Rivista Anarchica Online
La nuova frontiera del colono Ronald
di Jules Elisard
Dibattiti, interviste, tavole rotonde con esperti, commenti a caldo, a freddo ed in salamoia;
stupore, entusiasmo, meraviglia, sgomento, molti scongiuri, "o mamma; è la guerra"; e poi
ancora.... Dibattiti, interviste, tavole rotonde con esperti, commenti a caldo, a freddo, e in
salamoia.... Con tale frenesia le elezioni presidenziali degli Stati Uniti si sono abbattute nelle fabbriche,
scuole, ospedali, condomini... perfino nel letto; impossibile sfuggirne, a tal punto da sorgere il
dubbio se lo spettacolo erano le elezioni od il commento a queste. Difficile scegliere, anche se
indubbiamente i commenti degli intellettuali hanno riscontrato maggiore successo dando
spettacolo in coppia con politologi, giornalisti, attori, parrucchieri per signora; la bravura e
l'impegno di questi animali nel ricercare a tutti i costi la "novità" di questa ennesima farsa
elettorale è stata veramente maestosa. Per esempio: lo sforzo più eclatante è stato quando
hanno
dovuto descrivere dettagliatamente tutte le possibili ed immaginabili differenze dei singoli attori,
in modo particolare dei due big: Reagan è fotogenico, Carter un po' meno; Reagan è per un
capitalismo "sciolto", Carter invece lo vuole ben "stretto"; Reagan ha sempre la pistola fumante,
Carter l'ha appena oliata; Reagan non ha paura della crisi, Carter... Carter! Ehi Jimmy! La crisi?
Carter è in crisi. Tutti naturalmente hanno capito tutto; sì, è vero: nessuno si aspettava
la vittoria di Reagan, ma
dato che non la si è capita è ancora più facile far finta di capirla: Reagan, l'attore, non
può che dar
spettacolo. E c'è perfino chi ha scritto di aver già visto i provini nel '53. Fin qui i commenti degli
esperti; se non ci credete, rileggete ciò che avete letto sulla stampa nazionale ed estera... e buon
divertimento. Ora tocca a noi!
Nulla è più di quanto non sia
Certo: può darsi che pure noi cadremo nella schiera degli animali che una rapida panoramica di
quello zoo ha messo in luce; il rischio è continuamente presente ogni qual volta si deve affrontare
delle notizie che di per sé fanno già spettacolo, ossia notizie che sovrapponendosi ai nostri fatti
quotidiani - che sono tutt'altro dai fatti personali! - sembrano condizionare questi a tal punto da
ritenere il nostro quotidiano l'elezione di Mr. Ronald Reagan, o la caduta del gabinetto Forlani.
Detto questo, non intendiamo assolutamente svalutare la portata sociale, politica ed economica di
una scadenza come quella del cambio di guardia all'interno dell'impero yankee; sarebbe troppo
stupido liquidare la questione con la semplice motivazione che noi siamo anarchici e quindi delle
minestrine elettorali in non vogliamo punto saperne. Noi siamo anarchici, le minestrine elettorali
le abbiamo sempre usate per sciacquarci i piedi, ma abbiamo sempre accusato che a bollire in
pentola è ben altro di una semplice minestrina. Come sentenziava l'antico filosofo, "Nulla è
più di quanto non sia". Ha il gusto dell'artificioso
definire Reagan IL guerrafondaio, IL reazionario, IL neo-liberalista, così come non si può dire
che Carter è IL democratico, IL progressista, IL protezionista; l'apparenza non sempre è lo
specchio della realtà. Nessuno, crediamo, si sognerebbe di affermare che diventato Napoleone
Bonaparte imperatore, il periodo storico fra la fine del settecento e la prima metà dell'ottocento fu
sconvolto dal semplice gesto che egli fece nell'autoincoronarsi rifiutando di ricevere
l'incoronazione dall'autorità ecclesiale; di Ronald Reagan, sì! Eletto Reagan sembrerebbe che
la situazione internazionale sia prossima all'ennesima guerra
mondiale dove i due imperi si dovrebbero scontrare fino all'annientamento totale; ma ciò vuol
dire credere al "naso di Cleopatra" nell'incipienza della storia! Eppure nonostante tanta e tale
assurdità l'equazione più diffusa per leggere le elezioni americane del novembre '80 è che
Ronald
Reagan, guerrafondaio di destra e capitalista d'assalto, ha vinto su Jimmy Carter, democratico e
fautore della distensione fra i blocchi; dunque: il revanchismo reazionario dell'imperialismo
americano è pronto a dar fuoco alle polveri!
