Rivista Anarchica Online
La crisi del capitalismo
di R. M.
In Italia, tra il 1970 ed oggi, l'aumento del reddito nazionale - l'indice ritenuto più rappresentativo del
crescere dell'economia capitalistica - è stato di appena il 18% circa, dopo essere addirittura diminuito
nel 1975; gli investimenti sono diminuiti dello 0,75%, i prezzi sono aumentati di più del 236%; la
disoccupazione è di circa due milioni di unità, i profitti sono fortemente diminuiti, la bilancia dei
pagamenti è in passivo, la svalutazione della lira rispetto al dollaro è superiore al 36%, rispetto ad altre
monete ha toccato il 110%, l'indebitamento sull'estero del sistema finanziario è pari a circa 1/4 del
reddito nazionale lordo. Il capitalismo è senza dubbio in crisi.
Obiettivo di questo articolo è trattare delle origini di questa crisi, delle sue determinanti interne ed
internazionali, delle vie che i tentativi di ristrutturazione sembrano imboccare.
Una periodizzazione dello sviluppo capitalistico italiano.
Le ragioni della peculiarità della crisi che il capitalismo italiano sta attraversando, stanno in primo luogo
nel tipo di sviluppo attuato nel secondo dopoguerra. Tale sviluppo appare come un processo molto
irregolare con salti e discontinuità tra un periodo e l'altro, con un ritmo di crescita assai rapido. Esso è
distinguibile in 4 periodi principali; il primo dal 1946 al 1950, la fase della ricostruzione, il secondo dal
1951 al 1963, la fase dello sviluppo più intenso, la terza dal 1964 al 1969, fase di consolidamento, la
quarta dal 1970 ad oggi, fase di crisi.
Il periodo della ricostruzione: la scelta dello sviluppo capitalistico.
L'economia italiana uscì dalla guerra con una struttura industriale pressoché intatta, ma arretrata se
confrontata con quelle europee, una fortissima disoccupazione, una elevata inflazione, una agricoltura
scarsamente produttiva. Tra il 1946 ed il 1950 si compì la scelta di sviluppo su basi capitalistiche, scelta
che maturò sulla sconfitta delle lotte operaie di quegli anni.
Prima conseguenza fu l'apertura (economica) delle frontiere e la fine del protezionismo che aveva
caratterizzato l'economia fascista. In generale, ciò significò l'opzione per uno sviluppo squilibrato veloce
e intenso (lo sviluppo squilibrato è l'essenza dello sviluppo capitalistico) di contro ad uno sviluppo
controllato, più lento ma equilibrato.
Lo sviluppo ed il sottosviluppo. Il periodo '51-'63.
All'inizio del suo periodo di sviluppo il capitalismo italiano presentava le seguenti caratteristiche:
1) economia con presenza pubblica in settori chiave: siderurgia, meccanica, cantieristica;
2) differenziazione interna dell'industria: coesistenza di imprese molto grandi e molto piccole e
tecnologicamente arretrate;
3) presenza di settori (agricoltura e commercio) largamente "non capitalistici", a bassissima produttività
del lavoro;
4) squilibrio territoriale, ovvero la questione meridionale: il reddito pro-capite nel 1950 era nel
mezzogiorno un terzo inferiore a quello del triangolo industriale;
5) tasso elevatissimo di disoccupazione: circa 2 milioni di disoccupati palesi in una forza lavoro occupata
di 17 milioni; inoltre una disoccupazione nascosta o latente (per essa si intende la presenza in un settore
produttivo di manodopera avente la caratteristica che semmai uscisse dal settore produttivo in cui sta,
la produzione di quel settore non diminuirebbe, il che è definito dagli economisti produttività marginale
nulla). Il settore in cui soprattutto era presente la disoccupazione latente era l'agricoltura, di tipo pre-capitalistico. Tale disoccupazione si stimava in 3-4 milioni di unità. Malgrado tale arretratezza lo
sviluppo ebbe un carattere di particolare intensità: ciò fu possibile perché in quel momento storico di
assoluta sicurezza politica per il capitale all'interno e di ricostituzione di un mercato mondiale all'esterno,
i fattori di debolezza strutturale si trasformarono in fattori di forza per il capitale. Infatti da un lato la
disoccupazione e la scarsissima forza politica delle classi lavoratrici impediva l'aumento dei salari,
dall'altro il ritardo tecnologico accumulato negli anni di autarchia permise di trovare uno sbocco
redditizio agli investimenti. Inoltre, l'immissione sul mercato mondiale agì come stimolo: all'"Avanti, c'è
posto" del capitalismo internazionale, quello italiano rispose senza dubbio con entusiasmo.
