Rivista Anarchica Online
Un'utopia imperfetta
di Avraham Yassour
Nell'ottobre '78 si è tenuto negli Stati Uniti (e precisamente ad Omaha, nel Nebraska) un
Convegno di studi sulle utopie e sulle comuni. In queste pagine pubblichiamo la relazione
presentata dall'israeliano Avraham Yassour, che insegna all'Istituto di ricerche sul kibbutz e
sull'idea cooperativa dell'Università Monte Carmelo di Haifa. Dello stesso autore abbiamo
pubblicato due saggi sul numero di marzo di "A" ("kibbutz tra passato e futuro" e "democrazia
diretta e assemblea"); un altro è apparso sul primo numero del 1980 della rivista anarchica
trimestrale Volontà ("L'apprendista stregone").
Il kibbutz è una comune basata su un'idea socialista. Il kibbutz opera come un'unità
socio-economica compatta e organica, che s'incarica della produzione e della riproduzione dei valori
materiali e "ideologici" e garantisce la distribuzione dei compensi materiali su basi egualitarie. "Il kibbutz
è una libera associazione di persone finalizzata all'insediamento, all'assimilazione e
al mantenimento di una società collettiva organizzata in base ai principi della proprietà comune,
del lavoro volontario e della cooperazione in tutti i settori della produzione, del consumo e
dell'istruzione.... Il kibbutz provvederà a tutti i bisogni materiali, sociali e culturali dei suoi
membri.... La soddisfazione di questi bisogni avrà luogo tenendo fede al principio del consumo
cooperativo e dell'uguaglianza dei diritti e delle condizioni di vita, in conformità alle norme e
alle procedure stabilite dal kibbutz stesso." (Da: The Kibbutz-Society Regulations)
Cerchiamo di eliminare ogni disuguaglianza, ovvero le disuguaglianze sul piano educativo,
sociale, economico e politico, derivanti dalla distribuzione del potere e dei privilegi. Uguale
rispetto per tutti i bisogni dell'uomo, pur salvaguardando le differenze e le preferenze individuali
- questa è la nostra interpretazione della concezione marxista di una futura società socialista,
nella quale siano abolite le classi (o i differenti status sociali). "Il lavoro è divenuto non più
un
semplice mezzo di sussistenza, ma una necessità vitale primaria; le forze produttive si sono
sviluppate di pari passo con lo sviluppo globale e complessivo dell'individuo, e tutte le sorgenti
del benessere cooperativo sono ora più copiose" - alla Fourier: nella comunità dei kibbutz
non
esiste tensione tra uguaglianza e libertà (de Toqueville), ma piuttosto tra l'impegno a soddisfare i
bisogni individuali e la capacità materiale del kibbutz di farlo. Per i membri del kibbutz,
l'uguaglianza è il diritto assoluto di ogni essere umano di "svilupparsi in modo completo". Questa
non è una condizione preliminare e necessaria alla libertà e alla solidarietà, bensì
un modo per
minimizzare (e alla fine abolire) tutte le disparità materiali e politiche e tutte le ricompense
simboliche che competono ai diversi status sociali. La differenza di status, di benessere e di
potere sarebbe causa di tensioni e di distorsioni. Una sostanziale uguaglianza ci consente di
continuare a spartire il benessere e il potere, evitando nel contempo la burocratizzazione e la
meritocrazia, che rischierebbero di contaminare la nostra vita comunitaria democratica ed
egualitaria in un ambiente ostile. Il kibbutz ha caratteristiche socio-anarchiche. Mentre dobbiamo sicuramente
dare inizio alla
"lunga marcia" per eliminare la disuguaglianza, le differenze di status, le disparità nel campo
dell'occupazione e con riferimento al sesso e all'età, non è facile, credetemi, promuovere la
necessaria rigenerazione della società moderna, dallo sfruttamento all'uguaglianza, soprattutto
quando a questo tentativo si unisce l'impegno a riportare a nuova vita il popolo ebraico. Martin Buber distingue
tre forme di cooperazione: le cooperative di consumo, le cooperative di
produzione e il Vollgenossenschaft, che tradotto significherebbe "cooperative globali, piene",
fondato sull'"unione della produzione e del consumo". Seguendo le orme del suo amico, il troppo
trascurato pensatore anarchico Gustav Landauer, Buber afferma (nel suo Sentieri in Utopia): "Se
il principio della ristrutturazione organica della società deve diventare un fattore determinante,
l'influenza della "cooperativa globale" si renderà necessaria, poiché in essa la produzione e il
consumo sono uniti e l'industria è complementare all'agricoltura. Per quanto tempo sia
necessario alla "cooperativa globale" per diventare la cellula di base della nuova società, è
essenziale che essa cominci fin d'ora a costituirsi come un complesso assai più vasto di centri di
attività e di interessi magnetici e legati tra loro". Nella decisione fondamentale di ricostruire la
società come communitas communitatum Buber considera i risultati raggiunti dai kibbutz come
"segnali di non-fallimento". L'uguaglianza (e non l'equità) è una condizione necessaria per
conquistare la solidarietà e la
giustizia, che a loro volta sono condizioni necessarie per porre termine all'alienazione e per
instaurare veri legami di amicizia. La vera amicizia è possibile solo in una società non-competitiva.
