Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 70
novembre 1978 - dicembre 1978


Rivista Anarchica Online

Pedagogia e nonviolenza
di Matteo Soccio

Matteo Soccio, autore di questo articolo è un attivo militante del movimento nonviolento, del cui periodico Azione Nonviolenta è redattore insieme con Pietro Pinna. Per essersi rifiutato di sottoporsi al servizio militare, Soccio ha scontato un anno di carcere. Attualmente insegna a Vicenza.
Noi non condividiamo l'ideologia nonviolenta e riteniamo equivoco e pericoloso fare dell'astratta questione violenza/nonviolenza la discriminante intorno alla quale aggregarsi ed agire. Abbiamo avuto modo, però, di conoscere e di apprezzare il rigore etico e la coerenza pagata di persona dei militanti nonviolenti - che abbiamo ritrovato al nostro fianco nel corso di lotte antimilitariste. nel pubblicare questo articolo sul nesso (inscindibile, secondo Soccio) tra educazione e nonviolenza, invitiamo i compagni ad intervenire sull'argomento
.

Preciso subito che non intendo qui trattare di aspetti e problemi dell'educazione "nonviolenta" come un modo di essere dell'atto educativo, come un problema che riguarda esclusivamente la tecnica. Certo le tecniche, le metodologie sono importanti, ma un'indagine sulle tecniche educative esenti da imposizioni e da violenze coinciderebbe facilmente con il modo d'impostare il problema che è proprio della tradizione pedagogica libertaria (o non-autoritaria) con la quale quella non-violenta ha molti punti di contatto, e non si capirebbe allora cosa abbia di specifico l'educazione non-violenta.

Intendo invece porre la non-violenza al centro del processo educativo, vedere l'educazione come "educazione alla nonviolenza", sottolineare che non c'è educazione se non nella pratica della nonviolenza. In questo senso non si pone obbligatoriamente neanche il problema dei modi di attuarsi della nonviolenza nella scuola.

Se la scuola è un modo di porsi di questo sistema (e cosa sia questo sistema tutti lo sappiamo e lo paghiamo sulla nostra pelle!), la nonviolenza, che è conoscenza dei modi indispensabili per liberare gli uomini dallo sfruttamento reciproco e dalla violenza, nel suo farsi educazione non ha bisogno del momento istituzionalizzato, non necessita di scuola, anzi si deve realizzare nonostante la scuola. Insomma non è necessario che ci sia quell'istituzione chiamata scuola perché qualcosa si insegni.

Il processo educativo si identifica allora con un processo di trasformazione dell'uomo in direzione della non-violenza, con la propria vita, con la testimonianza e la lotta non-violenta, e non riguarda soltanto i fanciulli, ma anche gli adulti. Per questo l'opera di tutti i grandi fautori della non-violenza (ad es. quella di Gandhi e di Aldo Capitini) è stata innanzitutto opera educativa. La vita di questi uomini è stata prima di tutto un'esperienza di rigorosa autoeducazione, autodisciplina, autoformazione. Gandhi e Capitini erano convinti che solo a partire dalla volontà e dalla persuasione individuale si potessero produrre trasformazioni sociali e politiche, e vedevano nella nonviolenza uno strumento di educazione individuale e insieme di riforma sociale. I maestri della nonviolenza sono stati sempre educatori in sé, prima che in altri, della nuova vita.

Che cosa caratterizza la nonviolenza come educazione? Prima di tutto un senso di insoddisfazione per quello che c'è, un senso di profonda scontentezza per il modo attuale di essere della società per la presenza in essa di errori e limiti profondi, la coscienza dell'esistenza di ingiustizie e sopraffazioni politiche e sociali, a cui fa riscontro una volontà di trasformare, di aprire, di liberare, che è anche un dovere per il nonviolento.

La nonviolenza si presenta come educazione al più strenuo dissenso: non accetta le ingiustizie e le sopraffazioni, non accetta gli egoismi, è continua educazione alla noncollaborazione con la violenza, è dire no alla violenza degli stati, degli eserciti, delle polizie, dell'economia del profitto ecc.. L'educazione alla nonviolenza è in antitesi profonda con quel carattere di educazione a varie obbedienze che è proprio del sistema scolastico, dove tra l'altro si approva o si tenta di giustificare, almeno nelle linee essenziali, tutto il sistema attuale, lo stato, l'esercito, il servizio militare obbligatorio, l'obbedienza passiva, i codici e i tribunali militari ecc.. Nella scuola-istituzione gli "educatori" diventano troppo facilmente complici delle classi dominanti che chiedono obbedienza all'autorità e non allo spirito di una democrazia in sviluppo. Educazione nonviolenta è invece quella dalla cui opera non vengono fuori sudditi obbedienti, ma obiettori di coscienza.

