Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 52
novembre 1976 - dicembre 1976


Rivista Anarchica Online

Conflittualità sociale e presenza anarchica
a cura della Redazione

La crisi economica, l'aumento dei prezzi, la diminuzione del potere d'acquisto dei salari, la disoccupazione, la ristrutturazione, i recenti provvedimenti governativi, hanno dato vita in questi ultimi mesi a una situazione di disagio generalizzato e quindi al rifiorire della conflittualità sociale che si è espressa con lotte autonome, spesso stimolate da compagni anarchici. All'interno del dibattito da qualche tempo in corso nel movimento anarchico, e come contributo ad esso, abbiamo voluto discutere la situazione attuale, le sue implicazioni, la funzione dei sindacati e dei partiti di sinistra e le nostre possibilità e modalità di intervento con alcuni compagni inseriti in varie situazioni di fabbrica: Corrado B., operaio al Petrolchimico di Marghera; Alberto M., tipografo alla Amministrazione Provinciale di Milano; Sandro I., impiegato nella multinazionale Foster Wheeler di Milano; Mauro P, operaio alla Michelin di Torino; Aldo O., dipendente delle FF.SS. di Napoli; Gaetano D., dipendente dell'Ospedale Martini di Torino; Franco S., operaio alla Citroen di Milano; Maurizio F., operaio nell'industria chimico-farmaceutica Zambon di Milano e Giacomo G., dipendente delle Messaggerie Emiliane di Milano. Dalla discussione collettiva sono scaturiti diversi spunti interessanti su cui invitiamo tutti i compagni lavoratori ad intervenire.

Oggi viviamo una situazione abbastanza delicata e complessa. Siamo di fronte ad una forte crisi economica, ad una risposta governativa che va ad incidere quasi esclusivamente sui lavoratori, il partito comunista si mostra estremamente arrendevole nei confronti del governo, tanto da essere criticato dalla sua stessa base, e che nonostante questo non è ancora riuscito ad entrare nel governo. Come voi interpretate questa situazione? E quali sono i riflessi sulla situazione delle fabbriche in cui lavorate?

ALBERTO M. I riflessi sul mio posto di lavoro sono stati abbastanza caratteristici. Io lavoro in una amministrazione pubblica che recentemente ha avuto un cambiamento di gestione dalla Democrazia Cristiana a una giunta di sinistra (PSI e PCI) e questo fatto ha immediatamente influito sulla situazione sindacale: blocco di tutte le lotte in corso per la applicazione definitiva del nuovo contratto. Anche la CGIL che in fase di rinnovo del contratto era stata molto combattiva ed era riuscita a strappare un contratto molto buono, dopo questa svolta ha cambiato radicalmente atteggiamento e addirittura i funzionari sindacali che erano stati più attivi e combattivi sono stati estromessi per essere sostituiti con elementi fidati del PCI. A tutto questo si aggiunge poi la crisi economica che introduce una psicologia di rassegnazione nei lavoratori che si concretizza nell'accettazione di quei sacrifici che vengono loro richiesti e anche questo elemento, insieme alla "ragionevolezza" dei sindacati, contribuisce allo spegnersi delle lotte.

ALDO O. Vorrei partire da una premessa più generale. Secondo me si è avuto un periodo in cui il conflitto di classe era estremamente attenuato in quanto il capitalismo poteva garantire un certo sviluppo economico anche alle classi inferiori tramite lo sfruttamento delle nazioni povere. Nel momento in cui le nazioni povere hanno acquisito la conoscenza del loro potere contrattuale e hanno posto condizioni a loro favorevoli i paesi industrializzati sono entrati in crisi. In Italia la crisi è stata più acuta anche perché la Democrazia Cristiana ha governato per trent'anni in modo clientelare favorendo i settori parassitari e improduttivi. Ora la Democrazia Cristiana non può certo risolvere la crisi economica attuale né risanare il sistema economico italiano perché se lo facesse metterebbe in discussione l'origine stessa del suo potere e quindi l'unica possibilità è aspettare una soluzione scodellata dagli americani e dalle altre potenze che risolvendo il problema a livello internazionale risolva anche il problema specifico italiano. La Democrazia Cristiana nel frattempo utilizza una strategia nel tentativo di spaccare o di riuscire a logorare il PCI che (dopo essere stato per vent'anni all'opposizione in un periodo di relativa "pace sociale") nel momento in cui è scoppiata la crisi, e quindi è rinata una notevole conflittualità sociale, ha cambiato posizione e vuole entrare al governo insieme alla DC sull'onda dei risultati del 20 giugno. Quindi la DC sfrutta questa ansia di potere del PC influenzando, tramite quest'ultimo, i sindacati per fare passare quei provvedimenti economici che colpiscono soprattutto le classi più deboli. Da qui l'aumento della conflittualità, la nascita di lotte autonome dai sindacati e la creazione di quei sindacati autonomi che, pur essendo controllati dalla DC, si fanno portavoce di esigenze reali di base. I sindacati si trovano quindi tra due fuochi: da un lato i lavoratori che sfuggono al loro controllo e dall'altro le direttive "ragionevoli" del PCI.

