Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 11 nr. 94
estate 1981


Rivista Anarchica Online

Morir per delle idee, ma di morte lenta...
di Gabriele R.

Guardiamo un attimo in faccia la realtà, senza perciò piangerci addosso. Siamo in una situazione di stallo o se vogliamo di riflusso. Anche se la risposta migliore sembrerebbe: "Rimbocchiamoci le maniche e cominciamo a fare" è giusto cercare obiettivamente le cause di questa mancanza di incisività. Anche perché rimboccarsi le maniche senza sapere esattamente cosa fare non serve a niente. Il problema è complesso e non privo di possibili lati polemici, del resto se non si decide di spingere verso una ricerca di chiarezza e contemporaneamente di idee si continuerà da una parte a sentire sempre di più il peso del sistema sulle nostre teste e dall'altra a lanciarci in proclami, volutamente velleitari, che restano lettera morta. Siamo di fronte a una realtà sociale sempre più invischiata nelle sabbie mobili di un sistema ogni giorno più arrogante e repressivo. Sistema che riesce a coniugare la sua sempre maggiore corruzione e inefficienza con un consenso, attivo o passivo, sempre più in crescita. Sistema che riesce a far ciò attraverso un uso ormai scopertamente strumentale dei mass-media. Attraverso una capillare repressione del dissenso. Attraverso una pace sociale imposta dai sindacati che mette a tacere ogni forma di lotta. Attraverso il controllo della cultura e delle coscienze ottenuto con la massificazione degli individui e dei loro valori esistenziali. Di fronte a questa realtà il movimento anarchico è praticamente inerte e inerme. Vuoi per la mancanza di strumenti adatti a incidere su di essa. Vuoi per il rifiuto di partecipare al coro asinino dei mass-media, accettando cioè le regole di comunicazione da società dello spettacolo dove vince chi ha la voce più forte o più "strana" (tipo una voce calibro 9). Vuoi per l'incapacità e a volte il rifiuto dei compagni di organizzare in termini reali ed effettivi (quindi non più puramente simbolici) il famoso "esempio dei fatti". Il movimento si trova nell'incapacità di incidere sulla realtà per svariati motivi che esamineremo più a fondo in altra occasione. Quello che risulta, però, come effetto di questa situazione è la sempre maggiore divisione in ruoli dei compagni che compongono il movimento. Divisione da analizzare sotto diversi aspetti.
Il primo è quello della tendenza alla delega da parte di larghe fasce del movimento. Delega che abbraccia tutti gli aspetti della militanza anarchica: da quelli organizzativi a quelli della stampa, da quelli pratici a quelli dell'elaborazione delle idee. Senza voler entrare nel dettaglio è chiaro che questa delega, conscia o inconscia che sia, è un elemento non indifferente di frattura tra da una parte chi si fa carico di iniziative e dall'altra chi ne fruisce. Come si sia arrivati a questa situazione è un discorso complesso. Quello che si può dire, secondo me, è che si è contribuito da una parte e dall'altra alla creazione di questa discrepanza. Restano comunque questi ruoli che, assegnati o arrogati, sono causa di rallentamento o all'opposto di velleitari voli pindarici, sempre e comunque alquanto disgiunti dalla realtà. Uno di questi ruoli è quello dell'intellettuale. C'è da dire subito che rispetto all'immagine stereotipata, ma quasi sempre reale, dell'intellettuale affine al sistema, l'intellettuale che si muove all'interno del movimento anarchico è una figura sui generis quasi mai identificabile in personaggi determinati. Bisogna dire piuttosto che la nostra analisi e la nostra critica si devono muovere sul piano dell'identificazione di un ruolo e dei suoi modelli di comportamento. In pratica il ruolo dell'intellettuale è un elemento che emerge in varie situazioni e in vari comportamenti comuni ai compagni, cioè è più un fantasma che aleggia su tanti momenti che una figura fisica ben identificabile, come qualcuno vorrebbe invece far credere. Si tratta quindi di identificare tutte quelle componenti, quelle situazioni, quegli stereotipi che lo caratterizzano.
