Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 10 nr. 88
dicembre 1980 - gennaio 1981


Rivista Anarchica Online

Sardi = banditi?
di Ugo Dessy

Appigliandosi ad alcuni fatti criminosi in cui erano coinvolti cittadini sardi, certa stampa continentale ha riaperto la vecchia, ma sempre indegna, campagna diffamatoria nei confronti della nostra gente. A parte le operazioni repressive che non di rado travalicano le stesse leggi, e che configurano - come per il passato - vere e proprie "cacce grosse", la campagna è sostenuta, "culturalmente", da dissertazioni criminologiche da salotto, di cui è maestro il giornalista Bocca. Pare dunque che il "fenomeno storico" di uno "specifico" banditismo isolano - le cui origini si fanno dottamente risalire alla prima dominazione romana - dopo il boom degli anni Sessanta (del banditismo del benessere in una società del malessere), si sia dato un volto nuovo ammodernato, al passo con le tecniche - modi e tempi - del banditismo politico-sovversivo. Il nuovo corso del banditismo sardo consisterebbe, in sostanza, nel fatto che esso si sarebbe trapiantato, con la sua specificità pastorale e barbaricina ammodernata, dalla Sardegna al Continente. Infatti, le fonti di informazione (si fa per dire) dello stesso sistema devono registrare, a malincuore, che nella nostra regione non c'è più di un cane di latitante, sono quasi scomparsi gli abigei (e il bestiame), sono in netta diminuzione i sequestri e non esistono forme di terrorismo politico (se non nella mente fervida di qualche funzionario di polizia o di qualche cronista in cerca di facile notorietà).

Il fatto è che se nel passato i Sardi erano in Sardegna, attualmente una buona parte di essi si trova nel Continente. Sono più o meno ottocentomila, i Sardi esiliati - costretti a lasciare la loro terra e i loro affetti, per fare posto alle petrolchimiche e alle basi militari. E questi Sardi, con il loro tragico bagaglio di miseria e di sopraffazioni, si sarebbero portati anche "il virus della delinquenza" di cui sarebbero affetti - secondo certa tesi.

Una tesi, ripeto, vecchia ma dura da morire. Nella seconda metà del secolo scorso, in un periodo di degradazione e di miseria che fa il paio con questo che stiamo attraversando, il Niceforo, criminologo à la page anche lui, dopo aver definito la Barbagia "zona delinquente", scrive: "Nella zona delinquente le generazioni si sono succedute; al posto dei padri sorsero i figli, ma questi non furono migliori dei padri. Lo stesso arresto di sviluppo nel senso morale agghiaccia le anime dei novelli venuti, poiché i sentimenti dei padri - per legge psicologica - si trasmettono ai figli; esiste una eredità morale come esiste una eredità fisica... la psiche del pastore di cui ci occupiamo, è il prodotto delle psiche che l'hanno preceduto; le psiche dei figli che nasceranno saranno i prodotti delle psiche attuali. Tristi prodotti davvero!.... Nelle loro cellule nervose c'è qualcosa di organizzato che li spinge fatalmente al sangue...". Sono solenni asinerie; magniloquenti teorizzazioni dietro cui si nascondono viscerali pregiudizi. Molto più diffuse di quanto non si creda, e non soltanto nel popolino ma in questori e in magistrati, e non soltanto in Toscana.
Le potenze che si sono succedute nel dominio dell'Isola, hanno deliberatamente spacciato per criminali gli oppositori, e quando una vera e propria opposizione politica non si configurava, hanno prodotto e alimentato fenomeni di banditismo. Se in Sardegna ci sono banditi, i Sardi sono banditi; quindi, sbarcarvi un esercito che vi debelli il banditismo e porti l'ordine diventa un fatto di civiltà e non invece - come in effetti è - un'aggressione. Il fascismo, invadendo l'Etiopia, proclamava di volervi abolire la schiavitù.