CORRADO B. - Credo che la situazione socio-economica attuale e soprattutto un certo tipo di gestione dell'economia italiana abbiano estremamente favorito l'avanzata delle sinistre e l'inserimento dei loro uomini nei posti chiave del potere. Secondo me la crisi ha portato la sinistra storica e i sindacati ad essere l'unica alternativa reale alla vecchia gestione e, cosciente di questa situazione, la sinistra si fa carico in prima persona di un programma impopolare: 1) fare pagare la crisi alla classe lavoratrice; 2) proporre una razionalizzazione e rafforzare il potere statale nelle sue strutture economiche e politiche (un esempio è la proposta di ristrutturazione della polizia portata avanti dalle sinistre); 3) pianificare e potenziare tutta la struttura economica del paese attraverso la razionalizzazione delle partecipazioni statali e la riconversione dei rami industriali non produttivi; 4) neutralizzare e convogliare nella logica della cogestione le spinte operaie contestatrici che si manifestano continuamente all'interno delle fabbriche. Tutto questo viene imposto alla classe lavoratrice attraverso continue mistificazioni ed ipocrisie che utilizzano strumentalmente il bisogno di maggiore giustizia sociale della classe operaia e che nello stesso momento utilizzano l'ascendente che la sinistra storica ha quasi sempre avuto presso gli sfruttati. Questo gioco funziona a favore di questo tentativo della sinistra di crearsi nuovi spazi di potere e riesce ad essere imposto all'interno della lotta di classe attraverso il ricatto economico fatto dalla vecchia borghesia ed accettato dalla sinistra che si concretizza nella messa in discussione del posto di lavoro, nella messa in discussione del salario (o completamente o in parte) e tutte le altre condizioni di fabbrica. Un altro elemento importante è l'appoggio alla repressione statale di fronte a certi momenti di lotta come l'autoriduzione, l'assenteismo o l'occupazione delle case. I sindacati e i vertici dei partiti di sinistra prendono posizione netta contro i lavoratori. Quindi se la crisi ha favorito e continua a favorire nella sua strategia generale le sinistre e i sindacati, questa crea anche spazi di conflittualità che possono essere positivamente utilizzati dalla classe lavoratrice. Secondo me, pur tenendo conto di quest'ultimo elemento, in linea generale di fronte al ricatto del posto di lavoro, di fronte alla disoccupazione, alla mancanza di case e di servizi, la classe operaia è sostanzialmente impreparata ad affrontare in maniera autonoma e cosciente una lotta generale e questo sia per la grande influenza che hanno i partiti di sinistra ed i sindacati all'interno della classe sfruttata, sia per l'abitudine alla delega instillata nei lavoratori, sia, cosa più importante, per la mancanza di reali proposte di lotta applicabili nelle varie situazioni ma facenti parte di un disegno più ampio da parte dei rivoluzionari. Io, ad esempio, mi sono trovato spesso a proporre momenti di lotta, ma sempre estremamente particolari e non semplicemente perché il rapporto di forza è quello che è ma anche perché manca al movimento anarchico, ai compagni che sono inseriti in realtà di fabbrica, una chiara visione della situazione generale e una precisa risposta in rapporto a questa situazione generale.

Nonostante questa pessimistica valutazione, esistono anche all'interno della classe operaia, comportamenti che seppure in maniera limitata e discontinua esprimono una volontà di autonomia e di rifiuto della nuova forma di sfruttamento, di questo nuovo potere che si fa sempre più evidente anche all'interno della mia fabbrica. Questi comportamenti in fabbrica vanno dalla pratica larghissima dell'assenteismo alle fermate dei reparti per mancanza di organico, alla contestazione dei ritmi di lavoro, a tutte quelle situazioni che normalmente non trovano l'appoggio del sindacato ma che vengono portate avanti comunque. Al di fuori della fabbrica si esprimono con l'autoriduzione, l'occupazione delle case, ecc. Tutte queste azioni si manifestano sempre in maniera molto irregolare e discontinua.

GIACOMO G. - Il PCI può contare su una base operaia che nessun altro partito ha e di questo è molto cosciente e sa anche quale strategia usare, mentre i rivoluzionari finora non hanno dimostrato di avere una propria strategia. Il ruolo del PCI, contrariamente a quanto possono pensare certi extraparlamentari tipo Lotta Continua o PDUP, è un ruolo che risale a a più di trent'anni fa quando, con la svolta di Salerno Togliatti cercò di entrare nel governo Badoglio. A poco a poco questa strategia è risultata, a suo modo, vincente tanto che, dopo essere stato al potere nelle amministrazioni provinciali e regionali, sta effettuando la scalata al potere governativo con buone probabilità di successo. È una strategia che si basa sull'ignoranza e sull'indottrinamento dei lavoratori che sono arrivati a concepire il socialismo come andata al governo del PCI che farebbe finalmente delle serie riforme. Se una frattura si è creata tra una parte della base operaia e il PCI dopo il '68, è stato perché sono divenute evidenti alcune contraddizioni e questa frattura ha portato poi alla contestazione dei sindacati, da un lato con forme di lotta autonome e dall'altro con lotte corporative che sono state assorbite dai cosiddetti "sindacati autonomi".

