli a cercare» diceva Don Milani) come può soddisfare realmente le esigenze umane,
intellettive, manuali, dei bambini portatori di handicaps? Tutte le istituzioni (compresa quella scolastica) orbitano attorno al concetto di norma e produttività,
considerate le anime della nostra società, e non intorno all'individuo come essere che vive, che
esiste, che ha bisogno di esprimersi, comunicare, potenziarsi, divenire. Manca il senso
dell'individuo e della sua importanza sociale, economica, politica, umana. C'è scarsa chiarezza
pedagogico-didattica sulle finalità del «diverso» nella scuola che dovrebbe essere di tutti e quindi
anche sua. Addirittura c'è chi pensa che inserire l'handicappato in una comunità di «normali»
significhi «normalizzarlo» il più possibile (come se fosse una scimmia da «umanizzare»,
addomesticare, e non un individuo), cioè operare come se lo sviluppo delle sue potenzialità fosse
indissolubilmente legato al fatto di raggiungere il maggior numero possibile di «prove» e di
«comportamenti» dei bambini «normali». Necessita un nuovo modo di «vivere» l'educazione, di operare sia con i fanciulli cosiddetrti diversi
che con quelli cosiddetti normali; la scuola non dovrebbe essere il solo veicolo di educazione e la
sola struttura pubblica educativa. Le strutture anguste e precarie, la mancanza di spazi educativi, l'impossibilità di processi di
socializzazione, le metodologie arcaiche e la pesantezza di contenuti, l'intellettualismo e il
rinnovamento ai soli procedimenti didattici, la chiusura alla realtà ambientale, la rigidezza della
struttura classe e l'assenza di una comunità educatica più vasta, la mancanza di programmi
promozionali per stimolare la spiccata originalità personale, l'ottusità nel ridimensionare sempre il
bambino all'omogeneità anonima dello scolaro, l'incapacità di piena valorizzazione del potenziale
umano (la creatività), relega il bambino portatore di handicaps ad essere (anche se gli è assicurata
per legge la promozione e persino la licenza media) un emarginato o non sviluppa pienamente le
sue possibilità. Qualche passettino si è fatto nella scuola elementare, in quella media tutto è ancor più
problematico, ma l'integrazione e l'educazione è parziale, quando non si deve addirittura parlare di
assistenzialismo. In sostanza si tratta di fare di ciascun handicappato un problema educativo di cui
è si responsabile il docente, ma nella sua realtà di animatore culturale, capace di fare di questo
problema umano un problema alla cui risoluzione devono saper collaborare, con responsabilità
diretta, gli altri alunni, le famiglie, gli organi collegiali, le strutture scolastiche ausiliarie, la stessa
società, in una visione sociale dove l'uguaglianza fra uomini liberi sia alla base del civile convivere,
e generi l'impulso alla mobilitazione delle coscienze perché nessun talento umano venga disperso,
schiacciato, sottomesso, represso, sfruttato, emarginato. Il discorso dell'inserimento dell'handicappato nella scuola dell'obbligo (appena all'inizio) per lo
Stato è già finito, ma noi dobbiamo denunciare che le autorità competenti non promuovono
sufficientemente la sua educazione e non affrontano veramente l'essenza del problema, che
l'handicappato spesso è un emarginato e un frustrato nella scuola di tutti, oltre che nella società di
tutti. Così come la nostra società è la società di quelli con due mani e due gambe che funzionano, di
quelli che sentono e vedono bene, di quelli il cui cervello funziona «normalmente», anche la scuola
di oggi è la scuola per i bambini senza troppi problemi, per quelli che sanno far di conto e leggere:
per i «normali». Bisogna rilevare che la scuola d'oggi, come d'altronde la società attuale, non soddisfa neppure
l'individuo normale con i suoi sensi, con la sua mente, con i suoi sentimenti, con le sue esigenze. Non vedo prospettive rosee per il domani (nella società come nella scuola), intanto il Ministero
della Pubblica Istruzione ha ridimensionato spaventosamente il numero degli insegnanti di
sostegno (altra disoccupazione ed altra più gravosa emarginazione), giudicando improvvisamente
«normali» dei bambini che prima erano considerati «handicappati». Non c'è stato nessun miracolo:
lo Stato doveva risparmiare e ha comandato ai Provveditorati di respingere il maggior numero
possibile di diagnosi. L'inserimento degli handicappati nella scuola dell'obbligo è stato uno dei tanti giocherelli di potere
che dovrebbe far riflettere sul concetto stesso di Stato e sulla sua utilità sociale.
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