stupore
Lo stupore del IV Potere alla notizia di una vittoria così marcata del deputato repubblicano (51%
dei voti contro il 41% ai democratici) e della conquistata maggioranza in seno al senato (51 seggi
invece dei precedenti 41 escluso il vicepresidente Bush che secondo la costituzione dirige
l'assemblea) dimostra come la campagna d'informazione abbia rincretinito anche gli informatori
della campagna; non solo si sono presentate le elezioni presidenziali come una questione
squisitamente elettoralistica, ossia di netta contrapposizione fra un candidato e l'altro, delineando
così di volta in volta l'utile idiota di turno, ma si è avuta l'imbecillità di leggere i responsi
elettorali come se questi fossero l'indice di una mutazione repentina dell'elettorato statunitense e
non come un cambiamento sostanziale e di fondo dell'intera classe politico-economica
nordamericana. Vogliamo dire: sicuramente il Paese ha intrapreso una nuova strada, anzi un
vecchio sentiero ripido: quello dei coloni verso la frontiera, non tanto perché Reagan è uscito
vittorioso dallo scontro elettorale, e nemmeno perché Carter è stato sconfitto, quanto perché
la
crisi che attanaglia questa società imperialista, come d'altra parte l'imperialismo sovietico - crisi
non solo ed unicamente economica, ma crisi di completi valori morali - ha impresso una pigiata
al proprio acceleratore verso la spartizione sempre più delimitata delle rispettive influenze sullo
scacchiere internazionale prima che un nuovo Iran od una nuova Polonia possano seriamente
minare fin dal suo nascere il corso neo-imperialista delle due superpotenze.
il declino dell'impero
Con la precedente amministrazione l'imperialismo americano ha subito un susseguirsi di sconfitte
in campo interno e soprattutto a livello internazionale, ma leggere queste débacle solo ed
unicamente causate dalla mal gerenza del presidente, non ha nessun valore né tanto meno può
pretendere di avere un valore politico. Indubbiamente l'amministrazione Carter è stata influenzata
dalla personalità del governatore della Georgia che per tanti anni si è posto il problema di
confrontarsi con le esigenze di una popolazione prevalentemente di colore e quindi cercando di
trattare da bianco ciò che alla luce del sole è nero; per cui facendo tesoro di questo passato e dei
problemi che le minoranze etniche del suo dipartimento gli presentavano, Carter ha operato su
scala internazionale con lo stesso metodo con il quale ha governato il "piccolo": una diplomazia
liberal-democratica fondata essenzialmente sul rispetto dei diritti umani. Non essendo però dei moralisti
non abbiamo creduto di poter valutare l'operato del presidente
Carter definendolo l'operato di un presidente buono anziché cattivo, perché figure autoritarie e
gerarchiche come questa, sempre pronte a soffocare ogni diritto del popolo, sia interno che
esterno, nel decidere in prima persona come organizzarsi, contro chi combattere e per che cosa,
non possono far nascere dei sentimenti laido-romanticisti, ma costantemente devono far porre il
problema di cosa vi è di reale rispetto all'apparente. Per questo abbiamo cercato di analizzare in
quale situazione politico-economica si trovava il paese durante l'amministrazione Carter; questi
per l'appunto sono alcuni dati che possono dare essenzialmente una idea: l'industria durante gli
anni settanta ha subito una flessione di 5 punti rispetto il mercato nazionale, e del 23% nel
mercato estero; si è avuta parimenti una diminuzione delle innovazioni tecnologiche a causa