Innanzitutto chi è un intellettuale? Un approfittatore che finge di essere un rivoluzionario per esercitare un'egemonia, difendere i suoi privilegi, dar sfogo alle sue frustrazioni di masturbatore mentale, dimostrare la sua superiore intelligenza? Oppure è qualcuno che privilegia l'analisi teorica a scapito della relativa azione? O qualcuno convinto che non ci si possa affidare allo spontaneismo e all'improvvisazione e che quindi si pone nell'ottica di elaborare un progetto a cui attenersi e sul quale lavorare? Forse è tutte queste cose assieme. Esistono comunque degli aspetti di questo ruolo che ne delineano meglio i connotati. Il primo è quello del ruolo di "analizzatore della realtà" sociale, politica o esistenziale che sia. Si può analizzare la realtà per vari motivi: per trovare una via su cui muoversi con iniziative opportune, o per cercare di conoscere lo sviluppo e l'evoluzione del potere in tutti i suoi aspetti e per cercare di combatterlo con armi adeguate, oppure per cercare di identificare quegli aspetti "anarchici" del sociale su cui premere perché da passivi diventino attivi. Infine si può analizzare la realtà perché "investiti" del ruolo di "analizzatori" generici o specializzati. Questo ruolo (qui il discorso riguarda soprattutto la stampa) è spesso frutto di una delega: "Te che sei il più intelligente, che sei il più preparato, che sei il più... anarchico". Resta però il fatto che quasi mai vi è un rifiuto, da parte di chi ne è investito, di vestire questi panni. Per cui, per esempio, la stampa anarchica rischia di diventare un piccolo mass-media, in parte per la delega da parte di chi la legge, in parte per l'investitura di analizzatore che riveste chi la fa. Succede così, spesso, che chi si pone nell'abito di analizzatore della realtà si trova davanti a un bivio: o diventare "commentatore" della medesima qualunque essa sia (interna al movimento e alle sue tematiche o riguardante il potere e le sue strutture) o diventare "produttore di idee". Analizzare la realtà per commentarla ha un aspetto negativo che si presenta sotto vari aspetti. Uno è quello del giornalista cioè di chi si limita a riportare la notizia, ne fa la cronaca ecc. il che funziona benissimo sotto un'ottica da Espresso o da Panorama (i fatti separati dalle opinioni, sic) ma che diventa sintomatico rispetto alla comunicazione libertaria nel momento in cui si affida a qualcuno e non ai diretti interessati (chi fa le lotte, chi è coinvolto nel fatto ecc.) il compito di riportare in una determinata "forma" la notizia. Questo però è il meno, i guai cominciano quando da questa analisi il nostro "commentatore" ne trae delle indicazioni metodologiche. Cioè indica (spesso in perfetta buona fede) "come si fa". Ora sarebbe stupido accusare di leaderismo chi ritiene valida una soluzione e la propone. Se però si tiene conto dell'atteggiamento passivo di parte dei compagni rispetto alla stampa, ne risulta un'immagine di "fornitrice" di proposte ed idee e non di "proponitrice". Questa distorsione fa sì che ciò che era proposta diventi prassi da scegliere o da rifiutare. L'analisi diventa affermazione e soprattutto si cade in una situazione di scontro-raffronto di prassi varie proposte dai vari giornali di movimento che, guarda caso, si vuole sempre rappresentanti e/o portavoce di questa o quella tendenza. Dall'altro se ci si sposta su un piano più "teorico" cioè di analisi più generale e più vasta della realtà ecco che il "commentatore" diventa "produttore di idee", cioè colui che si occupa dell'elaborazione teorica, filosofica e politica del pensiero anarchico. Qui il ruolo diventa sotto certi aspetti ancora più antipatico. Quel che è certo è che si avverte la mancanza di un progetto anarchico. Se da una parte è un bene che non esista dato che non abbiamo bisogno di vangeli, di vademecum o di verità rivelate e precotte; dall'altra ci si trova spesso a non aver risposte immediate e precise per i problemi presenti o futuri che ci si pongono. Finendo per accodarci alle tematiche in voga in quel momento, sforzandoci di dare una risposta anarchica alle stesse. Chi però ritenendo ciò una grave lacuna, si appresta a impegnarsi su questa strada di studio, approfondimento ed elaborazione delle idee si vede spesso bollato con vari appellativi: cattedratico, vate, spacciatore di verità, intellettuale appunto.