In una società cosiffatta è possibile garantire la distribuzione delle risorse secondo
le necessità individuali, secondo la separazione degli outputs (contributo della forza lavoro) e i
livelli di consumo (distribuzione degli alimenti). Riusciamo a tenere sotto controllo le tensioni
prodotte dalle richieste di "libero approvvigionamento", dai "desideri" e dai "bisogni". Non crediamo che la
condizione di homo oeconomicus e la società di mercato siano
caratteristiche eterne della natura umana. Né, d'altra parte, era di questo avviso Rousseau
("Eguaglianza - perché non vi può essere libertà senza di essa"), o i socialisti
utopisti, o Marx ("la
reciprocità, nella quale ogni cosa è al tempo stesso mezzo e fine"). Inoltre, esistono in proposito
le teorie moderne di Ch. Jencks ("la felicità di ogni individuo ha uguale valore"), di J. Rawl ("le
leggi e le istituzioni, non importa quanto efficaci e bene organizzate, devono essere riformate o
abolite, se sono ingiuste") e di molti altri. Pochi anni fa una sociologa americana, E. Rosenfeld,
pubblicò uno studio sulla stratificazione sociale, confrontando la vita in un kibbutz israeliano con
la tendenza generale che si riscontra nelle società borghesi. La Rosenfeld individuò vari strati
sociali all'interno del kibbutz: i "vecchi", la "base", e i "lavoratori saltuari". Benché lo studio
avesse un carattere empirico, esso rifletteva chiaramente l'ipotesi preliminare dell'autrice, e
cioè
l'esistenza, nella società-economia moderna, di una "funzionalità imperativa" orientata verso la
stratificazione sociale e la disuguaglianza. Ritengo che la metodologia e la terminologia usate in
questo caso fossero inadeguate. Esse,infatti, risultano inefficaci perché, di fatto, l'impegno ad una
vita comunitaria e al rispetto di una ideologia appropriata (solidarietà cooperativa totale, libertà
nell'uguaglianza e nel rispetto delle necessità personali) ha la precedenza su qualsiasi
"funzionalità imperativa". Di più: lo stesso si può dire del pregiudizio secondo il quale
l'efficienza di una società dipende da
un'amministrazione e da un governo su basi gerarchiche. Il kibbutz ha dimostrato che nel campo
dell'agricoltura i metodi migliori per favorire lo sviluppo e i risultati materiali non sono né la
gerarchia, né l'autorità, né i compensi individuali e neppure la gestione amministrativa. Nel
caso
dell'industria, il problema è più complesso. Dobbiamo costruire industrie secondo il principio
della massimizzazione dei profitti? Oppure, seguendo la tradizione ideologica socialista e
libertaria che ci è propria, possiamo raggiungere un grado di efficienza economica e
amministrativa elevato pur conservando una forma di democrazia diretta? Mentre l'esito è ancora
incerto (siamo nella fase di industrializzazione), posso dire che attraverso la rotazione degli
incarichi siamo riusciti a superare le divisioni tra la direzione permanente della fabbrica e gli
operai addetti alla produzione. In questo modo siamo riusciti a preservare un tipo di rapporto
egualitario nell'amministrazione delle fabbriche di proprietà del kibbutz e un alto grado di
partecipazione alla gestione aziendale. Ma ciò che è più importante, questi risultati sono stati
ottenuti senza sacrificare i profitti. La separazione tra i dirigenti e gli esecutori - tutti membri del
kibbutz - l'accettazione della rotazione degli incarichi da parte degli effettivi proprietari della
fabbrica, sarà disastrosa per quanto concerne la parità dei compensi e della soddisfazione nel
lavoro. Tuttavia, la sopravvivenza di questi principi comporta restrizioni di tipo sociale allo
sviluppo economico, ad ogni costo: ho in mente la natura organica della comunità e l'uguaglianza
