Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 13 nr. 109
aprile 1983


Rivista Anarchica Online

Più donne che uomini o più uomini che donne?
di Collettivo "Le scimmie"

Cercare risposte al nodo del dominio, al suo instaurarsi, individuare i percorsi di un'asimmetria (tra l'uomo e la donna) presente da millenni che informa l'immaginario umano sono, come già detto sul numero A 107, i punti focali della ricerca intrapresa dal collettivo «le scimmie». Ricerca che non vuole, però, essere a sé, scollata dal presente e dalle sue contraddizioni. Ecco perché l'uscita del documento «Più donne che uomini» sul numero speciale di Sottosopra di gennaio, opera di un gruppo di donne che fanno riferimento alla Libreria delle donne di Milano e il dibattito che ne è seguito, hanno stimolato le compagne del collettivo ad elaborare una risposta.

Le illusioni sono dure a morire! Lo dimostra ancora una volta il successo tributato al recente documento di un gruppo di donne: «Più donne che uomini». Ha raggiunto subito gli onori della cronaca, salutato come un punto fondamentale dell'analisi femminista di questi ultimi anni, del ripensarsi donna ora, considerato la prova che il movimento delle donne ha superato la crisi e sta uscendo dal tunnel del lungo impasse con una nuova coscienza, una nuova sensibilità al sociale. E' la nuova bibbia femminista, la chiave per scoprire i problemi nascosti, le contraddizioni del vecchio femminismo.
Purtroppo è stato solo un'altra occasione mancata!
L'occasione di ripensarsi donna attraverso il disagio, l'estraneità che si prova nella società, un'analisi che pur uscendo dai soliti schemi vittimistici si è risolta invece nella ricerca della conquista del potere. Ma è proprio l'occasione mancata il segno più importante, la dimostrazione dell'incapacità/non-volontà di cercare altri schemi, o ancora peggio, il tentativo di cancellare quei concetti, quelle idee al di fuori della logica del dominio «ereditati dai movimenti giovanili», per rientrare sicure nel grande alveo dell'establishment. Dove l'unico gioco che si gioca è il gioco del potere, la vittoria ad ogni costo.
Eppure l'approccio era centrato, vicino al cuore e alla pelle di tutte: si parte dal disagio di essere donna nella nostra società. Un'esperienza che molte possono sottoscrivere, che ci tocca profondamente. Disagio, goffaggine, estraneità che, si sottolinea giustamente, nascono da cause più interne che esterne, da una vera e propria incapacità di essere, di sentirsi in sintonia con questa società.
Finalmente, ci siamo dette, si rinuncia a nascondersi dietro l'alibi del vittimismo a tutti i costi, della continua discriminazione sociale, fantasma esorcizzatore di problemi ben più gravi e profondi: «Il discorso della discriminazione tace una parte della nostra effettiva esperienza, e cioè che la nostra difficoltà non viene solo (non viene essenzialmente) dall'impedimento esterno, bensì da una nostra voglia di affermazione sociale che scontra la sua stessa enormità: enorme, abnorme, non perché sia in sé più grande del dovuto ma semplicemente perché non trova modo di soddisfarsi».
Ma da questo punto il discorso si fa sempre più estraneo, sempre più legato a schemi culturali diversi dai nostri. La voglia di affermazione diventa: «voglia di vincere. Vincere nel mondo su tutto ciò che ci rende insicure, instabili, dipendenti, imitatrici». Voglia di vincere, di affermarsi. Su cosa e chi non viene mai detto, ma è fin troppo chiaro: voglia di vincere sugli uomini, sul maschio, voglia di appropriarsi della società, in un desiderio di vendetta, di conquista, di potenza.
Quello che manca è invece la progettualità complessiva di una società dove il disagio di essere donna non esista più, una società in cui schemi diversi recuperino il patrimonio perduto della donna e dell'uomo. Una progettualità che richiede già da ora l'analisi degli schemi culturali che ci legano, che condizionano il nostro pensiero.
Una ricerca difficile perché fatta dall'interno dello stesso condizionamento, ma possibile proprio per lo scarto che ci colpisce, il nostro impossibile adeguamento ad uno schema che non ci appartiene.
L'estraneità a questa società esiste: è una realtà che non può essere cancellata perché è vissuta da noi tutte, seppure in maniera diversa a seconda degli strumenti culturali che ogni donna possiede, del suo status sociale, ecc. (ma questo è un discorso che rimandiamo al punto in cui parliamo della diversità/disparità). L'analisi che viene fatta di questa estraneità, di questo disagio ci sembra assolutamente riduttiva e di comodo e si basa sul fatto «di essere e avere un corpo di donna».