Si rovescia così in senso negativo una tendenza e un bisogno che dovrebbe essere generale negli anarchici: il bisogno di emancipazione. Bisogno che si può soddisfare solo attraverso degli sforzi notevoli e una continua tensione verso la ricerca mentale, senza voler fare con ciò della retorica. Del resto l'accusa che più spesso si sente rivolgere ai compagni che indirizzano i loro sforzi in questa direzione è quella di essere dei privilegiati, di essere dei borghesi con tanto tempo da perdere e la pancia bella piena. A parte che già la superficialità dell'accusa dice quanto sia facile lanciare il sasso e nascondere la mano, per nascondere invece la propria non voglia di uno sforzo emancipativo serio, io voglio invece rovesciare la questione dicendo che sono ben contento che ci siano dei compagni che possono dedicare più tempo o tutto il loro tempo alla ricerca, all'elaborazione delle idee, a patto che non pretendano di farlo anche per me. Perché se da una parte rifiuto la logica di chi dice che può impegnarsi in questo sforzo solo chi ha "borghesemente" risolto i suoi problemi più impellenti, dall'altra rifiuto la logica (tipica del ruolo di intellettuale) di chi accusa i compagni stessi e la loro "pigrizia" di essere l'unica causa della propria mancata emancipazione. Mi ricorda troppo da vicino la logica (da salumaio) di chi dice che non lavora solo chi non ha voglia di lavorare. Del resto questo ruolo di "produttore di idee" rischia di generare uno spirito di superiorità che emerge da certi elementi, il più evidente di questi è il linguaggio. Sono disposto ad accettare l'affermazione di chi ritiene che ad argomento difficile e tecnico è quasi impossibile che non corrisponda un linguaggio difficile, ma non accetto la facilità con cui si scarica su chi legge il compito di capire. In nome di un preteso sforzo di emancipazione che deve passare per una ricerca mentale e pratica di nuovi vocaboli e nuove forme di espressione. Non l'accetto, perché in realtà non esiste un linguaggio e un codice di lettura omogeneo che si potrebbe chiamare "intellettualese". Bensì ogni intellettuale ha un suo linguaggio ed un suo uso particolare dei termini che costringono chi legge a rompersi palle e meningi. Sotto questo punto di vista è chiara, secondo me, la non volontà di ricerca di un linguaggio comprensibile ai più. Rovesciando l'affermazione precedente, è chi scrive che deve fare uno sforzo per farsi capire e non viceversa. Altrimenti non può non nascere in me il sospetto che esista una componente narcisista e se vogliamo razzista in chi scrive, che vorrebbe divisi i compagni e la gente in genere tra chi "può" capire e chi no.
Esiste una prassi anarchica di analisi della realtà? Una prassi che permetta di comunicare le idee e la rivolta che contengono in modo orizzontale cioè comprensibile e soprattutto avente qualche aspetto "pratico" vale a dire collegabile con quell'"esempio dei fatti" di cui si parlava all'inizio? Non c'è secondo me una regola ed è un bene, ma guardando gli aspetti negativi di varie prassi in uso si possono trarre delle conclusioni utili. Il problema della concomitanza del pensiero con l'azione, della stretta connessione tra le due cose è un problema che può mandare assolti tutti, dipende da che ottica lo si guarda. Perché se da una parte è vero che organizzare un convegno non è altro che l'azione generata dal bisogno di portare la comunicazione della rivolta all'esterno, dall'altra non si può non chiedersi quale sia la forma migliore perché questa comunicazione avvenga e se lo strumento sia o meno valido. Altrimenti si rischia di cadere nell'ecumenismo (che ha come caratteristica il linguaggio da iniziati) o nel velleitarismo modello garrire di bandiere, o peggio nel puro divertimento mentale (qualcuno direbbe divertissement). Del resto la comunicazione della rivolta è strettamente legata alla realtà sociale, perché possa essere frutto di uno sbocco pratico.