MAURO P. - A me sembra che non ci sia solo la crisi in cui si dibatte il sistema di sfruttamento. Esiste anche una crisi del movimento operaio. Tutti quanti, partiti e sindacati, cercano in tutti i modi di superare la crisi economica proprio per impedire che la situazione divenga tale da permettere agli sfruttati di affrontare la loro crisi. Le due cose sono collegate. Superare la crisi del sistema vuole dire mantenere questo stato di addomesticamento della classe lavoratrice e superare la crisi del movimento operaio significa aumentare la crisi del sistema. Alternative a questa situazione a mio avviso non ce ne sono e in modo più o meno cosciente gli sfruttati se ne rendono conto. Superare la crisi dei lavoratori significa riprendere in mano una tematica rivoluzionaria che ormai da molti anni manca all'interno del movimento. Ci sono dei momenti di ribellione come abbiamo visto in varie fabbriche a Milano e a Torino contro i provvedimenti governativi, ma sono esplosioni senza prospettive, senza una visione complessiva. I gruppi extraparlamentari, dal canto loro, concorrono ad inquinare maggiormente la situazione, ad aumentare la estrema confusione che già esiste tra i lavoratori. Noi dobbiamo avere ben chiaro che non esistono a breve scadenza possibilità di superare questa crisi, che è quella che ci sta a cuore perché è una crisi profonda causata da tanti anni di pratica riformista, da vent'anni di fascismo e l'operaio deve ricominciare a tessere una tela che è stata distrutta agli inizi del secolo.

FRANCO S. - Io ho potuto constatare nella realtà in cui vivo che una delle conseguenze della situazione attuale è stato il diffondersi di un grosso malcontento. I lavoratori dicono: fino a ieri la DC era criticata e combattuta dal PCI e adesso hanno tutti e due le stesse posizioni. Allora noi a chi dobbiamo credere? Ecco, io ho trovato che è in atto una grossa crisi di consenso, anche a livello dei militanti più anziani del PCI, crisi che si esprime a livello di lotta con la critica serrata alla riconversione industriale, che è uno dei cavalli di battaglia dei partiti della sinistra, alle varie piattaforme nazionali ma la critica non riesce a superare i suoi limiti proprio per una mancanza di coscienza politica e sindacale di tutti i lavoratori.

MAURIZIO F. - Direi che oggi come oggi le sinistre in Italia non rappresentano gli interessi della classe operaia e il PCI è il partito che si è fatto carico della ristrutturazione del capitalismo in Italia, che si è fatto difensore di quella nuova classe dirigente che si prefigge di prendere il potere e di sanare l'economia italiana portandola al livello degli altri paesi industrializzati. Quindi il proletariato italiano si trova senza un partito che difenda i suoi interessi bene o male, se mai l'ha avuto, e oggi questa situazione divenuta oltremodo evidente. Da questo fatto deriva quella crisi del movimento operaio di cui prima parlava Mauro, che è sostanzialmente una crisi di identificazione. E proprio in conseguenza di questa crisi ecco lo sbocciare di lotte autonome che sanciscono, anche se a livello istintivo, l'allontanamento in atto del proletariato dai partiti della sinistra storica, e il rifiuto da parte dei lavoratori di pagare il costo della crisi.

SANDRO I. - Credo sia importante ribadire il ruolo che oggi gioca il riformismo, in una società in continua trasformazione, dove si sono modificati i rapporti e gli strati sociali, ed è accresciuta l'influenza del ceto medio e del settore dei servizi pubblici. Evidentemente il PCI all'interno di questa trasformazione ha una sua collocazione ben precisa di difesa degli interessi delle classi medie, delle aristocrazie operaie e di alleanza con la borghesia produttiva attraverso il ripristino dei meccanismi di accumulazione a due livelli: deflazionistico, attraverso lo smantellamento delle disfunzioni e dei disservizi dello stato, e l'altro all'interno dei settori produttivi attraverso la copertura dell'abolizione dei rami secchi e l'incentivazione della produttività.

Un caso esemplare che ha costituito il cavallo di battaglia del riformismo italiano è stato quello dell'Innocenti. Quale è stato il risultato? Oggi ci sono all'innocenti 2.200 persone contro le 4.500 che c'erano prima, si è passati dalla eliminazione delle minoranze più combattive all'aumento della produttività, cioè oggi con 2.200 persone si costruisce ciò che prima si costruiva con 4.500. Questo vuol dire che tutta una serie di conquiste ottenute dai lavoratori negli anni precedenti (tipo il quarto d'ora di pausa) sono state frantumate, questo significa che di fronte a questo tipo di attacco (portato avanti a livello complessivo) rimanere a livello locale è perdente per i lavoratori ed è vincente per i riformisti perché nel momento in cui riescono a ridurre lo scontro al particolare, a uno specifico settore, riescono anche ad eliminare tutte quelle frange di lavoratori che potrebbero ostacolare il loro disegno restauratore.