Ne risultò un progressivo aumento dell'integrazione internazionale dell'Italia ed un aumento assoluto e
relativo rilevante degli investimenti: per questo si è detto che lo sviluppo fu trainato in quel periodo da
investimenti ed esportazioni.
Tale progresso economico fu permesso da un andamento della produttività del lavoro ben superiore a
quello dei salari, il che permise un notevole aumento del saggio di profitto. Il brillante raggiungimento
del fine del capitalismo, il profitto, serviva da stimolo allo sviluppo.
Tale sviluppo si caratterizzò come squilibrato, settorialmente, territorialmente e socialmente.
Per tutto il periodo investimenti e profitti furono concentrati nella grande industria privata del nord. Essa
cresceva rapidamente, contando su una domanda molto dinamica, in parte nazionale, in gran parte estera.
Altamente concentrata e sempre più specializzata in beni di consumo durevoli, essa rappresentava l'unico
segmento dell'economia italiana in grado di affrontare il confronto internazionale. Nello stesso periodo
l'agricoltura decadde rapidamente per gli scarsi investimenti che vi si concentravano, per i vincoli di
natura politica che impedivano processi di rinnovamento, per l'esposizione alla concorrenza di agricolture
più efficienti e moderne. A questo squilibrio settoriale corrispondeva quello territoriale tra un Nord
industrializzato ed un Sud agricolo (con la cosiddetta "terza Italia", dal Veneto all'Umbria in posizione
intermedia), dove il divario in termini di crescita del reddito pro-capite aumentava a danno del sud. Vi
era stato nel periodo un intervento statale nei confronti del mezzogiorno, ma del tutto funzionale allo
sviluppo dell'economia del Nord; infatti prima con interventi di pre-industrializzazione (spesa pubblica
per infrastrutture, incentivi fiscali e creditizi), poi di industrializzazione in settori di base, chimica e
siderurgia, si tendeva a creare un sostegno all'industria dei beni di consumo durevole.
A ciò si aggiungeva un altro "frutto" dello sviluppo capitalistico del decennio, lo squilibrio tra consumi
privati e servizi collettivi, a sfavore evidentemente di questi ultimi.
I primi anni sessanta: cambia lo scenario.
Il decennio si caratterizzò, come abbiamo rilevato, per uno sviluppo capitalistico impetuoso, fortemente
squilibrato (settorialmente, territorialmente e nei consumi), tirato dalla domanda estera e dagli
investimenti nella produzione di beni di consumo durevoli della grande industria del nord.
A livello internazionale ciò significava il raggiungimento da parte dell'Italia di un posto all'interno dei
paesi più avanzati, anche se uno degli ultimi posti di tale schiera. Le inflessibili leggi del capitalismo
impongono però che per mantenere o migliorare la propria posizione nella divisione internazionale del
lavoro si continui a crescere a tassi di sviluppo molto elevati (relativamente alle altre economie), e perciò
a godere di un elevato tasso di profitto (più alto il profitto, più veloce l'accumulazione e viceversa), il
quale a sua volta è funzione dei settori in cui si investe (vi sono settori a più elevati tassi di profitto di
altri) e dei livelli salariali.
Ebbene, nei primi anni sessanta si verificarono eventi che fecero sì che i due ultimi fattori elencati
agirono negativamente su profitti ed accumulazione, tendendo a ricacciare l'economia italiana nella
periferia capitalistica.
A livello di commercio internazionale si stavano in quegli anni aprendo spazi nuovi per produzioni di
beni di investimento che per l'alto grado di innovazione che incorporavano e per gli incrementi di
produttività che permettevano, rendevano possibile ottenere margini di profitto molto elevati sia per i
produttori che per gli utilizzatori.
L'industria italiana cercò di inserirsi in questi segmenti "strategici" della produzione ma con scarsi
risultati, sia per la dipendenza politica nei confronti dei paesi più forti, sia per la fragilità complessiva che
essa, malgrado lo sviluppo precedente, ancora mostrava.