della riduzione della spesa nel settore delle ricerche fondamentali ed applicate; l'erosione del
risparmio si è fatto sentire (6% in media nel corso del passato decennio contro il 14% della
R.F.A. ed il 20% del Giappone) coinvolgendo gli investimenti (7,5% negli USA, 8,8% nella
Germania Federale, 17% in Giappone); la sua produttività da un 2,9% dei sei anni precedenti al
1973 è passata all'1,6% nei sei anni successivi, mentre contemporaneamente in Giappone è del
4,1% (contro il 10,4% prima della crisi), in Francia del 4,9% (contro il 6,1%), invece in
Germania Federale è rimasto pressoché costante (5%). Come si vede l'amministrazione Carter
non poteva certo vantare di comandare un forte impero e
per questo, presumiamo, l'ingerenza statunitense è stata alquanto parca, in una costante ricerca di
alleanze fondate su propositi non aggressivi e basantesi sulla formula dei "diritti dell'uomo", che
non invece su patti belligeranti. Essendo ormai il capitale nordamericano in una situazione molto
critica, ha costretto Carter ad impegnarsi nell'opera di riassestamento del proprio bastimento
cercando di portare in tutti i modi l'imbarcazione fuori corrente o perlomeno su tratti di mare
facilmente navigabili. Innanzitutto l'ex-presidente degli Stati Uniti doveva risolvere il problema di come
continuare una
politica imperialista quando le risorse dell'impero non erano in grado di permetterlo; da qui
l'esigenza di operare in modo "neutro" nei confronti dei propri territori strategici affinché potesse
non "impensierire" l'Unione Sovietica costringendola ad adottare "misure precauzionali" e nello
stesso tempo cercare di minarla nel suo interno. Così l'opportunità di farsi paladino della causa
dei diritti umani è stato il metodo con cui Carter ha operato sulla scacchiera internazionale:
ottenendo nel complesso un attacco indiretto contro l'URSS grazie all'aiuto non solo solidaristico
ai dissidenti del sistema socialista, e d'altra parte ottenendo un controllo sulle ribellioni
terzomondiste, sospendendo di appoggiare apertamente i governi militari-fascisti, governi che
per questo si sono trovati in cattive acque nei confronti dell'opinione internazionale rispetto la
loro aperta violazione dei diritti umani, per sostenere la nuova borghesia socialdemocratica e
filo-americana di questi paesi nell'impegno di una trasformazione "democratica" come è
avvenuto in Nicaragua, nel San Salvador ed in parte nel Perù. Se dunque la politica statunitense in
America Latina è stata a favore di un parziale scollamento
nei confronti dei regimi militari, non solo perché "inumani", ma soprattutto perché retrivi rispetto
allo sviluppo dell'economia mondiale, nel continente africano Carter non è stato di meno. La
scelta di Young come ministro degli esteri aveva notevolmente migliorato i rapporti con i paesi
africani, più che non gli accordi di Pretoria siglati da Kissinger; una politica notevolmente più
propensa nei confronti della borghesia nera che stretta intorno allo slogan: "la maggioranza al
potere", aveva fatto sicuramente grandi passi in avanti come intelligenza politica a tal punto da
minacciare seriamente la politica dell'apartheid. Senonché questa operazione condotta
principalmente da Young consistente nell'avvicinare l'impero alla nuova classe dirigente africana
mitigando in questo modo le preoccupazioni di possibili interventi sovietici e cubani in Africa, è
stata quasi completamente abbandonata quando Carter ha esautorato dal proprio incarico il
ministro degli esteri statunitense per ovvie incompatibilità di vedute. Da allora i rapporti esteri