Per quanto riguarda la crisi del movimento operaio io non sono completamente d'accordo con quanto ha affermato Mauro perché, dal '68 in poi, il movimento operaio ha saputo esprimere delle cose nuove o riscoprirne autonomamente altre, tipo l'autogestione, e quindi credo che sì esso debba riprendersi in mano la sua coscienza storica ma per misurarsi con quello che è riuscito a partorire in questi anni, con tutte le indicazioni che ha saputo esprimere soprattutto nel '69 con rivendicazioni di tipo egualitario e che se allora sono state accettate dai padroni oggi non lo possono più essere, perché la crisi economica è molto più profonda e lacerante e lo si può notare dall'aumento del lavoro nero, dall'incremento che hanno avuto gli straordinari, dalla distruzione stessa dei posti di lavoro, dalla eliminazione dalle fabbriche delle minoranze più coscienti e combattive. È a questo stato di cose che deve dare una risposta in movimento operaio, ma è necessario per fare chiarezza sfatare due miti: il primo è quello che il riformismo entrando al potere determina e agevola la contraddizione di classe e quindi favorisce un processo rivoluzionario; secondo che il governo delle sinistre possa riorganizzare la società su basi di maggiore libertà. Capire i meccanismi con cui il riformismo fa presa sulla gente significa trovare uno strumento per contrastare questo suo disegno.

GAETANO D. - Credo che gli interventi dei compagni abbiano sufficientemente messo a fuoco i vari aspetti della situazione attuale. Vorrei solo aggiungere che una delle cause che stanno all'origine della crisi del movimento operaio è che i lavoratori sono stati progressivamente abituati a non fare da soli, a delegare ad altri i propri interessi. Oggi i lavoratori si rendono conto che la delega non funziona più, che i loro interessi non vengono difesi da nessuno, ma il loro malcontento, la loro sfiducia non riesce a trovare sbocchi operativi e si riduce al mugugno, proprio perché manca loro una visione più generale, manca loro un progetto rivoluzionario preciso.

ALDO O. - Vorrei fare qualche precisazione in merito all'intervento di Corrado. Secondo lui il PCI è l'espressione della borghesia avanzata. Questa affermazione mi trova sostanzialmente d'accordo se però si precisa che questa è una tendenza in atto, un processo in corso e non ancora un fatto compiuto. In questo senso sono d'accordo con i quattro punti individuati da Corrado. Per quanto riguarda le lotte autonome di cui il compagno ha parlato come dell'espressione della non volontà dei lavoratori di accettare il ruolo loro imposto, io credo sia necessario stare un poco attenti a non sopravvalutarle, nel senso che bisogna vedere quanto queste lotte discendano dalla pratica dell'azione diretta, della soddisfazione immediata dei propri bisogni, e quanto invece deriva da un certo grado di strumentalizzazione da parte delle cosiddette "avanguardie" extraparlamentari che "sfruttano" esigenze reali e valide di base. Ultimo punto: la crisi economica non nasce da esigenze fisiologiche indipendentemente dal sistema economico. Si tratta in realtà della crisi di questa organizzazione economica che, così com'è attuata, non riesce a produrre per soddisfare i bisogni della collettività. Ed è invece proprio il contrario che si è cercato di inculcare nel cervello dei lavoratori. Cioè che questa crisi non è una crisi del sistema ma è naturale, ragione per cui molto spesso i lavoratori non credono alla possibilità di un'alternativa economica né si impegnano per costruirla.

CORRADO B. - Rispondo brevemente ad Aldo. Io vedo le sinistre tendenzialmente al potere. È vero che la DC ha ancora un forte potere, è vero che il potere si regge in buona misura su clientele, ma la linea di tendenza è un'altra e sotto questo aspetto io vedo il pericolo per la classe operaia. Perché il processo in corso, una volta conclusosi, ristabilirà un ordine, ristabilirà uno sfruttamento, ma saranno un ordine e uno sfruttamento qualitativamente diversi da quelli che fino ad ora ci siamo trovati ad affrontare. Bisogna quindi porci sin da oggi il problema, bisogna fin da oggi analizzarlo per riuscire a trovare dei mezzi di lotta adeguati per affrontare questa nuova realtà che si va delineando.

Affrontiamo quindi questo problema. Si sta instaurando, favorito anche dalla crisi economica, un nuovo tipo di sfruttamento. All'interno di questo processo quale ruolo ricoprono i sindacati sia nei confronti dei lavoratori, sia negli ambiti dove si decidono le scelte economiche a carattere nazionale?