È un pregiudizio storico - coniato da quei predoni che furono i Romani - definire barbaro qualunque popolo da assoggettare o assoggettato. I colonizzatori spagnoli, belgi, francesi, italiani e buoni ultimi gli yankee, mascherano i loro disegni di assoggettamento assumendo il ruolo di "portatori di civiltà". Il pregiudizio razziale, in pratica, concorre a giustificare l'oppressione. È evidente che il pregiudizio razziale viene coniato come copertura di un piano di sfruttamento di un popolo pregiudicato inferiore; ma accade che, in conseguenza dello sfruttamento, il popolo pregiudicato finisce per acquistare realmente una inferiorità rispetto al suo dominatore.
Fra i pregiudizi di comodo, si è venuto consolidando fino a oggi lo stereotipo che rappresenta la Sardegna come "terra di banditi" - per dirla parafrasando Goethe: "Die Land wo die Banditen bluehen" (La terra dove fioriscono i banditi". Non è un caso che nelle cronache della stampa e della tivù, nei discorsi politici e giudiziari, la Sardegna ricorra sempre e immancabilmente per le sue gesta criminose, con un sottile continuo riferimento ai suoi irriducibili banditi barbaricini; e quando, per eccezione, si riportano fatti di crescita civile, si metta in rilievo, paternalisticamente, la volontà dei Sardi di crescere e di riscattarsi dalla vergogna millenaria del banditismo. Gli stessi latitanti sono rappresentati nella oleografia ufficiale in una realtà di maniera: sono piccoli e irsuti come le loro pecore; calzano ruvidi gambales (e qui dotte disquisizioni sulla somiglianza con i calzari dei pastori spagnoli); vestono fustagno verde-oliva oppure l'autarchico orbace; sono perennemente arroccati sulle guglie granitiche del Supramonte, avvolti nel sacco nero (altro dotto riferimento al barracano dei beduini) con il moschetto a spalla; e sono circondati da un silenzio rotto solo dalle grida di morte e dalle nenie funebri delle prefiche.
Esopo, in una sua favola, spiega come il lupo-capitalista senta il bisogno di trovare una giustificazione alla sua violenza. Il Baudi di Vesme scrive dei Sardi che amano "meglio un tozzo di pane senza far nulla, che vivere mediante il lavoro nell'agiatezza"; che il loro "maggiore e più essenziale difetto è una certa bassezza di carattere e mancanza di sentimenti generosi"; che "rara è la fedeltà nei servi di campagna" e che "anche nelle classi più colte ed educate vediamo frequenti esempi di malafede, né sono rare le malversazioni degli impiegati". Per inciso: il Baudi di Vesme - al quale l'amministrazione del comune di Cagliari, riconoscente, ha intitolato una strada popolare -, è il rampollo di una nobile schiatta di colonizzatori di Cuneo, cortigiani dei Savoia. Citatissimo dagli storiografi compradoris per la sua competenza in materia di organizzazione dello sfruttamento, il Baudi di Vesme arraffò in Sardegna vaste proprietà fondiarie, fu uno dei maggiori azionisti delle miniere della Monteponi, di cui fu anche direttore.
Un altro cortigiano dei Sabaudi, Giuseppe de Maistre, giureconsulto di fama borghese, definisce i sardi "molentes, razza refrattaria più di qualunque altra a tutti i sentimenti, a tutti i gusti e a tutti i talenti che onorano l'umanità.... Vili senza obbedienza e ribelli senza coraggio". Come si sa - dopo la polemica tra il consiglio regionale e il defunto magistrato Coco - il De Maistre è assai stimato da certi procuratori generali per le sue doti di inquisitore.