fra la Casa Bianca ed i paesi africani si svolgono sostanzialmente su forti ambiguità di fondo
inquantoché l'esigenza di avere basi militari nel continente nero all'indomani degli avvenimenti
iraniani ed afghani ha posto Carter nelle condizioni di patteggiare i diritti delle popolazioni nere
nei confronti degli schiavisti bianchi per una manciata di basi missilistiche e per qualche goccia
di petrolio in più. Come si vede ciò che Carter non ha potuto fare per mezzo dell'intervento
armato lo ha fatto
altrettanto bene grazie ai negoziati diplomatici, alle campagne per i diritti civili, ai trattati di
pace. Ne sono stati un esempio i "trattati di pace" di Camp David. Ciò che premeva alla Casa Bianca
non erano i possibili accordi fra israeliani e palestinesi sul problema del territorio, quanto la
possibilità di dividere il fronte arabo rispetto alla legittimità dell'O.L.P. di pretendere la
costituzione della nazione palestinese; perciò l'obiettivo non è stato quello di risolvere il conflitto
mediorientale, ma l'interesse primario degli USA era quello di circuire un paese arabo, l'Egitto,
entro la propria maglia con lo scopo di indebolire il fronte avversario appoggiato com'è ovvio dai
Sovietici. Ma una politica che mira a contenere le proprie disfunzioni, non è una politica di potenza
imperialista, anzi è una politica che dà adito a tutta una serie di pretese da parte di quei paesi
legati al carro occidentale, per essere partecipi direttamente della propria politica internazionale
senza essere succubi di alcune direttive. Così è stato per l'Europa. La crisi dell'industria
americana ha inciso sopratutto in Europa, in quanto l'inevitabile calo delle
quotazioni del dollaro si è percosso, con serio danno, sulle divise deboli europee - come la lira -
costringendo il MEC e la CEE ad intervenire in loro aiuto; la susseguente opera di retaggio da
parte del marco per affrancarsi le monete deboli staccandole, parzialmente o totalmente, dal
legame con le sorti del dollaro ha permesso la stessa Germania Federale e di rimando la Francia
nazionalista di operare una politica sempre più indipendente dallo schieramento occidentale ed al
contempo sempre più decisionale rispetto al contrasto Est-Ovest. L'Ostopolitik smithiana e
l'impegno giscardiano per un'intesa economica e politica fra i governi bolscevichi ed i governi
europei ha fatto pesare maggiormente l'influenza del vecchio continente fra i due blocchi potendo
in questo modo giocare sui margini; margini che ricattando l'Unione Sovietica di non aprire
ulteriormente i mercati europei fino a quando non operi una chiara politica di distensione rispetto
la questione degli armamenti, minaccia i nordamericani di non ottemperare agli impegni presi
all'interno del patto atlantico se i paesi europei legati alla NATO non ottenessero una maggiore
autonomia, e rispetto alle scelte strategico-militari, e rispetto alle relative spese. In ultimo, il simbolo di questa
débacle a livello di politica internazionale degli USA è stata
ovviamente la questione iraniana ed il conseguenziale problema degli ostaggi: non solo l'impero
ha perso una colonia, ma questa colonia diviene così minacciosa da indebolire ulteriormente
l'impero. Così uno dei tasselli della scacchiera internazionale, quel tassello ritenuto da sempre il
più sicuro ha creato una condizione di variabile impazzita che sguarnendo il fronte
nordamericano sul golfo Persico, ha addirittura favorito l'opportunità all'Unione Sovietica di
invadere, senza un eccessivo timore delle conseguenze internazionali, l'Afghanistan.
