Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 40
giugno 1975


Rivista Anarchica Online

L'educazione tecnologica
di Claudia V.

Che cosa si nasconde dietro la "scuola di massa".
La disoccupazione intellettuale e il "processo di proletarizzazione" degli insegnanti. La scuola media unica e l'università "aperta". L'importanza del sapere nella determinazione della gerarchia e dei valori sociali. Educazione tecnologica e organizzazione burocratica.

Nel corso degli anni '60 l'istituzione scolastica ha costituito uno dei terreni base per il germogliare di una convergenza di interessi giudicati fino a poco tempo prima incompatibili; autori di tale convergenza sono: l'avanguardia degli intellettuali impegnati nella scuola, i fautori dello sviluppo tecnologico e le sinistre ruotanti intorno al partito comunista. Questa convergenza all'interno del sistema scolastico ha prodotto, parallelamente al suo sviluppo, una teoria compiuta e coerente dell'educazione tecnologica che oggi si presenta come uno dei momenti più importanti del discorso pedagogico della sinistra. Esaminiamo separatamente i due aspetti di questa "nuova" cultura tracciando da una parte una breve storia delle lotte dei protagonisti principali, gli insegnanti, dall'altra indicando alcuni valori espressi da questo pensiero pedagogico.
Gli avvenimenti più significativi per il sistema scolastico riguardanti il periodo 1951-'63 si possono così riassumere: la crescita quantitativa e qualitativa dell'industria, che determina la richiesta di manodopera più qualificata e spinge verso una politica di scolarizzazione di massa; l'aumento dei salari operai e la tendenza delle classi inferiori all'ascesa sociale, la quale può attuarsi in gran parte solo mediante la scuola e una sua trasformazione da selettiva ad "aperta"; la necessità di adeguare l'istruzione medio-inferiore ai nuovi modelli produttivi e organizzativi; infine tranne che per un breve periodo di equilibrio tra domanda e offerta nel '60, il persistere della disoccupazione intellettuale.
È in questo periodo che ha inizio un fenomeno che riguarda la classe intellettuale insegnante: esso viene vissuto dagli insegnanti come "processo di proletarizzazione" e costituisce uno dei fattori del loro spostamento a sinistra; questo processo ha un aspetto economico e uno sociale.
La proletarizzazione economica coincide quasi del tutto con il problema della disoccupazione intellettuale; ma in particolare la spinta per il progetto di una scuola media egualitaria e unica nasce dall'attrito degli interessi tra gli insegnanti delle scuole elementari e gli insegnanti della media inferiore: alle spalle di queste due categorie si trovano rispettivamente le organizzazioni democristiane e cattoliche per i primi, le forze di sinistra per gli altri.
Gli obiettivi delle lotte dei maestri contro la disoccupazione si articolano nel senso di un aumento della domanda più che per una diminuzione dell'offerta, cioè per lo sviluppo dell'istruzione obbligatoria (per mezzo della scuola post-elementare), senza intaccare però le scuole medie già esistenti nel loro ruolo selettivo (nella divisione tra scuola media e l'avviamento).
Tra il '54 e il '55 l'attuazione progressiva della scuola post-elementare, non attraverso una riforma scolastica, ma mediante circolari interne, pone gli insegnanti medi di fronte al pericolo di un aggravamento della disoccupazione dei laureati togliendo ad essi buona parte di "scolarizzazione" e, in quanto successo delle forze di centro-destra, i gruppi di sinistra di fronte al pericolo di ristrutturazioni in senso conservatore. È in questa occasione che anche le organizzazioni sindacali democristiane degli insegnanti medi si "alleano" con le opposizioni di sinistra attorno al progetto di "scuola nuova, unitaria, aperta a tutti, socialmente giusta e rispondente, capace di portare ad un livello di maturazione professionale tale da permettere qualunque scelta successiva". L'obiettivo di spostare gli interessi politici dalla scuola elementare (e universitaria) alla scuola media e la possibilità, attraverso un istituzione unica e poco selettiva, di estendere l'area di occupazione degli insegnanti medi è frutto di questo processo di proletarizzazione economica degli intellettuali e il centro di battaglie politiche che approdano nel '62 alla scuola media unica e nel '69 alla definitiva apertura della scuola. La proletarizzazione sociale nasce a sua volta dalla frattura fra tipo di istruzione medio-inferiore e i nuovi modelli di produzione; è sentita in questo periodo, dall'industria e dagli insegnanti più avanzati, l'esigenza di una "scuola dell'obbligo più formativa che informativa: di dare una preparazione general-generica e soprattutto di formare il carattere e la personalità del futuro lavoratore e cittadino"; una delle ragioni di questa esigenza è il diffuso senso di insoddisfazione degli insegnanti nei confronti del proprio ruolo sociale: una cronica insoddisfazione verso una professione pressoché priva di prospettive di carriera (tutto l'iter di diplomi, abilitazioni ed entrate in ruolo che precedono l'inizio del lavoro vero e proprio, cioè la "carriera" si svolge prima di uno stabile rapporto con l'istituzione scuola), alla quale si aggiunge la crisi di quello che viene considerato dagli insegnanti, per compensazione, il valore principale della propria professione: il prestigio sociale derivante dal livello di istruzione. L'inadeguatezza dell'istruzione impartita e la difficoltà dei laureati di inserirsi nel mondo del lavoro determina una "coscienza della dequalificazione dell'istruzione" che li spinge a vedere nella scuola media unica e in un più facile passaggio dall'insegnamento inferiore a quello superiore una possibilità di rivalutazione del proprio prestigio sociale. È su queste basi che si profila il contrasto fra due diverse funzioni dell'insegnamento, fra due diversi modi di concepire il ruolo dell'intellettuale nella società: troviamo da una parte gli insegnanti conservatori incapaci di immaginare sistemi scolastici diversi da quelli tradizionali, fermi alla concezione del proprio ruolo come agenti dell'élite dominante, dall'altra i riformisti di sinistra, per i quali un diverso modo di insegnare, al passo con i tempi e con la nuova classe emergente, permette loro di rivalutare la propria funzione sociale e di riconoscersi in quanto intellettuali, più che in un ideologia politica, in una "nuova" cultura o "visione del mondo".