ALBERTO M. - Credo che prima di passare a questo argomento fondamentale per la nostra discussione sia necessario chiarire qual è stato lo sviluppo storico del partito comunista in Italia, cioè del partito che ancora oggi condiziona il comportamento della classe operaia. Possiamo dividere la storia del PCI in tre fasi: nella prima fase, sull'onda della rivoluzione russa, il PCI era fondato ideologicamente sulla lotta di classe e lo stato era visto come una conquista provvisoria in vista della sua autoestinzione; la seconda fase, quella del dopoguerra, vede le posizioni originarie completamente cambiate: la conquista del potere non deve più avvenire sulla spinta dello sviluppo della lotta di classe ma attraverso la politica estera dello stato-guida, cioè della Russia; in questa fase lo stato comunista non è più considerato provvisorio ma diviene un tipo di organizzazione definitiva nella società che è assolutistica. Nel dopoguerra il PCI non fa più leva sulle spinte rivoluzionarie della classe operaia anzi, cerca di spegnerle e nel contempo cerca invece di guadagnarsi la fiducia, con atti a volte plateali, della classe dirigente borghese (basti pensare al governo con la monarchia, al referendum istituzionale, al concordato); la terza fase del PCI che è poi quella in corso, vede un PCI che si identifica completamente, senza riserve, con la politica della classe dirigente industriale e finanziaria, della grande borghesia italiana e questo ancora una volta non perché tradisce, non perché si sbaglia ma perché è questo il suo ruolo storico, perché ormai lo sviluppo ideologico del comunismo autoritario non è niente altro che lo sviluppo del capitalismo di stato, cioè la promozione dello stato al ruolo di programmatore, di controllore dell'economia soprattutto favorendo le grandi imprese pilota. La classe operaia, guidata per lunghi decenni da questo partito, si è disabituata a credere in se stessa, a credere nella possibilità di cambiare la società, si è disabituata persino a credere nella possibilità di una società diversa. In questa situazione c'è stato uno strappo, quello del '69, con uno scoppio di ribellione che dagli studenti si è propagato nelle fabbriche e da allora per qualche anno in Italia c'è stata veramente la lotta di classe. Ecco, credo che dopo questa premessa si possa parlare del ruolo dei sindacati.

CORRADO B. - Per analizzare il ruolo dei sindacati credo sia opportuno vedere l'evoluzione della strategia delle confederazioni che è passata dalle rivendicazioni economiche ad una strategia più estesa che si può chiamare delle riforme politiche. Ma oltre a portare avanti con i partiti di sinistra questa strategia nuova delle riforme, della riconversione, le confederazioni esprimono oggi anche una consapevolezza autonoma nel voler gestire una fetta del potere tecnoburocratico di cui sono anche portatrici. In questa luce si capisce perfettamente come sia stata possibile l'unificazione delle tre federazioni che, al di là delle differenze partitiche da cui discendono, sanno molto bene quale sarà il ruolo della confederazione in un futuro non troppo lontano. Dopo aver recuperato il consiglio di fabbrica e dopo averlo ridotto a cinghia di trasmissione del controllo sindacale, le confederazioni fanno passare questo disegno attraverso le continue contrattazioni, le continue proposte sugli investimenti, sulle riconversioni, sulla mobilità, tutte cose che bene o male ci troviamo tutti ad affrontare in fabbrica. E attraverso tutti questi discorsi i sindacati si presentano, di fatto, sempre più come la controparte dei lavoratori. La loro azione sfrutta la situazione che l'operaio si trova ad affrontare in questo momento di crisi, che lo mette continuamente di fronte al pericolo del posto di lavoro, del salario. È proprio grazie a questo continuo ricatto e alla conseguente posizione di difesa degli operai, che la tematica portata avanti dalle Confederazioni riesce a passare. Riassumendo, secondo me le confederazioni, anche attraverso i loro organismi periferici come il Consiglio di fabbrica o l'esecutivo, esprimono il loro ruolo antioperaio e repressivo alleandosi con i padroni e tacciando di "provocatori" tutti coloro che dimostrano di non voler accettare il loro discorso. Per tutto questo io ritengo sia per noi assolutamente impossibile agire all'interno di qualsiasi organismo sindacale, anche dei consigli di fabbrica.

MAURO P. - Credo che dopo il '68 il sindacato si sia reso conto che attraverso le lotte minimali, vertenziali non sarebbe riuscito ad inserirsi nell'area di potere, non sarebbe riuscito a determinare a livello generale la politica di programmazione economica e quindi ha imboccato una strategia focalizzata sulle riforme ed è riuscito ad avere in questo modo una notevole influenza. Ora per rendere possibile la pianificazione, la programmazione, cosa offrono i sindacati? Offrono la disponibilità dei lavoratori, la loro manovrabilità. Il sindacato sta portando avanti le sue lotte, che non sono le lotte dei lavoratori e lo vediamo dai contratti che puntano sempre più sugli investimenti, sull'occupazione, per gestire l'economia italiana, mentre ai lavoratori non viene neppure lasciata la possibilità di decidere le proprie rivendicazioni in base ai bisogni reali. Anche i recenti scioperi, se da un lato sono stati indetti per recuperare il malcontento esistente e le lotte autonome, dall'altro sono serviti a dimostrare alla classe padronale che i sindacati sono ancora in grado di manovrare i lavoratori, di incanalarli in modo da razionalizzare lo sfruttamento. I consigli di fabbrica, che sono gli organismi che dovranno gestire a livello di fabbrica quelle che sono le scelte nazionali, di fatto non sono ancora in grado di assolvere questa funzione per mancanza di persone preparate. Io non credo che non sia possibile per noi lavorare all'interno dei consigli di fabbrica mentre non lo credo assolutamente possibile all'interno del sindacato. Perché all'interno del consiglio di fabbrica se siamo presenti possiamo fare in modo che i lavoratori si esprimano anche sulle piccole cose, possiamo abituarli a pensare e a partecipare attivamente, possiamo fare passare la rotazione dei delegati e in questo modo quello che dovrebbe essere uno strumento sindacale non lo sarebbe più e diventerebbe invece uno strumento contro le burocrazie sindacali.