Difficilmente qualsiasi amministrazione americana, di fronte ad un concatenarsi di avvenimenti
tra capo e collo, sarebbe stata in grado di ribaltare la situazione in suo favore; Carter ne ha data la
prova: il tentativo di applicare l'embargo dei prodotti agricoli nei confronti dell'U.R.S.S. -
obiettivo proposto ai paesi occidentali - e l'isolamento economico e finanziario dell'Iran
all'indomani dell'imprigionamento dei 55 americani, ha dimostrato quanto gli Stati Uniti fossero
ascoltati e seguiti nelle loro proposte. Infatti, l'embargo contro l'Unione Sovietica per protestare
contro l'invasione afghana, non ha trovato quell'unità di intenti e di forza che Carter si aspettava,
ma il veto dato all'esportazione di grano in Unione Sovietica ha ingigantito la crisi interna degli
agricoltori americani con il conseguenziale crollo degli investimenti; nemmeno l'adesione sul
punto di vista puramente morale del boicottaggio dei giochi olimpici di Mosca, ha trovato
d'accordo i paesi occidentali a tal punto che anche questa mossa si è rilevata totalmente
improduttiva. Dulcis in fundo, la sospirata emarginazione dell'Iran da parte dei paesi europei
della NATO non è avvenuta a causa della paura europea nell'essere taglieggiata dai paesi arabi
nei rifornimenti di petrolio, il che ha provocato il perdurarsi della questione degli ostaggi a tutto
vantaggio del governo di Teheran, perché grazie a questo asso di picche ha potuto continuamente
ricattare la Casa Bianca ottenendo, di sottobanco, degli aiuti tecnico-militari all'indomani della
guerra con l'Iraq. Questo quadro della politica internazionale americana è il frutto, come abbiamo detto,
di una
crisi interna all'impero capitalistico, tale che diminuendo il tasso di investimento e aumentando
conseguenzialmente il numero di disoccupati (quasi otto milioni), ha posto l'amministrazione
Carter a gestire gli affari esteri dello stato senza quella carica espansionista che il capitale in crisi
non possiede, ed a operare nel suo interno una politica protezionista ed in favore di un maggiore
aumento delle spese sociali per contenere ogni possibile malcontento da parte delle classi meno
agiate. Naturalmente questa situazione non ha fatto altro che alimentare lo scontento della classe
media in una completa opposizione non solo contro la politica di restrizione economica interna,
ma soprattutto contro una politica liberal-democratica che, affetta dalla "sindrome Vietnam",
avrebbe condotto la potenza dell'impero in completa rovina e avrebbe declassato la borghesia
nordamericana dal ruolo di reginetta del capitalismo occidentale.
lo sguardo oltre la frontiera
Secondo quanto ha scritto Pierre Dommergues su Le Monde Diplomatique, le cause del declino
dell'impero capitalistico sarebbero dovute a fattori marginali; infatti la non felice posizione in cui
versa l'industria nordamericana è dovuta "all'incoerenza della regolamentazione governativa
(l'amministrazione della sicurezza stradale esige delle automobili più robuste e massicce, mentre
il dipartimento dei trasporti le vuole più economiche e leggere); la proibizione della vendita ad
alcuni paesi (l'embargo del grano contro l'Unione Sovietica) o la limitazione legata ad accordi
internazionali (restrizione sulla vendita di centrali nucleari in nome del trattato di non
proliferazione o a causa del non rispetto dei diritti dell'uomo per certi regimi). Fra le altre cause
del declino figurano il ritardo tecnologico nei settori dell'acciaio, del carbone e dell'edilizia; la
recrudescenza dell'ostilità nei rapporti tra padroni ed operai; l'esigenza non contenuta dei
consumatori, delle donne, dei giovani; ed infine l'inflazione considerata come sfavorevole
all'investimento. L'inflazione è esclusivamente attribuita alle spese (sociali) dello Stato troppo