correlata con l'autosufficienza e il lavoro volontario. Si potrebbe dire che l'uguaglianza significa
possibilità che tutti ottengano sempre ciò che
desiderano. Hobbes indicò nell'uguaglianza - cioè nell'uguale diritto a tutte le cose - la causa di
tutti i conflitti tra gli uomini, dell'assenza di ogni giustizia e di ogni valore etico e, in ultima
analisi, l'origine della sovranità assoluta. Per quanto mi riguarda, prediligo tra tutte la definizione
che ne ha dato Rotenstreich: "Uguaglianza significa impedire che venga attribuita un'importanza
decisiva alle divisioni di carattere gerarchico". Essa è perciò "un principio praticabile", al
contrario della "uguaglianza davanti a Dio", che è un concetto astratto e perciò insufficiente. Qui
e ora noi minimizziamo ogni disuguaglianza. Ora, evidentemente, da un punto di vista puramente
empirico, gli uomini non sono, di fatto, tutti uguali. Ci deve essere un desiderio di giungere
all'uguaglianza e di unire tra loro libertà e giustizia. È possibile questo? Sì, in certe
condizioni - e
la società del kibbutz, credo, può instaurare queste condizioni preliminari. Il kibbutz non
è una creazione "politica". Esso è sorto spontaneamente come insediamento
anarchico, come "unità comunitaria", per dirla con G. Landauer, M. Buber o P. Kropotkin, una
comunità avversa e contrapposta al potere centrale, e persino all'autorità dello stato. Il kibbutz
è
sorto e ora si mantiene grazie alla forza delle proprie convinzioni ideologiche ed è perciò in
grado di preservare un notevole grado di uguaglianza, di un'uguaglianza scelta liberamente dai
membri del kibbutz stesso. È bene notare, tuttavia, che questa uguaglianza esiste in netto
contrasto con l'attuale tendenza dello stato di Israele nel suo complesso. L'unicità del kibbutz
offre notevoli spunti per la ricerca scientifica. Tuttavia, i metodi e la terminologia della ricerca
non possono essere basati (o "presi a prestito") su altri modelli considerati normali e orientati
verso una concezione di profitto. Sono certo che tutti gli studiosi trarrebbero grande vantaggio se
dedicassero le loro energie allo sviluppo di un nuovo tipo di approccio metodologico (e di
discorso semantico), invece di utilizzare esperimenti e modelli adattati dalle dottrine economiche
e sociologiche tradizionali. In qualità di membri del kibbutz, tuttavia, speriamo non solo di essere
"analizzati", ma anche di avere la possibilità di dare indicazioni specifiche riguardo ai nuovi
problemi che ci troviamo a dover risolvere. E, per favore, non commettete errori: i problemi ci
sono, e gravi. Infatti, se il kibbutz continuerà ad adattarsi con questo ritmo agli standards e alle
richieste della nostra società orientata in senso materialistico e consumistico, la sua fine è
certa. Il kibbutz esiste in virtù dei suoi risultati interni, ma le condizioni che vi sono state
create sono
state prodotte dallo spirito pionieristico della prima società israeliana e sono state influenzate
dalle conquiste dei Histadurt (i sindacati operai) e dei tentativi di autogestione che hanno
riscosso successo. Se il movimento dei kibbutz non si oppone tenacemente alle tendenze
capitaliste e ne accetta le tradizioni, dubito che possa continuare a esistere e a svilupparsi una
vera uguaglianza tra i membri del kibbutz. L'adattabilità del kibbutz alle nuove idee e tecniche borghesi
non costituisce un pericolo per il
suo modo di vita comunitario ed egualitario? Dopo una fase pionieristica caratterizzata da un alto
grado di uguaglianza, il kibbutz potrà sopravvivere alla cosiddetta "fase di routine" (M. Weber),
con la sua relativa abbondanza, il ritorno alla privacy, la differenziazione degli incarichi,