Si concretizza il disagio, lo si lega al corpo, alla sessualità, lo si materializza e nello stesso tempo si cancella la sua importanza, il suo essere un analizzatore.
«Lo scacco si produce - ci dicono le autrici - perché l'essere donna con la sua esperienza e i suoi desideri, non ha luogo in questa società, modellata dal desiderio maschile e dall'essere corpo di un uomo».
Tutto ciò spiega poco. E' vero che le aspirazioni, i desideri delle donne prendono spesso immagini, fantasmi maschili. Ma questo non è certo dovuto al corpo, uomo o donna che sia. E' nel nostro immaginario, nel simbolico, questo sì tutto modellato al maschile, che la donna si ritrova persa, mutilata. E' da qui che discende il profondo disagio di vivere in una società di cui noi non abbiamo prodotto e non possiamo produrre l'immaginario. Nel nostro simbolico, oggi come ieri, la donna è solo il segno, alterità di uno spazio il cui centro è il maschio; anche l'essere/avere corpo di donna/uomo è mediato dal simbolico, poiché l'essere umano è incapace di pensare, di percepire al di fuori di costruzioni simboliche collettive. E' attraverso l'immaginario che si è donna/uomo, che ci si percepisce come tali ed è sempre attraverso questo che la differenza diventa valore. E la sessualità non è forse il luogo principe del simbolico, non è forse sempre mediata attraverso simboli culturali? Non è forse il luogo dove impera l'immaginario maschile? Dove esiste solo «la donna, mitica figura creata culturalmente». Ridurre quindi il disagio profondo, il senso di estraneità al solo corpo e alla sessualità è in fondo non accorgersi o non volersi accorgere delle implicazioni profonde di una cultura che non è nostra e che ci relega ad essere solo e unicamente segni. Ed è proprio questa riduzione, questa mutilazione a tenerci totalmente immerse nel simbolico esistente, a renderci incapaci di immaginare noi stesse e il mondo diversi, «altri» dalla realtà.
Trovare le soluzioni all'interno dello schema esistente è sempre possibile, forse anche di qualche gratificazione, ma certo inutile in una visione più ampia. La rottura deve avvenire là, al centro, dove nascono i nostri pensieri, dove si producono gli schemi per capire il mondo, là si deve agire, là bisogna rompere il cerchio.
Altrimenti la soluzione è quella posta dal documento: «In pratica si tratta di costituire il gruppo separato di donne anche quando e dove siamo alla ricerca di esistenza sociale, per interrogare l'esperienza dello scacco, riconoscere la voglia di vincere e dare avvio alla lotta per stare al mondo con agio». Il rientro nel gruppo separato delle donne, accogliente difesa del ghetto, rassicurante nel suo isolamento e, nello stesso tempo - qui è una delle novità del documento - punto di forza per partire alla conquista del mondo. «La separazione è uno strumento di lotta e non una sistemazione dei rapporti uomo-donna ... La difficoltà maggiore che ci sta davanti è che ci manca un mondo comune delle donne».
La separatezza è considerata una necessità primaria. Bisogna costruire un mondo comune delle donne rifiutando ogni confronto aperto e/o segreto con gli uomini. Chiarissima la posizione di Lia Cigarini, una delle autrici, che spiega: «Il documento afferma proprio il contrario del confronto. Per avere interezza, noi diciamo, smettiamo ogni confronto aperto e segreto con gli uomini. La proposta che fa il documento è il gruppo separato delle donne in ogni rapporto sociale, non solo il gruppo separato che si riunisce a parte, ma che in ogni situazione, in ogni attività si faccia un riferimento privilegiato alle nostre simili. Avere quindi attenzione per le proprie simili e pochissima attenzione per quello che fanno gli uomini».
Separarsi dagli uomini, sfuggire a qualsiasi confronto, ma perché? Di cosa dovremmo avere paura? Come può il confronto con gli uomini nuocerci tanto da dover essere bandito?
E' forse l'antica paura del diverso, dell'altro, che condiziona il pensiero? Paura di chi con la sua sola presenza testimonia l'esistenza di valori differenti, di sistemi di riferimento diversi. La prova della relatività dei sistemi culturali, della possibilità di fare riferimento a valori, concetti «altri» quindi anche la dimostrazione dell'arbitrarietà dei nostri. Il diverso mette in gioco la nostra sicurezza, ci svela il segreto primo della cultura: le regole sono sempre discutibili perché sono sempre arbitrarie.
Allora perché rifiutarsi ad un confronto/scontro che significherebbe mettere in discussione la cultura al maschile, presentarle valori diversi, svelare le regole del gioco?