eccessive, ad una politica monetaria lassista ed al blocco dei paesi produttori di petrolio". Ma
come più avanti afferma lo stesso Dommergues, di tutte queste cause non si fa menzione delle
enormi spese militari, spese socialmente improduttive, che secondo una stima del Melmann
ammontano ad un terzo del capitale fisso degli Stati Uniti contro il 2% impiegato dal Giappone. A questo punto
sorge spontanea la domanda: poiché la situazione nordamericana è in una
condizione così disastrata, con un forte handicap rispetto alla possibilità di una ripresa, con una
disoccupazione così montante il cui taglio della spesa pubblica non farà che aggravarla, dove la
concorrenza straniera minaccia non solo lo sviluppo estero, ma perfino quello interno, è mai
possibile che la nuova leadership cui fa capo Reagan abbia indirizzato la propria politica
unicamente nell'intento di favorire il liberalismo economico, il taglio degli oneri sociali e per di
più l'aggravio sulle casse dello Stato di un'ulteriore spesa nel campo militare? Sembrerebbe proprio che
l'americano medio abbia scelto di votarsi al suicidio quando il 4
novembre, eleggendo Reagan alla presidenza, ha dato il suo consenso a questa terapia per guarire
il vecchio impero. Senonché a un'attenta analisi di questo elettore - e negli Stati Uniti grazie ad
una percentuale di votanti che raggiunge a stento la metà dei possibili elettori, possiamo
sicuramente parlare dell'elettore come soggetto sociologico ben definito ed inquadrato in una
concezione etica del potere e della sua funzione nei confronti non solo della nazione, ma di ogni
singola persona americana - scopriremmo non tanto un aspirante suicida, quanto un non mai
sopito spirito di colono in cui la frontiera spinge ad andarle oltre. Come nei tempi ormai lontani,
questo colono non ha dubbi su quello che rappresenta la frontiera: la conquista del benessere
illimitato; e se talvolta capita che questo benessere stenta ad arrivare o è in perenne declino, ciò
non è a causa del processo di depauperazione che il mito della frontiera e quindi del consumismo
più sfrenato instaura, bensì la colpa va addebitata a chi ostacola il libero raggiungimento della
frontiera e in chi pone ad essa dei limiti.
Ronald Reagan è dunque, se così si può dire, il simbolo della rinascita del vecchio mito
della
frontiera, ove il colono, nella libertà della sua solitudine riconosciuta dallo Stato, affronta con
piena fiducia nelle proprie forze e nutrendo disprezzo per chi "non guarda oltre la frontiera" il
destino; un destino da nulla delimitato, anzi aperto verso il progresso economico e morale, in
quanto il colono è sicuro nell'aiuto della fortuna a chi fa da sé. Di questa Weltanschauung è
pienamente consapevole la classe dirigente. In una struttura sociale ove l'apporto tecnicistico
costituisce la sua base ed ove i tecnici rappresentano i vertici piramidali, si avverte la necessità di
controbilanciare il potere dei tecnocrati con dei "quadri perspicaci e visionari che pongono
l'accento sull'intuizione ed una visione globale dell'insieme della realtà industriale" come il
Business Week, in un suo dossier di qualche anno fa, ha scritto; lo sforzo, come più avanti la
fonte citata afferma, è indirizzato nel tentativo di dare dei valori etici e filosofici alla fredda e
matematica organizzazione dell'impero, valori etici e filosofici che all'indomani della guerra
vietnamita hanno subito dei durissimi colpi. Insomma gli americani devono liberarsi dalla colpa
di essere una potenza, anzi devono proprio legittimare il fatto di esserlo; è giunto il momento di
lasciare dietro alle spalle il passato rifondendo la filosofia e l'etica del colono con lo sguardo