Un secondo aspetto che caratterizza l'educazione alla nonviolenza è un modo diverso di porre il rapporto tra mezzi e fini, diverso da quello del passato, da quello machiavellico che voleva qualsiasi mezzo giustificato dalla bontà del fine. Per la non violenza il fine non giustifica i mezzi se questi portano a conseguenze gravi e contraddittorie rispetto al fine stesso. In una educazione alla nonviolenza mezzi e fini sono termini convertibili. L'attuazione dello scopo, diceva Gandhi, è esattamente proporzionale ai mezzi impiegati: "quali i mezzi, tale il fine". Questo significa che i mezzi devono essere della stessa natura dei fini.

Non si tratta di "scrupoli". La convinzione che non vi sia rapporto tra mezzi e fine è un grande errore. Per via di questo errore, ricordava Gandhi, anche persone che sono state considerate religiose hanno commesso crudeli delitti. È come pretendere di ottenere rose piantando erbe nocive: "il mezzo può essere paragonato ad un seme, il fine ad un albero; tra il mezzo e il fine vi è appunto la stessa inviolabile relazione che vi è tra il seme e l'albero". Questa attenzione al rapporto tra mezzi e fini nasce dal bisogno di considerare gli esseri razionali come fini e non come mezzi. Così Hegel nella Filosofia del diritto dice che il progresso è l'aumento delle cose che non possono essere usate come mezzo. Una volta lo schiavo era considerato come cosa e il padrone poteva farne quello che gli pareva. Oggi non possiamo più considerare una persona come cosa. Il capitalismo considera il lavoratore come mezzo, il socialismo vuole vederlo come fine.

John Dewey nel suo libro Natura e condotta dell'uomo invita a considerare la gravità dell'uso di certi mezzi. Non si può dire semplicemente che tutti i mezzi sono buoni se raggiungono il fine. Bisogna considerare il costo dei mezzi, le conseguenze del loro uso. Se il loro uso costa troppo, questi mezzi non sono da usare: "non posso, per vedere una grande fiamma, incendiare una casa con la gente dentro". Questa riflessione sul rapporto tra mezzi e fini si può estendere, ad esempio, alla guerra atomica. Le conseguenze dell'uso delle bombe atomiche sono troppo gravi per giustificare un qualsiasi fine.

È per questo che la nonviolenza come educazione porta a nonscegliere le scorciatoie della violenza, sviluppando un modo di pensare e di agire che non sia oppressione o distruzione di esseri viventi, e in particolare di esseri umani. L'astensione volontaria dalla violenza è una condizione indispensabile perché anche un metodo o una tecnica di lotta politica si caratterizzino come nonviolenti. L'aspetto educativo consiste in questo: in caso di errore, le scelte e le azioni nonviolente non si presentano come definitive e irreparabili (come è il caso di quelle dettate dalla violenza). Il metodo nonviolento permette infatti di rimeditare le proprie scelte ed eventualmente di modificarle, avvalendosi di critiche e contributi.

Un terzo aspetto: la nonmenzogna, il rispetto della verità. Anche questa è una condizione della nonviolenza e comporta che si rispetti l'obiettività e l'imparzialità, che non si pongano mezzi che non possono essere compatibili con la verità: se il fine è la verità, come possiamo adoperare la menzogna come mezzo? È evidente il valore educativo della nonmenzogna. Secondo Capitini è "uno dei principi più veri, e di quelli che aprono di più il nostro io, fino a farci cogliere nel più intimo la compresenza di tutti. Se parliamo non possiamo che dire ciò che abbiamo in mente". Se c'è in noi questo impegno, tutto quello che pensiamo e facciamo si libera dai vari utilitarismi e particolarismi ed è più vicino all'affermazione della libertà e del benessere di tutti senza esclusione.

