Rivista Anarchica Online
Testimonianza di una ex guardia rossa
a cura della Redazione
La lettera che pubblichiamo è stata scritta da un compagno cinese, ex-guardia rossa, agli
organizzatori del convegno internazionale di studi sui "nuovi padroni" al quale era stato
invitato ma non ha potuto partecipare.
Considero positivo il fatto che il problema della burocrazia cinese abbia attirato la
vostra attenzione. In questa sede voglio portare il mio contributo in merito. Il nuovo
gruppo dirigente cinese, con la sua politica di "liberalizzazione", sembra essere riuscito
momentaneamente a mascherare le contraddizioni esistenti tra il popolo e il Partito-Stato, e ad infondere una certa speranza di cambiamento, perfino a quei cinesi
d'oltremare rimasti finora su posizioni ferocemente anticomuniste. La morte di Mao e la
caduta della "banda dei quattro" non costituiscono, a mio avviso, alcuna forma di
rottura reale nella politica cinese, dal momento che non vi è stato alcun cambiamento
nei rapporti di potere tra il popolo ed il Partito-Stato. Sotto numerosi aspetti e
soprattutto riguardo ai principi della "gestione", la politica attuale non rappresenta in
realtà che un ritorno alla linea precedente la rivoluzione culturale, cioè la cosiddetta
linea di Liu-Sciao-Ci. Questo "ritorno" non avviene per caso e neppure significa che gli
attuali dirigenti siano seguaci di Liu: dimostra semplicemente che il Partito è incapace
di trovare una formula migliore e diversa per risolvere i problemi socio-economici che
non sia quella di oscillare tra il metodo di persuasione materiale e la pressione politica
(si tratta beninteso di un attento dosaggio della commistione di questi due elementi).
Nonostante io sia antimaoista (...); io penso tuttavia che Mao sia stato l'ultimo
"rivoluzionario" fra i dirigenti del Partito. Gli altri, tanto nella loro visione politica
quanto nel loro ruolo, non sono, nella migliore delle ipotesi, che dei funzionari (buoni o
cattivi) ai quali tutte le campagne politiche del passato e soprattutto la rivoluzione
culturale non hanno ispirato che paura e senso di insicurezza. Il Partito oggigiorno è
divenuto sempre più monolitico, unificato dalla paura di una contestazione popolare.
Sul piano economico, non essendo capaci di prevedere o meglio di accettare altre
alternative al di fuori dell'industrializzazione della Cina sulla base del collettivismo, gli
attuali dirigenti faranno ricorso sempre più a colpo sicuro alla tecnoburocrazia, agli
"esperti", per poter raggiungere dei "progressi" economici. Personalmente non sono
contrario alla "liberalizzazione" in sé, poiché il popolo cinese ha sofferto troppo e per
troppo tempo l'"austerità" disumana di non felicitarsi per una sua riduzione in qualsiasi
modo avvenga. Ma l'attuale politica di liberalizzazione perseguita dai dirigenti cinesi
sarà accompagnata alla lunga da una accentuazione delle ineguaglianze sociali di tutti i
tipi: il che significa che si rischia di riportare la Cina alla situazione precedente la
rivoluzione culturale.
Qualunque cosa si possa dire oggi della rivoluzione culturale, condannandola per i suoi
eccessi e per altre ragioni, non bisogna dimenticare che le contraddizioni tra il popolo
ed il Partito-Stato che essa ha rivelato erano reali e rimangono irrisolte. Quanto al
popolo cinese, se oggi esso appare indifferente e passivo, ciò avviene non perché sia
politicamente incosciente (al contrario, è superpoliticizzato), ma proprio perché è
completamente cosciente del fatto che il cambiamento di linea avvenuto finora non ha
mutato niente di essenziale nelle strutture socio-economiche del Paese. Dal momento che
la "rivoluzione" non ha più senso ai suoi occhi, è naturale che preferisca una linea che
gli garantisca perlomeno di vivere un po' meglio; e dal momento che il popolo è diviso
geograficamente e controllato socialmente e politicamente qualsiasi iniziativa popolare
dalla benché minima connotazione rivoluzionaria sarà facilmente isolata e repressa dalle
autorità. In questo contesto è estremamente difficile per il popolo cinese sviluppare una
nuova forma di lotta rivoluzionaria che non sia quella della resistenza passiva, se non
proprio della non-resistenza.
Né bisogna dimenticarsi del destino dei prigionieri politici in Cina: citiamo i nomiLi-Cheng-Tian (principale autore del celebre tatzebao di Li-y-Che) e Jang-Schi-Guang
(principale autore di "Dove va la Cina?"). L'importante non è tanto quello che loro
hanno detto ma il fatto che hanno osato dirlo; nel caso di Li-Cheng-Tian è certamente
vero che alcune sue proposizioni (la democrazia socialista, il rispetto dei diritti
costituzionali del popolo, ecc.) hanno scarso significato o peggio a volte sono
caratterizzate da un'impostazione riformista: ma dato il contesto storico sopraccennato
non poteva che essere così.
Il significato di questi tatzebao risiede nel fatto che essi affrontano direttamente il
problema dei rapporti fra il popolo e il Partito-Stato e che rappresentano più o meno le
modalità con cui il popolo cinese li subisce. È necessario che i rivoluzionari tengano
conto di questi tatzebao non tanto per riprenderli come programma politico, ma come
punti di partenza per arrivare ad una esatta valutazione della situazione cinese. Il che, lo
spero, ci permetterà di costruire un'alternativa rivoluzionaria.
(...) Innanzitutto, in tutta onestà, voglio dichiarare che non so se posso definirmi con
precisione un libertario, non avendo una conoscenza sufficiente né delle teorie né della
storia dell'anarchismo. Tuttavia sulla base delle riflessioni conseguenti alla mia
esperienza personale del comunismo cinese, io sono giunto alla conclusione che in Cina,
come negli altri Paesi "socialisti", lo Stato e il Partito formano un unico apparato di
oppressione e di sfruttamento. Ne consegue che qualsiasi critica della burocrazia che
non affronti il problema dello Stato non ha a mio avviso nessun senso. In effetti analisi e
critiche della burocrazia, dei campi di concentramento, della repressione delle libertà
individuali, abbondano al giorno d'oggi al mercato delle idee. Pur ammettendone il
valore demistificante devo riconoscere che queste analisi e queste critiche servono
troppo spesso a rinforzare - pur senza volerlo, in molti casi - un altro mito: quello della
democrazia borghese e della libertà nei Paesi capitalisti.
È importante affrontare qualsiasi critica da una prospettiva rivoluzionaria. (...)
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