CORRADO B. - Quando mi riferivo alla impossibilità di lavorare nei consigli di fabbrica mi rifacevo ovviamente alla mia esperienza del Petrolchimico dove i consigli sono formati da "fedelissimi" del sindacato disposti anche ad usare la forza per contrastare le posizioni diverse. Secondo la mia esperienza meglio sarebbe puntare su un aumento continuo della conflittualità all'interno dei vari reparti, per stimolare e rinvigorire la logica dell'azione diretta che porti, consiglio di fabbrica o no, alla formazione di organizzazioni basate sulla lotta diretta.

MAURO P. - Credo di non essermi spiegato bene. Nel mio intervento precedente intendevo dire che bisogna puntare non tanto sugli obiettivi quanto sull'organizzazione, proponendo ai lavoratori di organizzare in un altro modo i consigli di fabbrica. Questo perché ritengo che nel giro di breve tempo, e i sintomi ci sono, gli operai si troveranno a lottare fuori dal sindacato e non avranno neppure un minimo di organizzazione a cui fare riferimento. Le forme di organizzazione possono e devono essere diverse da fabbrica a fabbrica perché attraverso la sperimentazione riusciremo forse a trovare il modello organizzativo migliore.

ALBERTO M. - I sindacati attualmente sono perfettamente allineati nel quadro politico di restaurazione e di offensiva capitalistica contro la classe operaia e questo è più che evidente. A me sembra che il sindacato si proponga attualmente di fare in modo che i lavoratori non disturbino i programmi politici che si stanno attuando sulle spalle dei lavoratori. Quando sono stati varati i primi provvedimenti governativi sono subito scoppiati degli scioperi selvaggi e in quella occasione abbiamo visto il comportamento intelligente del sindacato che è subito intervenuto indicendo uno sciopero generale e riassorbendo in questo modo una situazione difficile.

Per quanto riguarda il problema se lavorare o no all'interno dei consigli di fabbrica credo che sia da valutare di volta in volta a seconda delle varie situazioni. In linea di massima, però, sono d'accordo con quanto ha detto Mauro perché i consigli di fabbrica sono nati su precise esigenze dei lavoratori e i lavoratori debbono riappropriarsene per cambiarli e per gestirli in un altro modo attraverso la rotazione e la partecipazione diretta.

SANDRO I. - Mi sembra che il problema da analizzare sia nei riflessi che esistono tra il programma generale e quindi la collocazione del sindacato in questa crisi e il modo in cui il sindacato fa passare questo programma nel mondo del lavoro.

È importante esaminare il cedimento dei sindacati sul discorso della "mobilità", cioè l'accettazione tacita del programma di ristrutturazione aziendale, perché questo mette a nudo il ruolo che i sindacati stanno oggi giocando. Sono chiarificanti alcuni esempi. All'Alfa Romeo, quando i lavoratori hanno denunciato la politica poliziesca della direzione che aveva visitato cinquemila operai e non ne aveva assunto nessuno malgrado necessitassero settecento assunzioni, il sindacato non ha preso posizione perché inserito in un certo tipo di logica. Alla Magneti Marelli i quattro lavoratori che sono stati recentemente licenziati prima erano stati estromessi dalla F.L.M. e il sindacato ha quindi favorito la manovra padronale isolando questi compagni. Un altro aspetto dell'operazione che si sta portando avanti a danno dei lavoratori è la politica dell'Ufficio di Collocamento e dei Comitati Unitari di Zona, organismi che riescono a svolgere una funzione di "filtro" della forza lavoro. Ed è importante anche vedere l'opera di divisione attuata tra i disoccupati. Macroscopico è il caso di Napoli dove si sono attuate vere e proprie azioni camorresche per lacerare il movimento dei disoccupati.

In tutte queste operazioni è chiaro il ruolo dei sindacati che (proprio perché agiscono in un'ottica riformista e nell'ambito della logica capitalista) tendono ad eliminare qualsiasi tipo di aggregazione su tematiche di classe per favorire la politica di riconversione industriale.