Questa attenzione a tutti è un'altro carattere fondamentale della nonviolenza. Capitini insisteva molto su questa apertura a tutti che riteneva dovesse essere (nell'atteggiamento nonviolento) preliminare e permanente. Capitini usava l'espressione "orizzonte di tutti", ad indicare che si tratta come di un punto di riferimento, di un'aspirazione. La vita, la libertà, la giustizia, la verità, il benessere, non possiamo volerli soltanto per noi, ma per tutti. Non possiamo lottare per una cosa che consideriamo un valore senza farlo per tutti. Soltanto questa apertura fondamentale, questa apertura a tutti senza discriminazioni razziali o ideologiche, che è fiducia nell'infinita possibilità di miglioramento di ogni essere umano, può ispirare azioni che portano all'avvento di quel mondo nuovo, di quella società in cui tutti gli uomini siano ugualmente (e felicemente) presenti senza eccezione di fortuna, senza violenza e sfruttamenti reciproci. È per questo che l'educazione nonviolenta insiste sulla distinzione, come si suol dire, tra peccato e peccatore e "fa che sul primo si scarichi, e non sul secondo, l'impeto e l'augurio della soppressione" (Capitini). Nella costruzione di un mondo più giusto il nonviolento coinvolge anche l'avversario.

Un'altro aspetto consiste nella disposizione al sacrificio. Il nonviolento sa sobbarcarsi il peso della sofferenza che può venire da certe scelte ed anche dalla lotta nonviolenta. La verità, ad es., il nonviolento la difende non facendo soffrire l'avversario, ma accettando per essa di soffrire e di pagare di persona. Questa disponibilità a soffrire è nella lotta nonviolenta particolarmente importante perché testimonia della serietà con cui il nonviolento ha abbracciato la propria causa. Non significa però che il nonviolento accetti l'umiliazione e assolva l'oppressore imponendo l'intero peso delle sofferenze sulle spalle degli oppressi. Il nonviolento non ripiega dalle proprie posizioni, rinuncia soltanto alla ritorsione. Questa disposizione al sacrificio (che riporta all'accettazione, al limite, anche della propria morte) è fatta di autentico coraggio. La nonviolenza non ci dà un vile che si ritira e si lava le mani, ma forma un combattente. Come tale non si può concepire senza la qualità del coraggio: "il nonviolento - diceva Gandhi - ha detto per sempre addio alla paura".

E c'è un altro punto fondamentale che caratterizza la non violenza come educazione: L'atteggiamento costruttivo. Chi si sente vicino alle posizioni della nonviolenza si sente anche impegnato a realizzare qui e subito, per quanto è possibile, il tipo di società e di rapporti umani che intende realizzare: ogni giorno bisogna fare qualche cosa in questa direzione. C'è la persuasione che la singola iniziativa nonviolenta apra un "nuovo corso", qualcosa di inedito rispetto alle violenze del passato. Non c'è educazione nonviolenta se non nella realizzazione pratica della nonviolenza. Per questo i nonviolenti amano scrivere la parola con grafia unica, per sottolineare che non si tratta solo di negare la violenza, di rifiutarsi di accettare come legge le violenze che vediamo nel mondo, ma di realizzare un'alternativa di vita, l'esempio di un positivo modo di esistenza, che è già rivoluzionario rispetto al modo attuale di essere dell'umanità e della società.

Un'altra cosa da mettere in rilievo è che la nonviolenza come educazione fa crescere la volontà e capacità di trasformare. Chi lavora per la nonviolenza ha sempre e tanto da fare, rompe con ciò che vuole continuare come prima, non accetta ritardi, rinvii, pretesti, non è inerte, inattivo, anzi è attivissimo e "appunto perché non aspetta di avere armi decisive, cerca di moltiplicare le iniziative e i rapporti con gli altri, e sa bene che si può sempre fare qualcosa, se non altro trovare degli amici, dare la parola, l'affetto, l'esempio, il sacrificio; e tante volte accade che i rivoluzionari, gli oppositori che contano soltanto sulle armi, se non le hanno, stanno inerti, e sono bloccati e sorpassati dai più forti, mentre i nonviolenti, lavorando instancabilmente, hanno tolto il terreno ai potenti, hanno preparato il cambiamento". (Aldo Capitini).

Più oltre si può vedere nella nonviolenza una leva per trasformare la stessa struttura psichica dell'uomo che non va vista, come fa certa psicologia, come qualcosa di immutabile nella sua tendenza alla violenza. C'è anche, insisteva Capitini, l'apertura ai valori e alle persone, una tendenza all'unità-amore verso tutti gli esseri che l'educazione deve mirare a confermare e sviluppare.

