Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 66
maggio 1978


Rivista Anarchica Online

Crisi della militanza o militanza della crisi
di G. L. Pascarella

Crisi della militanza quante vittime furono immolate in tuo nome sull'altare della rivoluzione bella e vendicatrice! Quanti leaders hai reso orfani della corte dei miracoli. Almeno in numero pari ai cultori dello "svaccamento" che hai partorito!

Quante ottuse e fideistiche certezze hai cancellato, quante liturgiche assemblee di partitini hai disperso al vento della fantasia. Strano davvero il tuo destino: irradiata dal più sfrenato desiderio della felicità, della gioiosa scoperta della soggettività creativa, hai finito per codificare nel tuo nome le angosce di una moltitudine di non garantiti in postpubertà e di qualche canuto Gondrano attanagliato da chissà quali turbamenti.

Crisi della militanza o militanza della crisi? Si è dovuti ricorrere ad una Ode per aggiungere un quid alle celebrazioni della "crisi". Poche settimane orsono due case editrici si sono contese senza lesinare colpi di pubblicazione di alcune centinaia di lettere ad un giornale che edifica un muro del pianto quotidiano. Della povertà culturale del "compagno sconvolto", del suo linguaggio multisignificante quanto vacuo s'è dovuto stilare un dizionario. Filmare impietosamente un gruppo di "militanti in crisi", spiarli nella patetica routine sinistrese, ha coinciso con l'avvenimento cinematografico dell'anno. Dovendo perciò rispondere alla legittima domanda sulla qualità e l'entità "della crisi fra compagni" con una totale adesione al principio che vuole forma e contenuto in perfetta sintesi dovremmo iniziare con cazzo compagni, cioè sto male, sento vibrazioni negative.... Ma forse è opportuno transigere sulla coincidenza fra significato e significante e interrogarsi sui connotati di questo stato d'animo.

Già perché di stato d'animo si deve parlare: almeno all'inizio del fenomeno, questa conclamata crisi altro non ha significato che la fotografia del meravigliato sconcerto di una generazione di adolescenti che nell'andare a scoprire e cambiare il mondo, come peraltro compete al suo stadio evolutivo, ha percepito che i modi e le grammatiche tracciate da chi li aveva preceduti erano avvizzite come le tette delle rivoluzioni disegnate in stile liberty dalla iconografia socialista, rivoluzioni che apparivano sempre più mitiche.

E proprio per il suo connotato di contingenza (che gli deriva dall'essere un "sentimento") ci sarebbe da chiedersi se la scoperta del personale e il rifiuto della organizzazione feticcio abbiano veramente cambiato la soggettività dei singoli nel rapporto con il movimento, abbiano ricucito la smagliatura fra le miserie della quotidianità e l'Utopia rivoluzionaria, o se la crisi della militanza altro non sia se non l'ennesima manifestazione subculturale di chi ha fatto della propria condizione precaria una mistica.

Fra tutte le sue controverse manifestazioni, alla "crisi" va riconosciuto il merito di avere fatto piazza pulita della concezione afflittiva dell'intervento politico. Spronati dall'imperativo categorico, dal richiamo messianico di "farsi il culo" migliaia di militanti hanno vissuto ogni loro gesto con spirito autopunitivo. Turbati da reconditi sensi di colpa, credendosi Cristi reincarnati e perciò sintesi di tutti i mali dell'umanità, segnarono ogni loro aspirazione a centellinare autoflagellazioni fatte di levatacce mattutine per distribuire volantini ad operai rintronati non solo dal sonno, condannandosi ad espiazioni nelle sedi/santuari con iterative ed interminabili riunioni.

Ma che importanza aveva se la classe si mostrava impermeabile, se le riunioni si trascinavano sempre più penosamente, di fronte alla malcelata gratificazione di una masochistica vocazione al martirio che scandiva l'esistenza dell'agit-prop. Ma non si fa a tempo a finire di considerare positivamente l'avvento della "crisi" che viene da chiedersi se l'abbandono della militanza severa e totalizzante non abbia lasciato il posto ad una mentalità comportamentale all'insegna "del menarsela". All'attestazione collettiva di fede nell'organizzazione come "fuori di sé" si è sostituita, col sopravvento del personale sul politico, la liturgia del piangersi addosso, dell'accettazione fatalistica delle proprie contraddizioni che si confessano pubblicamente senza la più pallida tensione al cancellare ma tuttalpiù ad alleviare le proprie sofferenze con gli artifizi dell'"arte di arrangiarsi".

Appare perciò lecito domandarsi quali modelli culturali abbiano preso il posto della militanza da travet; fino a che punto la "crisi" abbia elaborato nuovi esperimenti esistenziali e non si sia più semplicemente limitata a cambiare di/segno senza entrare nel merito della sostanza dei dogmi, delle facilonerie, dei luoghi comuni così cari ad una certa sinistra.

Prendiamo ad esempio la mentalità manichea della divisione fra buoni e cattivi, fra borghesi panciuti e operai emaciati, cavallo di battaglia della subcultura di sinistra. Chiaro che oggi la dedizione assoluta al mito della subordinazione alla classe operaia per molti è venuto a cadere, ma si va sempre più affermando la contrapposizione di simboli vacui e indefinibili come lo stato satanico e l'individuo "spappolato". Accostiamoci al problema dell'emarginazione e della sua riproduzione meccanica all'interno dei microcosmi rivoluzionari. Quanti fiumi di inchiostro si sono versati per gridare omosessualità liberate dall'astio e dal disprezzo "degli stessi compagni". Forse troppi, visto che oggi paradossalmente si rischia l'abiura se non si proclama una pubblica professione di omosessualità più o meno latente. Lo stesso dicasi per i ruoli fra i sessi: si pensi a processi revanscisti messi in atto da gruppi di femministe nei confronti di compagni "sciovinisti", rei di non adeguarsi ai codici di comportamento ratificati dalla visione femminile del mondo. Si pensi all'isolamento cui è condannato chi non si fuma lo spinello, fino a qualche mese prima deprecato perché motivo deviante dall'impegno militante.

Non è con le comode schematizzazioni che nascondono le proprie miserie, con i semplici ribaltamenti delle concezioni e delle pratiche che si producono gesti rivoluzionari. Tutto questo non è saccente moralismo. L'ideologizzazione del vittimismo, il crogiolarsi nello smarrimento, la filiazione ad un "movimento" dai contorni mal designati, ma comunque dispensatore di ricompense, non possono che portare alla creazione se non di leaders conclamati (dopo la crisi della militanza non più à la page) senz'altro a sudditanze collettive e a psicologie gregarie. Pontificare la crisi significa creare i presupposti per la codificazione di condizioni di subalternità e di emarginazione.

Ci sono prove a conferma del fatto che la gente tende a reagire positivamente ai modelli di leadership autoritaria quando è emozionalmente insicura, o si trova in una situazione sociale ambigua e critica. Si ricorderà che una delle funzioni del leader è di sollevare l'individuo dalla responsabilità di prendere decisioni: queste asettiche riflessioni di un gruppo di psicologi americani sui meccanismi di leadership non si possono relegare nei laboratori dell'università di psicologia. Sono un pesante monito che grava sulle teste degli strateghi della disgregazione del personale, dei sacerdoti delle liturgie dell'autocommiserazione, dei cantori della vanità di ogni pulsione rivoluzionaria.