FRANCO S. - Il sindacato oggi, come è emerso anche dagli interventi precedenti, ha una doppia funzione: da un lato cinghia di trasmissione per portare e fare accettare alle masse operaie la politica dei partiti, dall'altro è garante della pace sociale. Abbandonata da lungo tempo la concezione dello sciopero generale come momento iniziale dell'espropriazione delle strutture produttive, abbandonata la pratica della lotta intransigente e dell'azione diretta, a favore di una concezione "democratica" più rispondente alla logica del capitalismo avanzato, oggi i sindacati hanno una enorme capacità di recupero e lo si è visto sia con l'ultimo sciopero generale sia qualche tempo fa a Torino quando c'è stato un grosso movimento per l'autoriduzione. In quella occasione i sindacati hanno preso posizione a livello nazionale contro queste forme di azione diretta ma a Torino era proprio il sindacato che portava avanti l'autoriduzione proprio per non sputtanarsi completamente.

Abbiamo analizzato la situazione attuale, la crisi economica, il tipo di risposta padronale e governativa, il ruolo che i sindacati oggi svolgono in Italia. Quale dovrebbe essere il ruolo del sindacalismo rivoluzionario nei confronti di questa politica comune che unisce padroni, sindacati e dirigenti statali? Quali sono le modalità organizzative che ci possiamo dare per contrastare il disegno di ristrutturazione e di riconversione industriale, tenuto presente questo embrione di rinascita dell'autonomia operaia e, più in generale, quale deve essere il ruolo degli anarchici all'interno della conflittualità sociale? Quali le tematiche da portare avanti?

ALDO O. - La risposta non è delle più semplici. Dando per scontato che dobbiamo rifiutare tra i lavoratori il ruolo delle cosiddette "avanguardie", credo che la nostra funzione sia di portare dove siamo presenti e dove nascono lotte autonome, dovunque si aprano spazi per effetto della conflittualità, un discorso più generale sulla capacità che il proletariato ha di esprimere una società alternativa. E questo è un compito estremamente difficile perché i lavoratori non credono più a questa possibilità.

MAURO P. - Sindacalismo rivoluzionario... già questa definizione a me suona un po' strana, perché il sindacalismo è, di per sé, sempre riformista e non rivoluzionario. Siamo noi, militanti anarchici, che nella pratica del sindacalismo dobbiamo immettere dei contenuti che ci avvicinino alla rivoluzione. Nessuno obbiettivo che ci si possa dare è in sé rivoluzionario, ma se noi raggiungiamo un qualsiasi obiettivo insieme ai lavoratori, con la loro partecipazione attiva, ecco che, con la crescita della loro coscienza possiamo dire di esserci avvicinati anche di un piccolissimo passo alla rivoluzione.

MAURIZIO F. - Io credo che il momento attuale sia uno dei momenti più favorevoli che si siano presentati al movimento anarchico da un po' di anni a questa parte. Ci troviamo in un periodo di transizione in cui il potere sta cercando di riorganizzare su altre basi la struttura economica e sociale italiana e in ogni periodo di transizione si aprono degli spazi che vengono momentaneamente lasciati scoperti. Ci troviamo anche in un momento in cui i lavoratori sono scontenti ed incazzati e quindi sono forse più sensibili e disponibili a un discorso di rottura. Il nostro compito quindi oggi e fintanto che il disegno restauratore non sarà completamente realizzato, è di occupare questi spazi con la nostra presenza e con le nostre proposte con la coscienza che ormai siamo rimasti gli unici ad avere qualcosa di alternativo da dire agli sfruttati.

Dobbiamo quindi intervenire, ma come? Secondo me creando innanzitutto un collegamento tra tutti i lavoratori anarchici e libertari per un confronto tra le varie situazioni e lo studio di una strategia di intervento che tenti di stabilire un legame, secondo me molto importante, tra la fabbrica con i suoi problemi e il territorio. Questo collegamento si può chiamare Nuclei Libertari di Fabbrica o in qualsiasi altro modo, ma è importante che ci sia per rendere più incisive le lotte e quindi per aumentare la nostra credibilità. Poi, dopo tutto questo lavoro, quando i lavoratori ci conosceranno e ci apprezzeranno, potremo affrontare il discorso del sindacato libertario.

CORRADO B. - Mi trovo abbastanza d'accordo con il compagno Maurizio. Anche per me la situazione è favorevole per un nostro intervento e dobbiamo cominciare col fare chiarezza su tutta una serie di mistificazioni portate avanti dai sindacati, spiegare fino in fondo dove va a finire il discorso della riconversione, quello degli investimenti, a cosa porta il superamento della nocività all'interno della fabbrica. Un altro compito che dovremo svolgere all'interno della fabbrica e del sociale è quello di aumentare la conflittualità che è sempre presente e che trova la sua espressione nell'assenteismo, nel rifiuto dei carichi di lavoro, cioè in tutte quelle forme di insubordinazione che quotidianamente sono presenti in ogni realtà. È attraverso la nostra presenza e la nostra lotta in queste isole che continuamente si formano nella realtà sociale (che vengono poi riassorbite e che però continuano a riformarsi), che possiamo aumentare il livello di coscienza dei lavoratori. Poi, in un secondo tempo, potremo pensare di organizzarci in un sindacato libertario o in altre forme organizzative.