William James ricercava all'inizio del secolo qualcosa di morale e di appassionato equivalente, per la psiche, alla tendenza alla guerra. Questo qualcosa può essere la nonviolenza con il suo atteggiamento di critica alla realtà attuale, con la sua lotta per rinnovarla senza aggiungere odio per i singoli e senza usare i metodi violenti. Pensiamo a quanti sfoghi della "naturale" tendenza all'aggressività avrebbero esiti positivi se incanalati e purificati dall'uso di quelle tecniche della nonviolenza che, applicate in qualsiasi lotta non portano alla distruzione fisica dell'avversario e permettono ad ognuno di fruire di una parte di potere nell'esercizio del consenso e del dissenso.

Quelli che ho indicato sopra, in modo succinto e schematico, sono soltanto alcuni aspetti anche se i più importanti della nonviolenza vista come educazione. La nonviolenza valorizza anche altri sentimenti, atteggiamenti, realizzazioni che a chi guarda le cose in modo esteriore e sbrigativo possono sembrare irrilevanti mentre per il nonviolento sono importantissime: il principio di saper "ascoltare e parlare", la gentilezza costante, la lealtà, il perdono, l'attenzione alle persone limitate (vecchi ed handicappati), la gioia di riunirsi con altri, la festa ecc.. Per ora è sufficiente quello che abbiamo già messo in rilievo.

A questo punto gli scettici diranno che la violenza c'è sempre stata nel mondo, che bisogna accettarla, che non ha senso educare a questa cosa che è la nonviolenza. Altri ci chiederanno come sia possibile educare alla nonviolenza. Ai primi, per brevità, rispondiamo che siamo proprio noi che dobbiamo decidere della nostra vita, stabilire i nostri criteri ed orientamenti, e come educatori dobbiamo interessarci meno del passato che è fatto di abitudini e più del futuro che è fatto di esigenze e di aspirazioni. Insomma non è importante rispondere a chi non si pone in una situazione di "buona volontà" verso la nonviolenza.

Agli altri rispondiamo che il come viene dopo. La prima cosa da comprendere è che si tratta di una scelta e che questa è fatta per un principio. Il piano della tecnica (il "come") è diverso da quello della decisione, della scelta morale: se scelgo la nonviolenza la mia tecnica pedagogica riuscirà a trovare i modi per attuarla, perché ha già il suo orientamento. Prima di tutto dobbiamo trovare in noi "educatori" (non solo quelli specializzati, ma gli adulti in generale) un denso spessore di interesse e di attuazione quotidiana della nonviolenza. Il resto verrà con l'esempio e proprio praticando la nonviolenza: "la nonviolenza fa bene a chi la compie e a chi la riceve; i mezzi buoni hanno prima o poi successo".

Per chi volesse esplicitare e approfondire ulteriormente l'argomento di questo articolo suggeriamo una bibliografia minima essenziale: sulla non violenza in generale: Gene Sharp, The Politics of Nonviolent Action, 3 voll., Porter Sargent Publisher, Boston, 1973; J.M. Muller, Strategia della nonviolenza, Marsilio, Padova, 1975; AA.VV., Marxismo e nonviolenza, La Lanterna, Genova, 1977.

Su Gandhi: L. Fischer, La vita di Gandhi, La Nuova Italia, Firenze, 1971; E. Erikson, La verità di Gandhi, Feltrinelli Milano, 1972, Dh. Mohan Datta, The Philosophy of Mahatma Gandhi, The University of Wisconsin Press, 1953; M.S. Patel, The Educational Philosophy of M. Gandhy, Navajvan Press, Ahmedabad, 1956; M. Gandhy, Teoria e pratica della nonviolenza, Einaudi, Torino, 1973.

Su Capitini: Numero speciale della rivista "Azione nonviolenta", sett.-ott. 1978; Il messaggio di A. Capitini, a cura di G. Cacioppo, Ed. Lacaita, Manduria (Taranto), 1977; A. Capitini, La nonviolenza, oggi, Comunità, Milano, 1962; A. Capitini, Le tecniche della nonviolenza, Feltrinelli, Milano, 1967; A. Capitini, Educazione aperta, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze, 1967-68.