A livello interno venne meno quella condizione che precedentemente aveva permesso al capitale italiano
di prosperare: i bassi salari. Lo sviluppo capitalistico procede favorevolmente se i profitti crescono più
dei salari, e se i profitti di un paese (come l'Italia) crescono meno di quelli di altri paesi, allora anche i
salari - dice la legge del capitale - devono crescere meno che negli altri paesi. Ma ciò in Italia venne
meno: il punto di svolta fu tra la seconda metà del 1962 e la prima metà del 1963. La squilibrata struttura
economica italiana dovette in quel periodo "fare i conti" con il nuovo mercato del lavoro che era andato
costituendosi: infatti la situazione di estesa disoccupazione dei primi anni '50 si mutò in una situazione
di sostanziale piena occupazione, anche permessa dal fatto che in 10 anni vi fu una emigrazione netta
verso l'estero di un milione di persone.
Nel '62-'63 vennero a scadenza quasi tutti i contratti di lavoro e vi fu dal punto di vista salariale una
vittoria operaia tale che il risultato di essa fu una crescita salariale superiore a quella della produttività
del lavoro e perciò una diminuzione dei profitti.
Il dilemma: come riprendere lo sviluppo?
"Teoricamente" le possibilità del capitale erano a questo punto due: accettare l'avvenuto aumento
salariale e tendere ad aumentare la produttività del lavoro, oppure rispondere aumentando i prezzi
scaricando così su di essi gli avvenuti aumenti di costi (e per far ciò è necessario l'aiuto del potere
bancario che espanda il credito). La prima via, se non era praticabile sul piano settoriale per quanto
abbiamo prima detto, era però possibile se si fosse operato (attraverso una politica economica a livello
nazionale) per migliorare la produttività complessiva del sistema economico tendendo ad appianare
alcuni di quegli squilibri prima citati. Ciò implicava però un contrasto con i cosiddetti "ceti improduttivi".
Per "improduttivi" si intendono quei ceti che politicamente costituirono una parte importante della base
elettorale per la conquista del potere politico da parte della DC nel dopoguerra, ed economicamente
occupano quei settori dell'economia denominati "terziario" e "pubblica amministrazione". Essi godettero
nel periodo '51-'61 di un aumento di reddito pro-capite ben superiore all'aumento di produttività che si
registrò in essi. Ciò è spiegabile sia con il ruolo politico stabilizzante da essi svolto, sia, da un punto di
vista strettamente economico, con il fatto che essi rappresentavano un importante elemento di domanda
all'interno del paese.
Terziario e pubblica amministrazione rappresentavano e rappresentano tuttora i settori estremamente
inefficienti, costituenti perciò un costo sociale non indifferente: in quanto tali essi pesano negativamente
sulla produttività generale del sistema. Una via per il capitale per l'aumento dei margini di produttività
sarebbe dunque potuta essere quella di una ristrutturazione di tali settori. Ma il ruolo politico da essi
giocato non lo permetteva, senza venire ad intaccare gli equilibri politici esistenti, sui quali il capitale
italiano si era sviluppato. La principale via scelta fu perciò quella del tentativo di recuperare sui prezzi
gli aumenti salariali. Iniziò così l'inflazione con l'effetto di rompere la sostanziale stabilità del valore della
moneta. L'aumento dei prezzi interni provocava a sua volta una diminuzione delle esportazioni, indice
questo di una diminuita competitività a livello internazionale.
E sarà opportuno ricordare a questo proposito, che il tasso di cambio della lira non poteva mutare perché
allora le monete erano ancora in quello che si definì "regime di cambi fissi", cioè legate in un certo modo
costante con il dollaro, la moneta usata negli scambi internazionali.
L'intervento che ne seguì, della Banca d'Italia, impose, per riequilibrare la bilancia dei pagamenti che
presentava un saldo negativo di 1.300 milioni di dollari circa nel 1963, un "processo deflattivo", cioè una
"stretta creditizia", che rendendo più cara la moneta disponibile (mediante l'aumento dei tassi di interessi
bancari) riduceva il tasso di sviluppo dell'economia. Ne risultò una diminuzione del tasso di aumento del
reddito, una diminuzione assoluta degli investimenti ed una creazione di disoccupazione (un milione di
unità circa nel '64-'65).
Questa riduzione del tasso di attività dell'economia permise:
- l'interruzione del processo inflattivo
- il blocco degli aumenti salariali
- una riorganizzazione delle imprese attraverso una concentrazione tecnico-finanziaria.
Essa si tradusse in un aumento dell'intensità di lavoro, che a sua volta determinò un recupero dei livelli
di produttività anche in presenza di investimenti calanti. Ma nel frattempo si era diffusa l'impressione che
il "miracolo economico" italiano fosse giunto al termine. Non a caso è proprio in quegli anni che iniziò
l'uscita di capitali dall'Italia.
1969-1976: Lo sviluppo del sottosviluppo ed il ruolo dello Stato.