A meno che l'insicurezza profonda non sia dovuta alla sensazione che, nel raffronto, il nostro sistema di riferimento si rivelerebbe, purtroppo, ancora e solo maschile.
Se una possibilità reale di cambiamento esiste non è certo nel mondo di sole donne, che prefigura semplicemente una società fondata sugli stessi valori di quella attuale, bensì nel confronto/scontro continuo con il diverso da noi, cioè l'uomo, perché solo accettando la diversità riusciremo a ritrovare la parte di noi scomparsa tanto tempo fa ed a reinventare la nostra capacità perduta di produrre cultura, riusciremo a creare un mondo dove donne e uomini siano contemporaneamente produttrici/ori di significati, in un equilibrio mai definitivo ma sempre ricercato.
Il mondo che esclude il diverso è solo un mondo di donne a metà; un mondo di donne che agiscono, vivono insieme per vincere non ci interessa.
Ma per le autrici un puro e semplice isolamento non basta, bisogna combattere e vincere gli uomini con le loro stesse armi. E non ci si accorge neppure che questo vincere è già una sconfitta perché a vincere sarebbe solo e unicamente l'universo simbolico maschile, con i suoi valori, le sue valenze, le sue simbologie.
Non è un caso che immaginarie popolazioni di sole donne, crudeli e vendicative, pronte a schiavizzare il maschio abbiano riempito gli incubi degli uomini da tempi immemorabili. La donna percepita come potenza pericolosa, misteriosa, diventa l'Amazzone guerriera invincibile, diventa la Venusiana che rende schiavi gli uomini o la Babilariana che ha un harem maschile per soddisfarla. Una donna che è sempre maschile, guerriera, vendicatrice, potente, svelando così la sua funzione esorcizzatrice della donna reale temuta perché legata alla natura e ai suoi cicli e forse anche invidiata per la sua misteriosa, agli occhi degli uomini, capacità di generare.
Ed alla fine è proprio per non essere riuscite ad analizzare i meccanismi culturali, per essere rimaste completamente immerse nello spazio simbolico maschile che si accettano, si fanno propri, seppure ribaltati al femminile, i sistemi gerarchici.
Infatti non basta unirsi tra donne, il nuovo gineceo , ha bisogno anche di: «...rapporti diversificati e forti, dove, salvaguardato l'interesse minimo comune, il legame non sia più solo la difesa dell'interesse minimo comune; rapporti dove le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia. Le diversità prendono forma di vere e proprie disparità e il riconoscimento della disparità si fa con un'attribuzione di valori. E non un valore astratto, ma la valorizzazione di un'altra, di una propria simile».
E' qui che troviamo il nostro rifiuto per un linguaggio, per un immaginario che non ci appartiene né come donne, né come anarchiche. C'è proprio al fondo un modo diverso di intendere le cose che ci separa; siamo diverse anche nei confronti di alcune donne.
Non è accettabile per noi la spiegazione di una delle autrici: «Ecco io sono convinta che il semplice spostamento di riconoscimento verso un'altra donna che è qualcosa più di te, sia già un enorme sommovimento. Perché io non credo che si possa essere completamente autosufficienti: se non fai riferimento di valore a una donna lo fai ad un uomo. Non penso che si possa essere completamente indipendenti nella vita, non solo lavorativa ma anche affettiva, così intrecciate. Allora io rispondo a quelle che hanno paura delle gerarchie: ci sono di fatto, agiscono anche tra di noi, spostare il riconoscimento di valore, l'attribuzione di valore ad un'altra donna è già molto, mette in moto tante cose nella società».
Questo è il nodo centrale. L'incapacità perfino di pensarsi come esseri liberi e autonomi. Non si riesce neppure ad immaginare la possibilità di rapporti tra liberi e uguali. Appare fin troppo evidente l'interiorizzazione del dominio che informa l'immaginario: l'interdipendenza dei rapporti sociali diventa sottomissione, tutto si riduce ancora una volta alla relazione comando/obbedienza. Le gerarchie, in quanto presenti nella società, sono accettate, rese ineluttabili, se ne può aver paura, ma non si possono rifiutare.
