Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 114
novembre 1983


Rivista Anarchica Online

«Sciopèn» e la politica del favore
di Giulio Manieri

Si sa che questo non è un momento esaltante per il cinema italiano. Consumata la stagione dell'impegno politico, la commedia all'italiana ha vieppiù attinto alla sua vena macchiettistica e pecoreccia, sì che il risultato ne sono stati Abatantuono, Pierino e i fratelli Vanzina. I nuovi comici, dal canto loro, saranno forse nuovi, ma di comico hanno solo l'insistenza con cui pretendono di appropriarsi di una tale qualifica. Cosa ci sia di comico, ad esempio, in Ecce Bombo non mi è mai riuscito di capire. Quel film mi provocava altri moti dell'animo che non l'ilarità: tristezza per una generazione che, bene o male, nella sua insipienza vi si specchia, e per una maniera di comunicare che si risolve nel soliloquio.
Nello squallore, quindi, nel deserto, qualche piccola opera senza troppe pretese spicca come un inatteso regalo a chi voglia passare due ore intelligenti dinanzi ad uno schermo cinematografico. A queste, a mio parere, appartiene a pieno titolo Sciopèn, opera prima di Luciano Odorisio, il quale si è distinto in precedenza come sceneggiatore e non è nuovo al lavoro cinematografico: un'opera prima, ma non del primo arrivato. Prima di indugiare sui pregi e difetti del film in questione fa conto accennare alla trama. Questa è estremamente semplice.
Siamo a Chieti nella provincia abruzzese, e un ente pubblico non meglio identificato ha deciso di ridare vita ad un'antica istituzione cittadina: la banda, che è in verità una vera e propria orchestra (centoventi elementi). «Centoventi elementi», si ripete compiaciuto il maestro Michele Placido, che - grazie anche ai favori che la moglie (Giuliana De Sio) dispensa ad un facoltoso e maturo uomo politico locale (Lino Troisi) - pare designato a dirigere il complesso musicale. «Centoventi elementi», ripete agli amici che sono convenuti nella sua confortevole abitazione per celebrare l'avvenimento. Ma si sono fatti i conti senza l'oste.
Nella fattispecie l'oste è Nicolino (Tino Schirinzi), un personaggio ben noto nella provincia italiana, l'«amico» che si rotola nell'invidia per il compagno di scuola, di lavoro, di squadra, che ha avuto di più dalla vita, il «successo», una «bella moglie», la dignità di farsi chiamare «dottore», «avvocato», «professore».
Titoli questi importantissimi in provincia, e ancor più nel Meridione, dove la rivoluzione industriale non è mai passata, e con essa lo spirito calvinistico-capitalistico. Qui il denaro è, rispetto allo status, al titolo (un tempo onorifico, il «cavaliere», o nobiliare, il «marchese»; ora di studio, il «dottore» appunto) assai meno importante. Quello lì sarà pure un arricchito, ma sua madre teneva una bettola, e lui rimane sempre un villano. Non sarà mai ammesso, nonostante possa comprarsi l'intero paese e qualcosa in più ancora, tra la buona società: non sarà ammesso a godere della dignità del galantuomo. Così Nicolino, che è rimasto infermiere, cova sentimenti poco piacevoli verso i suoi amici «famosi» e «riusciti». E ricorre al pettegolezzo, al «taglia e cuci» si direbbe in dialetto siciliano che rende quell'attività con maggiore chiarezza. Una parola ben detta, un'insinuazione gettata là con nonchalance, e il sospetto s'insinua nella mente della vittima prescelta, mentre tutta la cittadina si impadronisce di un segreto che è solo un'invenzione malvagia.
Cosa fa allora Nicolino? Sussurra a Michele Placido, il maestro, che in giro si dice che il prescelto non è lui, bensì Adalberto Maria Merli, musicista più noto che ha preso il volo per Milano dove lavora (oh! meraviglia) per la Rai-Radiotelevìsione italiana. Qui scatta un altro meccanismo d'invidia, più pacato in verità, tra il musicista di provincia e il suo compagno di studi che è riuscito a fare il salto nel «giro» nazionale.
La voce si sparge, ed arriva per vie traverse (come quelle della provvidenza divina) al musicista milanese. Questi è tutt'altro che soddisfatto. Stenta a mantenere le posizioni, gli offrono non più la direzione di un complesso ma un posto di musicista diretto da altri: retrocessione vissuta come una denigrazione. «Centoventi elementi», ripete anche lui, facendo balenare alla moglie (restia) la possibilità di tornare a Chieti.
A Chieti Adalberto Maria Merli ci torna. Ma adesso solo per saggiare il terreno, per sapere quanto c'è di vero in quelle voci. Il ritorno al paese da cui si è partiti vent'anni addietro è desolante, come ben sa chi è andato via dal suo e vi torna di tanto in tanto. La sensazione della dissoluzione degli antichi legami parentali. La dissoluzione della città, anche.
Adalberto incontra nel bar centrale della centralissima piazza del centro un vecchio compagno di conservatorio. E' Nestorino, che all'esame del primo anno presentò come suo lavoro un notturno di Chopin, e d'allora fu noto ai compagni come Sciopèn. Sciopèn, inetto dinanzi ad uno spartito, non lo è stato altrettanto nello studio delle pandette. E' avvocato e, quel che più conta, uomo politico potente, dispensatore di favori e raccattatore di voti. Il musicista milanese, ignaro, lo motteggia un po', e si sottrae con sufficienza ad un suo abbracciante invito a pranzo.