Ad interrompere questa fase di consolidamento, più apparente che reale, del capitalismo italiano venne
il 1969. Riprese l'inflazione, a causa dell'intervento delle grandi imprese che scontarono in anticipo i
previsti aumenti salariali in una situazione di politica monetaria espansiva, cosa quest'ultima che abbiamo
detto prima essere condizione per l'aumento dei prezzi; vi furono aumenti salariali pur in presenza di
forte disoccupazione; la produttività tornò a crescere meno dei salari: la classe operaia per la prima volta
nel dopoguerra mostrava un'insofferenza diffusa e profonda nei confronti del sistema di sfruttamento
capitalistico.
Insomma, tutti gli effetti sull'economia già provati all'inizio degli anni '60 riemersero, ma questa volta
con più forza. Due avvenimenti internazionali nel 1974 vi contribuirono: la crisi del petrolio e l'avvento,
a livello monetario, del regime dei cambi flessibili. Gli effetti sull'economia italiana furono disastrosi: la
crisi del petrolio provocò il tracollo della bilancia dei pagamenti, il regime dei cambi flessibili fece sì che
il valore a livello internazionale della lira, moneta considerata debole, diminuisse con la conseguenza da
un lato di aumentare i prezzi interni, dall'altro di creare difficoltà dal punto di vista delle importazioni,
perché il costo di queste ultime aumentava. Aumenta soprattutto il costo delle materie prime, alimentari
(esplode qui il deficit della bilancia alimentare italiana, prezzo ora pagato per l'abbandono
dell'agricoltura) e non. Il vantaggio quindi delle imprese italiane esportatrici di poter vendere all'estero
a prezzi più competitivi viene diminuito o eliminato dall'aumento dei costi (si instaura quel meccanismo
definito "perverso", che causa cioè ulteriori squilibri). La politica monetaria diventa così un susseguirsi
di interventi espansivi e restrittivi. Il meccanismo di mercato non funziona più.
Unico intervento stabilizzante, e massimamente importante per l'esame dei mutamenti nella struttura del
potere, è l'intervento pubblico. Con l'inizio degli anni '70 partecipazioni statali e pubblica
amministrazione diventano componenti essenziali dell'economia. Nel '71-'72 gli investimenti complessivi
mostrano un tasso di sviluppo positivo proprio grazie alla componente pubblica. Nel '73-'74 la spesa
pubblica aumenta fortemente, favorita dal più facile accesso al credito ed ai "fondi di dotazione" dei
gruppi appartenenti alle partecipazioni statali. Il ruolo dello Stato nell'economia capitalistica italiana è
ormai fondamentale.
Crisi e ristrutturazione. Considerazioni sul futuro del capitalismo italiano.
Un mercato internazionale in fortissima espansione, per quanto riguarda i beni di consumo durevoli, e
bassi salari furono le condizioni che permisero lo sviluppo fino ai primi anni '60. Le diminuite capacità
concorrenziali di un'industria a contenuto tecnologico intermedio, come quella produttrice di beni di
consumo durevoli, la mancanza e la scarsa presenza di settori ad elevato contenuto tecnologico,
l'aumento dei salari, provocano la fine dello sviluppo ed esaltano le carenze sociali che hanno sempre
caratterizzato l'Italia. Il ruolo assistenziale dello stato diventa perciò crescente. Il ruolo che l'Italia viene
ad assumere a livello internazionale è quello di un paese cerniera tra i paesi più industrializzati ed i paesi
della periferia produttiva, "punto arretrato del centro e punto avanzato della periferia", con il rischio
sempre presente di "cadere nella fossa", nella periferia capitalista.
Per compiere considerazioni sul futuro del capitalismo internazionale bisogna esaminare altri aspetti della
crisi. Abbiamo visto quelli più propriamente interni, dobbiamo esaminare quelli internazionali a cui
abbiamo soltanto accennato e dobbiamo esaminare quelli comuni all'attuale fase di "mutamento"
dell'intera economia capitalistica. Accenniamo schematicamente ad entrambi, ben sapendo che l'attuale
situazione è molto fluida e complessa e che l'individuazione di tendenze non è cosa semplice.
Il livello internazionale.