Sono d'accordo con Amedeo Bertolo quando dice nell'editoriale che compare sul numero del 2° trimestre 81 di Volontà che occorre creare una "cultura antistatale". È proprio in questi termini che bisogna analizzare la mancanza di incisività del movimento anarchico, cioè perché non si riesce a generarla e ingenerarla questa "cultura antistatale". Il ruolo dell'intellettuale ne è, secondo me, una delle cause e allo stesso tempo un prodotto. Gli stessi contenuti proposti vanno continuamente verificati nella forma e nella sostanza per non rischiare appunto di sprecare energie, o di risultare incomprensibili. Si possono identificare, a mio avviso, due forme di intellettualismo più o meno evidenti. La prima, che definirei intellettualismo cinico, è quella di coloro che partendo dall'analisi della realtà sociale, si lanciano nell'elaborazione del pensiero anarchico su basi sempre meno legate alla realtà immediata, e sempre più legate alla realtà che essi prevedono verrà. Lavorando quindi sempre più su un piano teorico generale (per grandi temi) e "sperando" di ancorare questa ricerca alla realtà attuale con la richiesta da parte degli sfruttati di emancipazione. I rischi in questo senso sono tanti. Si rischia di cadere nel gioco funzionale al sistema e quindi improduttivo del "raffronto democratico delle idee" dove l'anarchismo diventa un ideale come un altro, più o meno rivoluzionario a seconda dei casi, con le sue risposte già pronte ai vari problemi (generali). Si rischia di andare sempre più al largo nel mare delle idee fino a scomparire all'orizzonte. Si rischia di diventare "fauna protetta" (e inoffensiva) funzionale al sistema, come esempio vivente di pluralismo democratico (sic). Peggio si rischia di diventare avanguardia involontaria del riformismo elaborando adesso (spesso pagando di persona) le idee che domani, opportunamente spurgate dai loro contenuti rivoluzionari, saranno cavallo di battaglia delle varie forze politiche che compongono il sistema di potere. La seconda forma, invece, la definirei di intellettualismo velleitario. È quella di coloro che, rifiutando per certa l'elaborazione di un progetto, pongono come unico aspetto (unico o prioritario) della lotta anarchica lo scontro con lo stato e il suo abbattimento. Rifiutando ogni tentativo di elaborazione teorica delle idee, bollando questi tentativi come intellettualistici o come tendenti a creare egemonia politica e culturale. Semplificando il discorso, lo stato non è visto come un ostacolo (senz'altro il più grosso) sulla strada della costruzione di una società anarchica, ma come l'antagonista, l'opposto egemone da distruggere innanzitutto. Quindi ci si butta a capofitto in tutti quegli argomenti che hanno il sapore e l'aspetto di questo scontro. Spingendo alla demonizzazione idealizzata dello stato stesso (che ormai non concede più spazi, che è sempre più repressivo e truce ecc.). Il tutto visto sotto un'ottica di ineluttabilità dimenticando forse che se per noi lo stato è il primo nemico della lista per lui noi siamo un problema abbastanza... marginale. Questo scagliarsi a testa bassa provoca (data l'enorme sproporzione di forze) una forma di intellettualismo velleitario che si esplicita in dichiarazioni cariche di definitivismo, di "indietro non si torna", di manicheismo che se da una parte risulta inoffensivo per lo stato, dall'altra si scarica con violenza quasi teologica contro tutti coloro che sono colpevoli di perdersi in giochi da borghesi annoiati, o di cacciatori di potere, o di degenerazione arteriosa unicamente perché si occupano (in che modo poi) di altri argomenti. Vi è quasi un sacro furore in questi compagni nel difendere le proprie iniziative e allo stesso tempo nel bollare di inutilità quelle degli altri. Furore che credo nasca in parte anche dalla frustrazione di dover restare, così come gli "odiati altri", nel campo del detto e mai realizzato. Salvo gettarsi a pesce su chi qualcosa "realizza" senza andare troppo per il sottile (anche perché di anarchici che "realizzano" ce ne sono pochi) in nome di una pretesa solidarietà alle vittime del sistema. Vittime che spesso, prima di esserlo, ricambiavano questa solidarietà con sonori pernacchi, se non in modo più fisico. Resta comunque il fatto che anche questo aspetto del comunicare la rivolta, rischia di diventare intellettualismo nel momento in cui si sgancia dalla realtà per perdersi anch'esso all'orizzonte nel mare delle idee.
Sono questi, a mio parere, gli aspetti "fuorvianti" dell'intellettualismo che rendono spesso inefficaci queste iniziative. Aspetti che vanno ad aggiungersi ad altri che affronteremo come detto in altra sede. Ho tentato qui di analizzare uno solo di questi aspetti, cioè quello dell'intellettualismo, senza entrare nel merito delle idee proposte. Del resto prima di affrontare l'analisi delle idee non si può non cercare di capire i meccanismi che impediscono a queste idee di propagarsi. In fin dei conti qui non si tratta, come dice il ritornello della canzone di De Andrè, di "Morir per delle idee, ma di morte lenta...", ma di trovare i mezzi migliori, liberati da tutte quelle sovrastrutture di cui l'intellettualismo fa parte, per cominciare a metterle in pratica.