l'incremento quantitativo e qualitativo dei bisogni consumistici, l'apatia nei confronti della cosa
pubblica, e via dicendo? Intanto, ogni kibbutz dispone di organizzazioni a carattere partecipativo,
che sono compatibili con la nostra società solidale ed egualitaria e con il suo sistema di valori. La
democrazia diretta e partecipata presuppone una vita attiva da parte di tutti i membri del kibbutz
che condividono i medesimi interessi e i medesimi problemi, e che interagiscono su un piano di
uguaglianza in tutti i processi decisionali. L'l'assemblea generale (che si riunisce, generalmente,
ogni settimana) è l'organo principale del potere (se è il caso di usare qui la parola "potere") ed
è il
simbolo della grande necessità di comunicazione in questo tipo di comunità
democratico-organica. Consentitemi ora di trattare un altro aspetto del problema, particolarmente importante
per coloro
i quali hanno inclinazioni marxiste. Molte persone oggi credono che l'uguaglianza sul piano
politico non sia sufficiente, e che occorra instaurare condizioni di uguaglianza anche nella sfera
economica e in quella sociale: anzi, non solo uguali possibilità, ma anche la realizzazione di
questa uguaglianza. La possibilità di realizzare in pratica possibilità uguali per tutti ha portato, ai
giorni nostri, la richiesta di uguaglianza anche nello status sociale. È ovvio che la disparità
sociale, soprattutto se comporta la monopolizzazione di importanti professioni, porterebbe prima
o poi alla disintegrazione del tessuto sociale del kibbutz. Perché, ci si potrebbe chiedere, l'uguaglianza
ha un valore positivo ed è essenziale per la società
del kibbutz? Perché è l'espressione di un'idea di giustizia che ha una funzione dominante nella
comunità del kibbutz e costituisce la linfa vitale della solidarietà umana sulla quale si basa la sua
stessa esistenza. Riusciamo ad acquisirla solo se realizziamo l'autogestione in tutti i campi, se
garantiamo ininterrottamente la rotazione delle mansioni (e siamo liberi di decidere quando e
chi...) e se abbiamo eliminato ogni sorta di speciali privilegi. L'unico incentivo deve continuare a
essere la prosperità della comunità nel suo complesso, che comprende ovviamente anche gli
interessi dei singoli che compongono la comunità. Non possiamo dare per scontato questo
incentivo: dobbiamo educare i giovani e i loro genitori. In altre parole, dobbiamo far sì che il
kibbutz sia sempre una comunità in via di sviluppo, e non un sistema "efficiente". L'efficienza,
nel senso degli obiettivi materiali, non deve essere la nostra pietra di paragone. Se vogliamo
veramente vivere insieme, c'è ancora questo da fare per poter essere in grado di realizzare l'ideale
sociale di una solidarietà egualitaria e cooperativa. Il kibbutz non è una cooperativa di tipo
occidentale: la sua esistenza non si basa sull'impegno ad
accrescere i dividendi degli azionisti. Piuttosto, esso esiste in virtù degli ideali fondamentali che
stimolano la volontà dei suoi membri. È solo ponendosi come isola all'interno dello stato,
adiacente e a volte contrapposta ad esso, che il kibbutz può preservare il suo modo di vita
socialista e continuare a svilupparsi e ad espandersi lentamente. Il kibbutz non è né una "piccola
cittadina" (shtetel), né una "grande fabbrica". È completamente diverso, unico, e non abbiamo
ancora trovato una definizione che gli calzi a pennello. La vita nei kibbutz, oggi, è una vita in una
comunità prospera e proprio per questo, forse, il
problema della soddisfazione e della realizzazione dell'individuo ha tanta importanza. Ho
lasciato per ultimo un problema che considero essenziale e uno degli aspetti purtroppo poco