La notizia sussurrata da Nicolino ha un effetto di ritorno. Si ripercuote sulla decisione già presa, e i potenti locali, che utilizzano saggiamente arti e cultura per accaparrare consensi, si orientano verso il milanese, che è più noto e darebbe più lustro all'iniziativa. Lo contattano e gli propongono la direzione del concerto d'apertura. Adalberto accetta a condizione che, per correttezza, sia il primo designato, Michele Placido, a volerlo. Di conseguenza, tutto cade. Della banda, per ora almeno, non si parla più. Si parlano tra loro i due maestri, mentre Adalberto attende il treno che lo riporti a Milano. Due vite si confrontano, e non si sa quale sia quella vincente. Entrambi però, nonostante quel po' di compromessi e frustrazione che si trascinano dentro, continuano a vivere per quella loro passione autentica che è la musica. Il prossimo anno il «miserere», ciò è quanto importa alla fine. Un'ultima rivelazione per Adalberto è Sciopèn. Sciopèn, che era più duro d'un chiodo, zimbello della classe, decide del destino della gente. «Però», si dice tra sé e sé il maestro in partenza rammentando il pranzo schivato.
La trama è semplice, ma non esile.
L'intreccio delle situazioni ben costruito, e ciò si fa tanto più apprezzare considerando l'apparente banalità della storia. E poi si ride, si ride veramente, senza sforzo, ma con una punta di amarezza, così come si addice alle persone intelligenti. L'interpretazione dei vari caratteri si distingue per la mancanza di sbavature. Buono il pur sempre non felice Placido, eccellente Merli, ottimi Lino Troisi, e soprattutto Tino Schirinzi. Anche Giuliana De Sio, utilizzata purtroppo anche qui per mostrare la coscia, sembra voler dare più di quanto le è concesso. Una menzione va fatta anche della colonna sonora, che è fatta di poche canzonette e di qualche pezzo classico, messi al punto giusto per porre l'accento su un momento, uno stacco. Un film complessivamente buono, dalla regia attenta, senza sbavature ripeto. Ed è tanto in tempi di sbrodolature e di neo-barocchismo.
«Però», si dice tra sé e sé Adalberto Maria Merli, alla notizia che Sciopèn è divenuto il notabile locale. E' un'esclamazione a metà tra il rimpianto dell'occasione mancata (il mancato utile aggancio col potere) e la considerazione (triste) che è «questa gente» che determina le cose che facciamo. Gli incompetenti, i tardi, i lecchini di una volta, te li ritrovi nella commissione d'esame, in uno scranno di Tribunale, in una poltrona parlamentare. E' la selezione a rovescio, che premia non il merito ma il servilismo. Né potrebbe essere altrimenti, come vagheggia qualche ostinato meritocratico. Posta la gerarchia, la si percorre verso l'alto piegandosi alle sue leggi, e queste vogliono una cosa principalmente: che si chini il capo e si pronunci l'ossequio.
Ma c'è qualcosa di nuovo nella composizione e nella condotta della nostra classe politica, che Sciopèn, per quanto con due pennellate, ci segnala. Quando Sciascia scrive che la classe politica italiana ha adottoato il modello mafioso di potere, non si deve subito pensare al lato più spettacolare, direi esterno, del comportamento mafioso: minacce, morti ammazzati, ma alla sua rete di consenso (estesissima) basata sul favore. Il favore fa si che il potere si capillarizzi, sia dappertutto, e che essendo in tutti (perché tutti ne approfittano) sia inattaccabile. E' potere totale, perché il consenso è totale (in ogni luogo, in ogni testa). Se il posto di lavoro, la concessione edilizia, la licenza, il trasferimento, divengono oggetto di contrattazione politica (il voto o la tessera contro quel certo provvedimento), se insomma ogni evento un minimo importante della vita di una persona qualunque passa attraverso le forche caudine del favore, il potere si allarga a dismisura e si fa tutti (i beneficiati) complici. Se io accetto la mediazione politica per il «posto», come potrò domani rivoltarmi contro di essa o solo sentirmene distante? La società si corrompe, perché il potere possa infine esclamare «chi è senza peccato scagli la prima pietra».
Nella provincia descritta da Sciopèn quest'intreccio di favori, di «amicizie», è più evidente, più radicato che nella grossa città (dove pure esiste, eccome). Nei paesi del Sud, dove da sempre si procede per favori, la nuova classe politica ha trovato la sua roccaforte. Constata l'ineffabile Scalfari, commentando l'ultimo risultato elettorale, che la DC è ora solo un partito agricolo, forte in privincia e debole nelle metropoli, e da questo dato deduce la sua obsolescenza. Ma quello (l'essere «agricolo», «meridionale») è, invece, il segno della modernità del partito cattolico. Sono i De Mita, i Gullotti, i Gava, i Gioia, casi lapalissiani di selezione a rovescio e della novità (mafiosa) della classe politica italiana. Gullotti è un po' più anziano di Sciopèn, e molto meno brillante e istruito. Ma quale esempio magnifico, unico forse, di selezione a rovescio. Cuoco, di modesta estrazione sociale, privo di ogni spessore culturale, egli ha un impero laggiù nella Sicilia che qualche veneto buontempone desidera dare in pasto all'Etna. Non fa discorsi in piazza, non scrive (chi sa poi se legge) articoli, tantomeno libri, ed è Ministro dei Beni Culturali. Però ...