Ancora in tema di pregiudizi, in tempi più recenti, all'inizio del 1900, una commissione di parlamentari si assunse il compito di documentare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori sardi, e scrisse che "l'operaio sardo non è neppure di molto rendimento, in quanto riguarda la massa del lavoro prestato... su questo tutti gli osservatori (sic!) sono concordi: così l'ing. Ferraris, il quale ritiene che il rendimento del lavoro sardo sia di circa il 60% di quello continentale... ma meglio di queste testimonianze... vengono a provare lo scarso rendimento del lavoro sardo le differenze di salario riscontratesi nelle stesse miniere fra continentali e sardi". E più avanti, la stessa commissione dipinge il lavoratore sardo secondo la tipologia riservata dal colonialismo ai selvaggi: "il minatore sardo ha i difetti e le qualità del fanciullo", e nel loro insieme sono "una massa ancora relativamente primitiva con le ingenue qualità, le fiducie, gli entusiasmi che l'evoluzione sociale tende a distruggere, ma altresì senza il discernimento, la capacità di resistenza e di sforzo continuo e regolare che la civiltà crea e sviluppa (sic!)". È chiaro, in questo caso, che i pregiudizi servono per giustificare i bassi salari dati agli operai sardi e le discriminazioni tra questi e gli operai del continente.
Non vale la pena trascrivere altri esempi di pregiudizio sui Sardi. Asineria, assenteismo, inettitudine, vigliaccheria, eccetera, sono attributi in uso nei confronti del nero, dell'arabo, del messicano e così di ogni popolo, gruppo etnico o classe sociale per giustificare in qualche modo lo stato di soggezione in cui vengono tenuti.

Il pregiudizio è un'antica malattia sociale che concorre alla legalizzazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Anziché scomparire alla luce del progresso scientifico - come era stato annunciato dagli entusiasti vati dell'Illuminismo - si perpetua e si diffonde in forme più sottili nell'attuale società. La scienza a servizio del potere, anziché diradare le nebbie dell'oscurantismo le ha infittite, dando al pregiudizio un carattere di attendibilità scientifica, e quindi rafforzandolo. È il sistema, sono le strutture oppressive e repressive di questo sistema che bisogna distruggere, affinché l'uomo ridiventi uomo.
La nostra è una società fondata sul falso. I commenti politici distorcono l'immagine reale della parte avversa. Vengono date attribuzioni dispregiative, in chiave manichea, a gruppi politici, a categorie sociali o a minoranze etniche, perpetuando la discriminazione in "buoni" e "cattivi". Un esempio ormai vecchio viene da certe campagne di stampa mosse da nazioni di lingua tedesca contro i nostri emigrati, definiti tout court "zingari", straccioni, "accoltellatori". E ciò è un aspetto di un più vasto fenomeno razzista, lo stesso che fa dire allo speaker del telegiornale "bandito" a chi delinque in Barbagia e "malvivente" a chi delinque a Milano. Ugualmente attuale, e tragico, il pregiudizio nei confronti dell'anarchico o del diverso - un pregiudizio coltivato e diffuso dalla consorteria al potere, per dare copertura e alibi alla eliminazione anche fisica delle punte avanzate dell'opposizione popolare.
"Gli anarchici - scrive il Russell - come i socialisti, credono nella dottrina della guerra di classe, e se usano le bombe, le usano allo stesso modo come i governi fanno uso delle bombe per i fini della guerra: senonché, per ogni bomba che viene preparata da un anarchico ce ne sono molti milioni che sono fabbricate dai governi, e per ogni uomo ucciso dalla violenza anarchica, ce ne sono molti milioni uccisi dalla violenza degli stati. Possiamo dunque cancellare dalla nostra mente tutta questa questione della violenza che fa tanta impressione alla immaginazione popolare, non essendo essa essenziale, né peculiare di coloro che adottano l'atteggiamento anarchico".
Ho riportato questo giudizio di un grande filosofo borghese su una ideologia che egli non professa, perché è la testimonianza di come la vera conoscenza sia alla base per superare il pregiudizio e giungere al rispetto dell'uomo e delle idee. Fra i pregiudizi che avvelenano i rapporti umani, il razzismo è certamente il più grave per gli interessi turpi che lo generano e lo alimentano. Gli pseudo-concetti che sostengono il pregiudizio razziale sono: l'ipotesi scientifica che esistono razze diverse; b) una gerarchia di valori fra queste razze e quindi la superiorità di una razza rispetto ad altre; c) il mito della esistenza di razze pure "elette" e il decadimento e la "inferiorità" degli ibridi rispetto alle razze di origine.