trattati della disuguaglianza: la disparità di soddisfazione nel lavoro, che viene generalmente
attribuita all'industria come tale. Il problema dell'industrializzazione è cruciale, oggi, per molti
kibbutz. Come, allora, potranno costruire le loro industrie evitando questa forma di
disuguaglianza? Sicuramente, l'industria del kibbutz dovrà sorgere in modo assai diverso
dall'industria capitalista, legata al feticcio del mercato. Questo non è un problema che riguarda
solo la struttura tecnica dell'industria. Come abbiamo già visto, il kibbutz ha dimostrato che si
può instaurare e portare avanti un tipo diverso di agricoltura - comunitaria e prospera. Ciò che
non ha avuto successo, come il modello Oppenheimer - un modello di agricoltura cooperativa (il
villaggio cooperativo di Merchavia) - è stato modificato. L'industrializzazione ci riporterà al
vecchio modello economico semi-privato? A mio avviso, il problema dell'industrializzazione è
più serio e più complesso dei problemi che dovettero affrontare i primi kibbutz nel tentativo di
creare un'agricoltura moderna cooperativo-comunitaria. La differenza risiede nel fatto che il
processo di industrializzazione è iniziato in un periodo di debolezza ideologica e di crisi del
"consumismo". Analizzare la vita e l'economia del kibbutz secondo i modelli delle società
occidentali può solo peggiorare il problema. Cerchiamo di capire, una volta per tutte, che i
modelli dell'industria capitalista non sono oracoli divini, né lo sono i compensi materiali!
Eppure, in tutti gli studi accademici vediamo che proprio questi ultimi sono considerati i migliori
incentivi. È così anche nei kolkhoz sovietici, che i loro fondatori considerano la
realizzazione del
socialismo comunista. Così, torniamo di nuovo alla questione principale: è questo ciò
che vogliamo? Uno dei
fondamenti della vita nel kibbutz, infatti, è la separazione tra la soddisfazione dei bisogni
dell'individuo e il suo contributo produttivo. Ciò che ci interessa è la realizzazione dell'individuo
e certamente i compensi materiali disuguali non sono il modo migliore per arrivarci. La
soddisfazione nel lavoro è altrettanto importante (ho osservato a questo proposito che il sistema
skinneriano di "credito del lavoro" si è rivelato un fallimento...); i kibbutz si sono dimostrati
assai più capaci delle altre forme di sperimentazione sociale e delle imprese capitaliste nel
garantire questo tipo di soddisfazione. A mia avviso, dovremmo tornare a uno "spirito più anarchico".
Dovremmo limitare al minimo
l'autorità. Dovremmo eliminare ogni gerarchia istituendo la rotazione perenne delle mansioni, e
così facendo impedire il formarsi della burocrazia. Dovremmo creare un tipo di formazione
professionale più varia e informale (nello spirito di Marx e Fourier), contrapposta all'istruzione
specialistica formale tradizionale. Dovremmo accettare di sacrificare un po' di efficienza a
vantaggio dei nostri ideali. Dovremmo, in altre parole, De-economizzare la nostra vita e la nostra
cultura. Questa è la vera base su cui dovrebbe fondarsi l'etica socialista, contrapposta all'etica
capitalista dell'individualismo competitivo e al suo feticcio, la proprietà privata. Per concludere,
ricordiamo ciò che disse Gustav Landauer: che tutti coloro che si sono resi conto
dell'impossibilità di continuare a vivere da borghesi si uniscano e lavorino per soddisfare i propri
bisogni, secondo un modello di vita basato sulla giustizia e sulla cooperazione reciproca. Chi
vuole creare la vita deve "vivere di nuovo, e rinascere interiormente". Perciò, dipende solo dalla
nostra volontà se questa prospettiva potrà divenire realtà e non solo Utopia.
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