SANDRO I. - Le forme organizzative che ci dobbiamo dare devono discendere dalle situazioni di lotta e dal livello raggiunto dal movimento. Cioè una forma di azione diretta ha senso se ha dietro una lotta qualificata con obiettivi ben precisi. Oggi è riduttivo puntare sulla riconferma delle strutture orizzontali per smuovere il movimento, non è possibile "cavalcare" strutture orizzontali se non ci sono momenti di lotta. Parallelamente ad un'azione di controinformazione di fabbrica bisogna portare avanti un lavoro di ricucitura degli strati operai su obiettivi unificanti e contenuti qualificanti per riuscire a contrastare l'attacco padronale e su questi contenuti introdurre modelli organizzativi rispondenti alle esigenze della classe operaia. Partendo da lotte di reparto che riescano a mobilitare i lavoratori bisogna arrivare a mettere in discussione il concetto stesso dei ritmi, del lavoro salariato ecc., superando la logica attuale. Bisogna, in altre parole, agganciarsi alle proposte che il proletariato sta oggi confusamente esprimendo e su queste esigenze formulare le proposte organizzative rispondenti.

Bisogna comunque tenere presente che questi obiettivi non sono significativi in sé e per sé, ma servono da "ginnastica" per il movimento per sviluppare più alti livelli di coscienza. Ad esempio la tematica delle trentacinque ore a parità di salario va vista non come un obiettivo fine a se stesso, ma come un mezzo che serve a far crescere i compagni coinvolgendo tematiche più ampie quali i ritmi, l'occupazione, ecc..

A tutte queste cose il movimento anarchico deve riuscire a dare una risposta concreta. Purtroppo vediamo che molti compagni sono impreparati e non riescono a fronteggiare la situazione in modo soddisfacente e richiedono una forma organizzativa credendo forse che l'organizzazione possa sopperire alle loro carenze. A questi aspetti negativi dobbiamo rispondere con una riunificazione dei compagni anarchici su dei piani di lavoro che potrebbero favorire la maturazione dei compagni per passare poi a un discorso comune, di tendenza, da portare all'interno delle fabbriche e nei luoghi dove si è presenti. Cercando di capire, però, le istanze che vengono portate avanti dagli altri lavoratori e agendo a due livelli: utilizzo dei C.d.F. e degli spazi lasciati liberi dal sindacato da un lato e dall'altro creare comitati di lotta per arrivare a mettere in discussione l'organizzazione riformista in fabbrica.

GIACOMO G. - È storicamente dimostrato che il movimento rivoluzionario si sviluppa quando aumenta la tensione sociale, basta pensare alla Spagna del '36, alla Russia del '17 e all'Italia del '20. Sono quindi d'accordo con gli interventi di Maurizio e di Corrado sul ruolo che dobbiamo giocare in questo particolare momento. Aggiungerò soltanto che, laddove non sia possibile creare dei collegamenti all'interno di una fabbrica credo sia estremamente utile collegarci al quartiere e poi collegare i quartieri tra di loro per trovare degli obiettivi unificanti da portare avanti insieme.

FRANCO S. - Mi trovo d'accordo sulla creazione dei Nuclei Libertari di Fabbrica, sia che si chiamino così, sia che si chiamino Coordinamento Lavoratori o in altro modo. Quale dovrebbe essere la funzione di questi nuclei? Innanzitutto i compagni devono lavorare all'interno delle strutture sindacali di "base", tipo i consigli di fabbrica? Secondo me, laddove la situazione lo permette, i compagni devono e possono utilizzare queste strutture e questi strumenti. Poi non bisogna neppure vedere se siamo soli, in due o in cinque in una fabbrica, perché il dato numerico è importante ma non fondamentale. Anche dove esiste un solo compagno lì è possibile cominciare a lavorare e abbiamo molti esempi in cui si è riusciti a fare qualcosa di positivo. Ora vorrei portare il discorso sull'autonomia operaia di cui finora si è parlato poco. Innanzitutto è necessario vedere quali sono quei gruppi che più si avvicinano alle nostre modalità di intervento. Ad esempio qui a Milano esiste una frangia dell'autonomia che si chiama C.R.A.P. (Centro di ricerche sull'autonomia operaia) i cui componenti sono molto vicini alle nostre posizioni anche se sono più operaisti, e non analizzano con chiarezza la globalità della lotta sociale. Ecco, con questi compagni credo si possa lavorare in occasione di lotte specifiche.

MAURO P. - Io credo che il nostro compito sia estremamente difficile anche se il momento è favorevole. In definitiva si tratta da un lato di organizzare la nostra presenza in fabbrica, di collegarsi per rendere più incisiva la nostra azione, e dall'altro, cosa più difficile, si tratta di costruire, tutti insieme, una alternativa valida da proporre agli altri lavoratori. In questo senso non ci resta altro che rimboccarci le maniche.