Per giustificare il pregiudizio razziale, quando non si trovi appiglio in differenze somatiche evidenti tra il discriminatore e il discriminato, ci si arrampica sugli specchi con ipotetiche percentuali di sangue inferiore. Mi riferisco alle varie leggi razziste negli USA. Nel Missouri è legalmente nero chi abbia almeno un ottavo di sangue nero nelle vene. In Georgia lo è chiunque abbia una traccia accertabile (anagraficamente) di sangue nero. "Ne consegue - scrive il Tentori - che molti cosiddetti negri non si differenziano assolutamente dai bianchi né per il colore della pelle, né per i tratti del viso, né per il colore o la forma dei capelli". Le attuali scienze antropologica, biologica e psicologica dimostrano l'assoluta infondatezza dei pregiudizi di vario ordine con cui si è cercato e si cerca di dimostrare l'esistenza di una razza superiore e di razze inferiori. Si dice, da parte razzista, che il nero è un primitivo, che è inferiore perché fisicamente somiglia agli antropoidi: ha la pelle scura, il naso camuso, le estremità superiori e le inferiori corte, i capelli lanosi e le labbra carnose. In verità, si obietta, gli antropoidi hanno si in comune con i neri il colore della pelle e il naso camuso, ma riguardo alla bocca e ai capelli li hanno in comune con i bianchi: labbra sottili e peli lisci.
Bisogna ammettere che queste diatribe su chi somiglia più alle scimmie ricordano quelle sul sesso degli angeli. Ma c'è chi le prende seriamente. Il Kroeber, che è una autorità in materia, sostiene che all'esame dei dati somatici il nero non è più affine alle scimmie di quanto non lo sia il bianco.
Altro cavallo da battaglia razzista è la forma del cranio e la quantità della massa cerebrale. Una delle prove "scientifiche" della inferiorità intellettuale della femmina rispetto al maschio (così come del nero rispetto al bianco) consisterebbe nella minore quantità di cervello, con una differenza media di 150 grammi tra il bianco e la sua donna e tra il bianco e il nero - per cui la donna bianca avrebbe l'intelligenza di un nero. Non vale la pena dimostrare che forma del cranio e massa cerebrale non hanno nulla da vedere con l'intelligenza individuale e sociale. Per dirla con Stuart Mill, l'elefante dovrebbe essere allora più intelligente dell'uomo. D'altro canto, ho sentito dire dalle mie parti che a "cranio piccolo" corrisponde "pene grande". Il che, messo sul piano della boutade, potrebbe alla fin fine pareggiare i conti.
Scrive il Myrdal: "Nei primi tempi in cui il negro fu costretto a lavorare in America non fu considerato schiavo, ma fu considerato come i servi bianchi assunti a contratto e non fu mai giudicato un essere inferiore. Quando poi fu ridotto in schiavitù, si sentì il bisogno di una giustificazione che non fosse l'utile economico. Allora si cominciò a dire che il negro era un pagano, un reietto fra i popoli della terra, un discendente di Cam maledetto da Dio e condannato alla schiavitù perpetua in forza di un peccato antico. Abolita la schiavitù, il costume dello sfruttamento del negro rimase: furono inventate allora altre giustificazioni. A sostegno della disparità salariale tra bianchi e negri si affermò che il lavoro di questi ultimi rendeva molto meno e che compensi più alti avrebbero spinto i negri all'ubriachezza. I negri non venivano accolti come operai nelle industrie, perché, si diceva, mancavano di attitudini meccaniche, se lavorano presso una macchina si addormentano. Fu loro precluso l'accesso a ogni lavoro di carattere direttivo, adducendo che i negri non hanno attitudine ad una prolungata attività mentale". Le stessissime idiozie - come si è visto - vengono dette dai colonizzatori italiani, per giustificare lo sfruttamento cui sono sottoposti i Sardi.
