Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 8 nr. 65
aprile 1978


Rivista Anarchica Online

Testimonianza di una ex guardia rossa
a cura della Redazione

La lettera che pubblichiamo è stata scritta da un compagno cinese, ex-guardia rossa, agli organizzatori del convegno internazionale di studi sui "nuovi padroni" al quale era stato invitato ma non ha potuto partecipare.

Considero positivo il fatto che il problema della burocrazia cinese abbia attirato la vostra attenzione. In questa sede voglio portare il mio contributo in merito. Il nuovo gruppo dirigente cinese, con la sua politica di "liberalizzazione", sembra essere riuscito momentaneamente a mascherare le contraddizioni esistenti tra il popolo e il Partito-Stato, e ad infondere una certa speranza di cambiamento, perfino a quei cinesi d'oltremare rimasti finora su posizioni ferocemente anticomuniste. La morte di Mao e la caduta della "banda dei quattro" non costituiscono, a mio avviso, alcuna forma di rottura reale nella politica cinese, dal momento che non vi è stato alcun cambiamento nei rapporti di potere tra il popolo ed il Partito-Stato. Sotto numerosi aspetti e soprattutto riguardo ai principi della "gestione", la politica attuale non rappresenta in realtà che un ritorno alla linea precedente la rivoluzione culturale, cioè la cosiddetta linea di Liu-Sciao-Ci. Questo "ritorno" non avviene per caso e neppure significa che gli attuali dirigenti siano seguaci di Liu: dimostra semplicemente che il Partito è incapace di trovare una formula migliore e diversa per risolvere i problemi socio-economici che non sia quella di oscillare tra il metodo di persuasione materiale e la pressione politica (si tratta beninteso di un attento dosaggio della commistione di questi due elementi). Nonostante io sia antimaoista (...); io penso tuttavia che Mao sia stato l'ultimo "rivoluzionario" fra i dirigenti del Partito. Gli altri, tanto nella loro visione politica quanto nel loro ruolo, non sono, nella migliore delle ipotesi, che dei funzionari (buoni o cattivi) ai quali tutte le campagne politiche del passato e soprattutto la rivoluzione culturale non hanno ispirato che paura e senso di insicurezza. Il Partito oggigiorno è divenuto sempre più monolitico, unificato dalla paura di una contestazione popolare.

Sul piano economico, non essendo capaci di prevedere o meglio di accettare altre alternative al di fuori dell'industrializzazione della Cina sulla base del collettivismo, gli attuali dirigenti faranno ricorso sempre più a colpo sicuro alla tecnoburocrazia, agli "esperti", per poter raggiungere dei "progressi" economici. Personalmente non sono contrario alla "liberalizzazione" in sé, poiché il popolo cinese ha sofferto troppo e per troppo tempo l'"austerità" disumana di non felicitarsi per una sua riduzione in qualsiasi modo avvenga. Ma l'attuale politica di liberalizzazione perseguita dai dirigenti cinesi sarà accompagnata alla lunga da una accentuazione delle ineguaglianze sociali di tutti i tipi: il che significa che si rischia di riportare la Cina alla situazione precedente la rivoluzione culturale.

Qualunque cosa si possa dire oggi della rivoluzione culturale, condannandola per i suoi eccessi e per altre ragioni, non bisogna dimenticare che le contraddizioni tra il popolo ed il Partito-Stato che essa ha rivelato erano reali e rimangono irrisolte. Quanto al popolo cinese, se oggi esso appare indifferente e passivo, ciò avviene non perché sia politicamente incosciente (al contrario, è superpoliticizzato), ma proprio perché è completamente cosciente del fatto che il cambiamento di linea avvenuto finora non ha mutato niente di essenziale nelle strutture socio-economiche del Paese. Dal momento che la "rivoluzione" non ha più senso ai suoi occhi, è naturale che preferisca una linea che gli garantisca perlomeno di vivere un po' meglio; e dal momento che il popolo è diviso geograficamente e controllato socialmente e politicamente qualsiasi iniziativa popolare dalla benché minima connotazione rivoluzionaria sarà facilmente isolata e repressa dalle autorità. In questo contesto è estremamente difficile per il popolo cinese sviluppare una nuova forma di lotta rivoluzionaria che non sia quella della resistenza passiva, se non proprio della non-resistenza.

Né bisogna dimenticarsi del destino dei prigionieri politici in Cina: citiamo i nomiLi-Cheng-Tian (principale autore del celebre tatzebao di Li-y-Che) e Jang-Schi-Guang (principale autore di "Dove va la Cina?"). L'importante non è tanto quello che loro hanno detto ma il fatto che hanno osato dirlo; nel caso di Li-Cheng-Tian è certamente vero che alcune sue proposizioni (la democrazia socialista, il rispetto dei diritti costituzionali del popolo, ecc.) hanno scarso significato o peggio a volte sono caratterizzate da un'impostazione riformista: ma dato il contesto storico sopraccennato non poteva che essere così.

Il significato di questi tatzebao risiede nel fatto che essi affrontano direttamente il problema dei rapporti fra il popolo e il Partito-Stato e che rappresentano più o meno le modalità con cui il popolo cinese li subisce. È necessario che i rivoluzionari tengano conto di questi tatzebao non tanto per riprenderli come programma politico, ma come punti di partenza per arrivare ad una esatta valutazione della situazione cinese. Il che, lo spero, ci permetterà di costruire un'alternativa rivoluzionaria.

(...) Innanzitutto, in tutta onestà, voglio dichiarare che non so se posso definirmi con precisione un libertario, non avendo una conoscenza sufficiente né delle teorie né della storia dell'anarchismo. Tuttavia sulla base delle riflessioni conseguenti alla mia esperienza personale del comunismo cinese, io sono giunto alla conclusione che in Cina, come negli altri Paesi "socialisti", lo Stato e il Partito formano un unico apparato di oppressione e di sfruttamento. Ne consegue che qualsiasi critica della burocrazia che non affronti il problema dello Stato non ha a mio avviso nessun senso. In effetti analisi e critiche della burocrazia, dei campi di concentramento, della repressione delle libertà individuali, abbondano al giorno d'oggi al mercato delle idee. Pur ammettendone il valore demistificante devo riconoscere che queste analisi e queste critiche servono troppo spesso a rinforzare - pur senza volerlo, in molti casi - un altro mito: quello della democrazia borghese e della libertà nei Paesi capitalisti.

È importante affrontare qualsiasi critica da una prospettiva rivoluzionaria. (...)