La crisi petrolifera del 1974 ed il generale aumento dei prezzi delle materie prime hanno avuto due
effetti: da un lato un innegabile mutamento dei rapporti di scambio fra paesi produttori di petrolio e
materie prime in genere ed altri paesi, ponendo tra l'altro con forza il problema energetico; dall'altro il
ruolo che gli U.S.A. sono venuti assumendo a livello internazionale è così descrivibile: l'economia
americana sembra aver perso, verso la fine degli anni '60, margini di competitività nei confronti del resto
dei paesi industrializzati forti; l'aumento del prezzo del petrolio permetteva un recupero di tali margini,
poiché il contenuto di petrolio importato dal sistema produttivo americano è molto più basso di quello
degli altri paesi industrializzati. Inoltre il mutato valore relativo del petrolio rende conveniente lo
sfruttamento di nuove fonti di energia (quella nucleare in particolare) in cui gli U.S.A. sono
all'avanguardia. L'instabilità del sistema monetario internazionale è inquadrabile in questo contesto. Gli
effetti sull'economia italiana sono, perlomeno in via generale, ovvi: il paese strutturalmente più debole
subisce pesantemente le conseguenze del riequilibrio internazionale attraverso un fortissimo aumento
generalizzato dei costi.
I fattori comuni di crisi.
Tra i fattori comuni di crisi a tutti i paesi si può accennare qui a quelli riassumibili nella "crisi della grande
impresa capitalistica". Nel suo sviluppo essa ha creato ampie "diseconomie", sia interne ad essa, quali
la cosiddetta "disaffezione al lavoro", cioè il forte riemergere del contrasto di classe, ed i processi di
burocratizzazione; sia esterne, quali gli squilibri nell'ambiente naturale e sociale. Economicamente ciò
si è tradotto in una crescente socializzazione dei costi, disfunzionale alla società capitalistica.
A ciò si è risposto e si sta rispondendo ristrutturando l'impresa attraverso la diversificazione produttiva
e finanziaria, nuove forme di organizzazione del lavoro, la riscoperta, anche grazie alle nuove tecnologie,
dei vantaggi della piccola dimensione. Quest'ultimo fattore, in sé positivo, si sta "traducendo
capitalisticamente": risultato più evidente è certo decentramento produttivo, non a caso definito
patologico, che l'economia italiana ha conosciuto in questi ultimi anni. Anche in questo caso la specificità
italiana ha giocato negativamente: a parte le poche imprese ormai fortemente multinazionalizzate, esso
ha messo in luce le inefficienze manageriali e strategiche dell'impresa italiana.
I caratteri di una nuova fase del capitalismo.
In un numero speciale dedicato alla crisi del capitale di un'importante rivista americana "Business Week",
del settembre 1975, vengono individuati i nuovi indirizzi (che possiamo considerare più o meno simili
a quelli degli altri paesi forti), della politica economica americana per il decennio '75-'84. Gli investimenti
più rilevanti sono previsti nel settore energetico, nell'agricoltura moderna, nel terziario, in particolare
in quello avanzato (ricerca). La novità sta in quello che è stato definito a seconda dei casi processo di
deindustrializzazione, di terziarizzazione, per il gran peso che il terziario avanzato e le funzioni terziarie
(ricerca, marketing, ecc.) vengono ad assumere (il potere che il terziario verrebbe ad assumere starebbe
nel fatto che esso sarebbe depositario e produttore di informazioni). Ciò delinea una suddivisione
internazionale del lavoro che vede al vertice i paesi deindustrializzati, alla base i paesi che vengono ad
assumere le funzioni più propriamente produttive, dove gli squilibri del vecchio modo di sviluppo del
capitalismo si eserciterebbero senza danneggiare i "centri" internazionali (stati e multinazionali) del
potere.
Che ruolo potrebbe assumere in questo contesto l'economia italiana? Se la gestione della crisi fosse
"capitalisticamente avveduta", cioè volta al recupero di efficienza e produttività, si potrebbe pensare per
l'Italia ad una funzione di esportatrice di "tecnologie medie", ovvero di quegli impianti e tecnologie in
genere per cui la domanda mondiale, proveniente da quei paesi sottosviluppati che hanno "scelto" (o,
meglio a cui è stata imposta) la via dell'industrializzazione, è elevata. La gestione della crisi
capitalisticamente avveduta sarebbe allora quella che vede puntare gli investimenti verso i settori
produttori di beni di investimento per l'esportazione, e nello stesso tempo migliorare la produttività di
agricoltura e servizi. Ciò che questo significherebbe in termini di disoccupazione non è per ora
qualificabile, ma qui interverrebbe il ruolo dello stato assistenziale. Il "premio" sarebbe una economia
di nuovo inserita nei meccanismi, socialmente folli, ma capitalisticamente razionali, dell'economia
capitalistica internazionale.
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