Le conseguenze del pregiudizio razziale furono e sono la discriminazione e lo sfruttamento dei popoli mantenuti in uno stato di sprovvedutezza materiale e culturale. Tale situazione di coatta inferiorità rispetto al dominatore produce una effettiva inferiorità, che serve a sua volta ad alimentare e rafforzare il pregiudizio. Pregiudizio del dominatore e basso livello di vita del dominato finiscono per determinarsi l'un l'altro - creando un circolo vizioso che in altro modo non può rompersi se non con la rivolta dei popoli contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.
Negli anni Sessanta, gli anni in cui si compì il "grande esodo", parlando dei nostri emigrati in Svizzera e in Germania, si sentiva spesso sostenere che questa nostra gente era incapace di "integrarsi" nella comunità che la "ospitava". Si sentiva dire, anche da intellettuali che passavano per colti, che in Svizzera e in Germania i nostri emigrati non sapevano "integrarsi" in quel "modo civile di vivere" e che "caparbiamente" continuavano a conservare il "modo di vivere sardo", continuavano a comportarsi da Sardi, perfino a parlare in sardo. Tale "incapacità di integrazione" la si attribuiva semplicisticamente alla "ignoranza" e al "livello sociale degradato" (sono la feccia della società, quelli che emigrano - si sosteneva). Le stesse cose si sentono dire oggi per gli emigrati sardi in Toscana - una regione "civilissima", di "onesti" lavoratori, di "vecchia tradizione comunista", culla della lingua e della letteratura nazionale, dove vivono comunità "evolute", "ordinate", "tranquille".... Puoi lasciare l'auto aperta per strada o perdere il portafogli, nessuno ti ruba nulla.... Ebbene - si dice - i Sardi "caparbi" non sanno integrarsi, accettare di vivere "alla maniera" della "civilissima" Toscana.
Se ragioniamo appena, ci rendiamo conto che dietro il paternalistico buonsenso queste affermazioni sono semplicemente razziste. Che cosa vuol dire "integrarsi"? Vuol dire rifiutare, cancellare tutti o in parte gli elementi della propria cultura, per accettare e far propri quelli di una cultura diversa che viene proposta o imposta? Ma è possibile all'uomo "integrarsi" veramente in una cultura diversa dalla propria?
L'uomo può adattarsi, certamente, seppure entro limiti tollerabili, ma restando sostanzialmente se stesso. "Integrarsi" significa rifiutare, degradare fino a mummificarla la propria cultura, il proprio io già determinato, nel tentativo storicamente mai riuscito di accettare, far propria un'altra cultura, modificare la propria personalità.
Semplicemente, l'integrazione è il processo di degradazione umana, di alienazione, che il colonialismo porta avanti per annientare la cultura di un popolo, e con la cultura la sua capacità di resistenza, per poter dominare questo stesso popolo. Il concetto stesso di "integrazione" parte da un presupposto razzista: deriva dalla pretesa esistenza di culture evolute e civili e da culture primitive e incivili, rispettivamente con ruoli egemoni e ruoli subalterni, destinate a dominare le prime e a essere dominate le altre. Per esempio, l'Italia sarebbe portatrice di una cultura "civile" e la Sardegna, invece, sarebbe affetta da una cultura se non proprio "incivile", meno evoluta (Scheisse Kultur - cultura di merda - come la definiscono i tedeschi, alla buona). I rapporti tra Italiani e Sardi, in modo più o meno scoperto, sono improntati a questa premessa razzista. Per cui succede che se un continentale sbarca nella nostra terra, egli è portatore di una cultura "superiore", non deve "integrarsi" alla cultura sarda, ma deve imporre, con le buone o con le cattive, la propria cultura agli indigeni. E così facendo, egli, lo straniero, compie anche "opera benemerita", poiché diffonde la "civiltà" e il "vero dio" di una cultura "superiore".