fisso oltre la frontiera. A nostro avviso e nella chiave interpretativa fin qui data, il periodo della presidenza
Carter è
stato un periodo di transizione, finalizzato al riaggiustare alla meno peggio la carcassa di un
impero che, subita la pesantissima débacle estremo orientale, ha cercato di ricostruirsi la
verginità di una potenza libera nella libertà e per la libertà sua e dei suoi alleati. Purtroppo
questo
periodo di ricostruzione dell'impero è coinciso con una delle più pesanti crisi che il sistema
capitalistico ha mai sopportato: la crisi energetica. Questo fattore, come abbiamo visto, ha creato
delle dure disfunzioni all'interno dell'apparato industriale, imponendo alla passata
amministrazione tutta una serie di limitazioni e di aggravi fiscali all'economia nordamericana,
creandovi nel suo interno dei grossi scompensi. Da qui è nata appunto l'esigenza di ritornare sui
binari della propria corsa senza continuare nel deraglio. Ma in quale modo? La capillare opera d'indottrinamento
che la stampa, i canali radiotelevisivi, i mass-media hanno
forgiato prima, durante e dopo le elezioni presidenziali, è stata indirizzata più che alla scelta del
nuovo presidente all'aperto invito nei confronti dell'americano medio di esser consapevole della
necessità di cominciare ad osare, a pretendere a volere dai propri eletti una politica più audace e
meno restrittiva sia in campo interno che in quello internazionale. D'altra parte, i tre quotidiani
più influenti (Wall Street Journal, New York Times, Washington Post) al pari delle tre stazioni
più ascoltate (C.B.S., N.B.C., A.B.C., con oltre cento milioni di ascoltatori) non hanno impostato
nessuna campagna elettorale in favore di Reagan o Carter; se mai potremmo dire che il IV potere
abbia "favorito" il terzo candidato alla Casa Bianca, scegliendo fra i tanti il signor Anderson.
Questo perché l'informazione di massa negli Stati Uniti svolge un'attività giornalistica "al di
sopra delle parti", in quanto la propria attività non è di ostacolo ai principi cardini dell'impero
(nessun americano potrà mai trovare sul New York Times o sul Washington Post
articoli che
rimettono in discussione il concetto di economia capitalista e del metodo con cui essa si
sviluppa), ma nell'avallarli cerca di trovarne la soluzione più "familiare alle masse". Il IV potere
in America è "autonomo" rispetto al potere politico, se per questo si intende la solfa
elettoralistica, e i dati spiegano anche il perché: il deputato può venire eletto se la stampa decide
di appoggiarlo, ma non può obbligare la stampa ad appoggiarlo; Carter in quanto presidente
avrebbe potuto politicamente condizionare l'informazione di Stato in suo favore, ma niente di
tutto questo, se si leggono i giornali statunitensi, è avvenuto; non tanto perché il IV potere avesse
optato per la candidatura del repubblicano, quanto perché la stampa e la televisione hanno da
sempre posto in primo piano i problemi quotidiani con cui le classi si scontrano: la
disoccupazione, l'inflazione, le tasse, gli smacchi in politica internazionale. Con questo nessuno
vorrebbe avallare la tesi che l'informazione in America è "neutra", per carità; ma proprio
perché
l'informazione non è neutra, il IV potere americano, legittimatore e fautore dell'imperialismo, non
ha "votato" per l'uno o per l'altro candidato, ma "ha votato" e "ha fatto votare" per il
cambiamento di rotta politica dell'economia statunitense. I dati forniti dalla stampa, dalle radio televisioni, dai
mass-media hanno fatto sì che la classe
media desse una risposta negativa a come finora la politica economica ha cercato di risolvere la
crisi mediante il rilancio dell'industria non più con la simulazione della domanda, ma grazie
all'aiuto indiretto o diretto dello Stato e per la sua politica di investimenti nel tessuto sociale.