Se si volesse sostenere la necessità di riconoscere la diversità anche fra donne non potremmo che essere d'accordo. Ma il nostro modo di considerare la diversità è evidentemente molto diverso dal loro: la diversità che a noi preme salvaguardare è quella che deriva dal fatto che ogni individuo, donna o uomo che sia, è unico e irripetibile, che uniche e irripetibili sono le storie, le esperienze, le reazioni, le inclinazioni, i campi di interesse. Riconoscere ed anzi ritenere importante la diversità significa anche riconoscere nell'altra/o una maggiore preparazione o una maggiore capacità in qualche campo specifico, ma senza che questo significhi tout court l'affidamento, la delega di potere, come invece le autrici prospettano. Perché invece, per noi, riconoscere la diversità dell'altra/o significa anche un rafforzamento della nostra identità, della nostra sicurezza. La diversità dell'altra esalta la nostra diversità.
Ma la diversità tra donne può anche essere individuata su altri piani, mai chiariti all'interno del movimento delle donne: sul piano sociale ad esempio, vi sono donne «femministe» che continuano a farsi mantenere dal marito, donne che sfruttano altre donne (cameriere, governanti, ecc.), donne che non si pongono minimamente il problema di un minimo di coerenza nella vita quotidiana. Ebbene questo tipo di diversità è quello che dovrebbe far meditare. Perché se si tratta di costruire la possibilità di un mondo diverso, e per noi si tratta proprio di questo, queste donne come compagne di strada non le vogliamo, non crediamo che possano dare alcun contributo.
Quello che sembra premere alle autrici invece è che la nuova società delle donne vinca, da qui la necessità di ricercare criteri meritocratici, premiare l'efficienza e condannare l'incapacità; allora la pratica della disparità diventa preziosa, diventa un metodo per ottenere la vittoria.
L'efficienza, ci insegna la società maschile, si fonda sulla gerarchia, per cui se si vuole vincere bisogna accettarla: «Stiamo forse proponendo di riprodurre nei nostri rapporti le gerarchie dell'essere di più/di meno che giustamente detestiamo perché nella società ci vedono perdenti? La risposta non può essere: sì e no. Sì, perché bisogna pur rompere un regime di parità tra donne che è basato sul disvalore dell'essere donna. La parità tra noi ha radice nell'insicurezza profonda di ciascuna, tant'è che di fatto non impedisce la sottomissione alle gerarchie in vigore nella società. Ma anche no, perché il di più che determina una differenza tra donne, dà spazio ad un rapporto in cui circolano amore e stima, insieme».
Non solo si ripropone candidamente la gerarchia, ma la si ammanta di paternalismo (o maternalismo). Il riconoscere valore ad un'altra donna vuol dire specchiarsi in lei, valorizzarsi di riflesso. Tutto ciò ricorda fin troppo bene la retorica patriottica per cui il povero bracciante si riconosce, attraverso la patria, nel grande eroe o nel generale. Del resto se non si trova spiegazione migliore per rifiutare la gerarchia che il fatto che ci vede «perdente»! Una volta che siano ribaltate a nostro favore, viva le gerarchie!
Si ritorna ai soliti schemi maschili, ed è perfino patetico il cercare di razionalizzarli attraverso recuperi freudiani del rapporto materno: «Riconoscere che una nostra simile vale di più spezza la regola della società maschile secondo cui, tolta la madre, le donne sono in definitiva tutte uguali. La lotta contro la società patriarcale vuole che diamo forza attuale, nei nostri rapporti a quell'antico rapporto, nel quale per una donna potevano esserci fusi insieme, amore e stima. Nella madre infatti lei aveva, insieme, il primo amore e il primo modello». Un complesso edipico ribaltato che nel rapporto con la madre costruisca il proprio super-io.
Tutto uguale. Una semplice traslazione d'assi per ritrovarsi la stessa figura, lo stesso schema sepolto nei meandri del nostro cervello.
E' indicativo infatti come per costruire un nuovo modello di donne si tornino a proporre concetti tipicamente maschili, anzi ancor più strettamente economici: «...commerci sociali... un'attribuzione di valore ... voglia di vincere, conquistare, guadagnarsi». Linguaggio maschile, ma ancor di più linguaggio della nostra società, con i suoi concetti, i suoi valori. Si rimane all'interno del modello gerarchico maschile, senza vedere dove è il problema. Si può così passare da un argomento all'altro senza mai chiedersi, neppure per un attimo, da dove venga il desiderio di obbedienza che gli esseri umani, ma in particolare le donne, portano dentro di sé, perché mai si accetti di subire il dominio. Senza mai soffermarsi sull'immaginario, sul perché sia solo al maschile, sul perché si sia perso un immaginario al femminile, sul come rompere questo cerchio che ci impedisce perfino di pensarci se non attraverso l'uomo.
E' ancora la solita vecchia storia della lotta per la supremazia, per il dominio. Cambiare tutto per non cambiare niente.
Forse ci siamo sbagliate: il cambiamento, quello vero, non lo vuole nessuno.