Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 6 nr. 51
ottobre 1976


Rivista Anarchica Online

AL CINEMA
a cura di Rozac

L'ultima donna
di Marco Ferreri

La tradizionale rabbia ed aggressività del regista Ferreri sono state pienamente rispettate da questa sua ultima opera che in Italia, tradizionale sede del fenomeno del gallismo o pappagallismo o maschilismo che dir si voglia, non ha riscosso il successo che meriterebbe, trattandosi di un'opera pur minuscola, che affronta una tematica molto vasta e molto attuale: rapporti tra uomo e donna. Questo il punto focale sul quale si incentra tutta la vicenda ed occorre subito dire che Ferreri ha colto nel segno mostrandoci appieno ed in tutta la sua luce il maschio sciovinista, quello che, consapevolmente o inconsapevolmente, molti di noi sono - il sottoscritto si è riconosciuto in pieno nel voglioso Depardieu, seppure a malincuore - e le difficoltà che incontra nell'instaurare un rapporto con una donna nuova, con la Nuova Donna nata dalla presa di coscienza femminista, realmente uguale e realmente nuova, compagna e non più musa ispiratrice o vagina vorace. Tutte le contraddizioni del nuovo rapporto escono fuori giorno dopo giorno, situazione dopo situazione e, se pur convinto, l'uomo che vuol esser nuovo ha un ultimo atto di stupida ribellione maschilista che, è augurabile, farà sì che in futuro potrà comprendere appieno la nuova realtà venutasi a creare. Il taglio del pene, quasi fosse un sacrificio rituale, sta a significare l'ottusità volgare dell'uomo vecchio e forse anche la debolezza attonita dell'uomo nuovo: ma quello che è certo è che sarebbe preferibile il sacrificio rituale all'attuale stato di cose. La carica della sceneggiatura e del soggetto di Marco Ferreri e Rafael Aczona sta proprio in questo, in questa situazione esposta apertamente al colto ed all'inclita demandando la loro scelta finale tra il rozzume de "l'uomo in casa sono io, apri le cosce e fammi godere, donna, essere inferiore" e la poetica tragicità del coltello elettrico, significante nuovi rapporti, nuove relazioni umane basate su reale uguaglianza - il che non sta a significare che il taglio del pene sia obbligatorio per l'instaurazione di una nuova dialettica uomo-donna.

Gli interpreti, da Gérard Depardieu a Ornella Muti, da Renato Salvatori a Michel Piccoli, per non dimenticare il piccolissimo Beniamin Labonnelle, le scenografie di Gitt Magrini, la fotografia di Luciano Tovoli per finire alla regia di Marco Ferreri sono impeccabili, inferiori solo alla carica politica e sociale del film: possente, forte, seria, impegnata, valida e soprattutto umana.

Novecento
di Bernardo Bertolucci

E così anche Bernardo Bertolucci è entrato nella storia del cinema con la più grossa truffa che si sia mai vista sugli schermi, la più enorme baggianata che sia mai stata data vedere, lo splendido, il magnifico, il possente, il maestoso, il dispendiosissimo "Novecento", storie di hilarotragedia sulla lotta di classe (!?!) e sulla Italia dall'anno 1900 all'anno 1945. Le vite di Olmo Dal Co, contadino, ed Alfredo Berlingheri, proprietario terriero, si dipanano dinanzi ai nostri occhi unitamente alle prime lotte della classe operaia, al sorgente fascismo, all'imperversare del fascismo stesso, alla Liberazione sino - lo si arguisce malamente - ai giorni nostri senza che nulla di quello che Bertolucci ha dichiarato in mille e mille interviste appaia mai agli occhi dello spettatore: ci riferiamo alla grande epopea che vede come protagonista il popolo.

Noioso, squallido, volgare, astorico, sciatto, vuoto, il film prosegue durante il lunghissimo arco di cinque ore e dieci minuti senza coinvolgere lo spettatore minimamente, tanto appare irriguardoso e nei riguardi del popolo cosiddetto protagonista e nei confronti del pubblico. Ma Bernardo è troppo viziato e troppo ignorante - quando mai si è visto un padrone farsi toccare il pene avvizito e poi suicidarsi in una stalla forse autoimmolandosi al tempo che cambia? Quando mai si sono visti fascisti così buffoni, e contadini così buoni nella realtà quotidiana? I sogni sono una gran bella cosa, soprattutto se filmati da un Fellini, ma la realtà, e soprattutto la realtà di quel tragico periodo, è ben differente da quella narrata dalla cinepresa bertoluccina - troppo piccola per meritarsi altro appellativo - troppo permeata di lirismo fuori posto ed assolutamente ovvio. Opera dichiaratamente commerciale - anche se Bertolucci afferma il contrario e taccia di fascismo chi lo smentisce - e decisamente orientata a soddisfare i facili gusti del pubblico americano, questo Novecento è quanto di più ignominioso sia mai stato filmato in nome di una qualsivoglia ideologia di sinistra.

Interpreti più degni delle pagine di un buon fotoromanzo che di una rievocazione degli albori del socialismo - tra tutti spicca una Sandrelli che definire nulla è concederle troppo - musiche da operetta, situazioni alla Luciano Zuccoli - la futurista Sanda che si aggira come cieca in un ballo di braccianti e poi offre la sua verginità al primo venuto, su balle di fieno scontatissime - esplosioni di odio tratte dalle pagine del peggior Diabolik, e per finire una regia becera, autoincessantesi, tesa ad entrare nell'Olimpo della celluloide, bieca nel suo fuorviare lo spettatore e sicuramente cinicamente paga del risultato compiuto grazie ai sei milioni di dollari forniti dai "compagni" americani - perché di certo i produttori americani per Bertolucci saranno divenuti compagni (a lui deve bastare poco per considerarsi e considerare gli altri compagni). Ci sarebbe da dilungarsi ma non ne vale la pena: quarantaquattro righe dattiloscritte sono già troppe per parlare di un film e di un regista a mio avviso tanto discutibili.