L'aggravio fiscale, l'ingerenza statale negli affari economici e conseguenzialmente la flessione
subita dall'impresa privata ha notevolmente predisposto l'elettorato americano a votare per i
Repubblicani; i quali, grazie alla politica della riduzione delle imposte statali, da ridursi del 30%
nel giro di tre anni; grazie alla dichiarata non ingerenza dello Stato negli affari del capitale
privato e nei conflitti fra questo ed i lavoratori; grazie ancora ad un ridimensionamento della
spesa pubblica (in pratica lo smantellamento del Welfare State, dai sussidi per i disoccupati alla
restrizione dei fondi per le scuole e le università); ed infine grazie ad una politica internazionale
che vede l'americano medio protagonista vincente delle magnifiche e progressive sorti, si sono
dimostrati non tanto i pionieri di un nuovo corso storico degli Stati Uniti, quanto i vecchi coloni
anglo-americani che nella costante ricerca dell'ultima frontiera non ne intravvedono mai il limite.
l'immaginazione del potere
Più che una sorpresa dunque Ronald Reagan è stato una necessità. La "svolta a destra"
della
nuova amministrazione americana - che riceverà il comando soltanto il 20 gennaio prossimo - è
la logica risposta alla domanda posta da Appleman Williams nell'articolo apparso in agosto su
The Nation: "L'idea e la realtà dell'America sono possibili senza impero?". Per questo riteniamo
Reagan tutt'altro che una sorpresa; perché è l'espressione di un impero il quale, trovatosi in
difficoltà economiche ed in condizioni moralmente depressive, deve a tutti i costi riaffermare la
sua potenza e la sua arroganza, pena il declino fino alla morte. Non si vuole però dire che la
svolta assunta da Washington sia un gesto di disperazione; al contrario, il tentativo che i
conservatori repubblicani stanno sperimentando si fonda sì sulla negazione della realtà, ma per
rappresentarla in un'immagine amplificata e totalmente positiva: se occorre sfruttare le minoranze
etniche, se è necessario aumentare le disparità fra i lavoratori ed il padronato, se si deve insomma
limitare la frontiera, ebbene: tutto questo sia, ma a patto che l'impero americano possa ricoprire
le antiche posizioni strategiche abbandonate o perdute dal "lassismo carteriano", ricoprendo il
ruolo di braccio armato della libertà dell'occidente. Stiamo però attenti a non cadere nel facile
errore di considerare i repubblicani dei perfidi falchi
ed i democratici delle candide colombelle; Carter non si è dimostrato un guerrafondaio, non
perché non lo sia stato, ma perché non ha avuto l'opportunità di dimostrarlo in modo
spettacolare.
Il giocare a rimpiattino con i diritti dell'uomo da parte dell'ex-amministrazione statunitense è
stato un tentativo per frenare e contenere l'orso sovietico; un tentativo purtroppo fallito e per
l'inconcludenza dei fatti, e per le mosse in anticipo e favorite da questa politica dell'U.R.S.S.,
come l'esempio afghano dimostra. Ad una tale situazione pare naturale, sempre nell'ottica della domanda di
Williams, che l'impero
nordamericano dovesse reagire rilanciando la politica della guerra fredda; ma attenzione: questa
politica della guerra fredda non è soltanto la prerogativa dei repubblicani, perché gli ultimi due
dell'incarico della presidenza han visto l'aumento delle spese militari, il ripristino
dell'arruolamento obbligatorio, l'ingerenza sempre più massiccia degli USA in seno alla NATO, i
vari golpe favoriti da "mani amiche", e le possibili alleanze - unicamente tattiche, come gli
accordi sul rifornimento delle armi alla Cina Popolare - contro l'Unione Sovietica. Ma se
l'amministrazione Carter nel far tutto questo non ha dimostrato quell'immaginazione necessaria
per la buona riuscita dello spettacolo, essendo un'amministrazione troppo tecnica, troppo fredda,
e sopratutto preoccupata di delimitare i limiti di spazio dell'americano medio, il neo-presidente,
Ronald Reagan, possiede secondo il nostro modesto giudizio di critici cinematografici, il crisma
per poter interpretare il personaggio del colono americano, un po' cretino, ma con tanta fiducia
nella necessità del caso. E se questa non è una sorta di immaginazione del potere,
ditemi voi cos'è.
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