Se invece è il Sardo a sbarcare nel continente (e vi sbarca, ovviamente, non da padrone ma da morto di fame, pertanto con una Scheisse Kultur), egli ancora una volta si scontra con una cultura diversa dalla propria, che deve accettare come "superiore" alla propria, e deve "integrarsi" in quella per diventare "civile" - deve "integrarsi" tanto più doverosamente per "riconoscenza" a quella gente "istranza" che lo nutre, lo veste, lo spidocchia e gli insegna le buone maniere. È da colonialisti, quindi, proporre l'integrazione della cultura di un popolo (per "primitiva" che sia) nella cultura di un altro popolo (per "evoluta" che sia). Io penso che quando Sardi e Toscani o Tedeschi convivono, qui in Sardegna o lì in continente, si incontrano due culture di pari dignità e di pari valore.
Se ci riferiamo a culture di popoli diversi (non a culture di classi al potere, che sono già unificate fino a formarne una sola), diciamo allora che due culture si incontrano e si compenetrano su denominatori di comune umanità: le esigenze dell'uomo sono le stesse sotto ogni latitudine, cambiano, sotto certi aspetti, i modi per realizzarle. Nelle culture dei popoli oppressi, vi è sempre una comune ideologia, vi è sempre una comune esigenza di liberazione. In una visione egualitaria, di tolleranza e di rispetto reciproco tra i popoli (il che è veramente un fatto di cultura civile), i Sardi hanno certamente da imparare, nei rapporti con gli altri popoli. Esattamente quanto questi hanno da imparare dal popolo sardo. Invece, purtroppo, ancora nel 1980, si continua a parlare di Sardi "molentes", di Sardi come "razza delinquente".
Bisogna evitare i razzismi alla rovescia, lasciarsi prendere dai risentimenti - come sta accadendo da più parti. Pertanto non è il caso di rispolverare la storia dei carbonari toscani e neppure quella dei famigerati ladri di Pisa - famigerati, per altro, nella stessa Toscana, dove si dice "Meglio un morto in casa, che un pisan sull'uscio". Tolleranza e rispetto non devono significare comunque acquiescenza, porgere l'altra guancia. Tanto più se chi è responsabile di questa come delle altre campagne diffamatorie nei confronti dei Sardi sono le élites al potere e non la povera gente - ovunque oppressa e diffamata non meno dei Sardi.
Ed è quindi a costoro, ai padroni, ai potenti, ai portatori di falsa civiltà e di falso progresso, che va rinfacciato, con la storia, con i fatti, quanto essi siano "banditi" e "criminali" nell'opprimere e nello sfruttare il popolo sardo. Se facciamo un parallelo tra noi e i nostri civilizzatori, perfino Mesina, il terribile bandito, diventa una mammoletta, davanti al petroliere Rovelli che ha rapinato i miliardi della Rinascita e ha inquinato mezza Sardegna.

Si sta creando in Sardegna, e tra i Sardi in terra straniera, un movimento che tende a sensibilizzare, a mobilitare la nostra gente affinché ritrovi una dimensione e una dignità di popolo, rivalutando le proprie istituzioni, la propria storia, la propria lingua, la propria cultura. Ma stiamo attenti che tutto ciò non diventi un gioco per intellettuali annoiati o un trampolino di lancio per politici falliti e disonesti o peggio ancora un fatto folclorico che il sistema mercifica e consuma, vuotandolo di quei contenuti rivoluzionari che sempre sono propri di ogni cultura popolare, della cultura degli oppressi. L'affermazione e la crescita di una autentica cultura popolare - come dimostra Franz Fanon - è parallela e si identifica con la lotta politica di un movimento di liberazione popolare. Riaffermazione della nostra cultura, quindi, come lotta di liberazione.