La sinistra e le lotte nelle scuole

A dare espressione ideologica e riferimento politico al "processo di proletarizzazione", ha contribuito in modo determinante il partito comunista, in un primo tempo nella campagna elettorale del '58 e in modo determinante nella seconda metà degli anni '60. La politica scolastica è infatti fino al '58, caratterizzata dall'egemonia democristiana e cattolica: si tratta di una politica volta ad impedire la mobilità scolastica alle classi inferiori, a chiudere gli accessi ai gradi superiori dell'istruzione, in sostanza a rafforzare il carattere selettivo della fascia scolastica medio-inferiore.
Per tutto questo periodo le organizzazioni politiche e sindacali trascurano il settore scuola: sfollare le università, ridurre le scuole secondarie e classiche a "poche ma buone", rafforzare la selezione e la separazione fra istituti professionali e licei costituisce la politica scolastica delle sinistre.
Improvvisamente le organizzazioni di sinistra, a partire dal PCI, diventano i promotori della scuola egualitaria e si fanno interpreti delle "istanze popolari" del corpo insegnante: l'adempimento dell'obbligo scolastico e la modifica della scuola media in scuola unica costituiscono i due obiettivi di lotta: con la campagna elettorale del '58 il PCI si lancia apertamente alla conquista degli strati intellettuali favorendone gli interessi. Dopo l'istituzione della scuola media unica ('62), la disoccupazione, temporaneamente arginata, dilaga nuovamente, riaprendo il processo di proletarizzazione. Nel frattempo il dislivello tra scuola e società si fa incolmabile; è negli anni '60, un può alle spalle delle lotte studentesche, che le sinistre sempre più si pongono come soggetti della riforma tecnoburocratica della scuola e alla difesa degli interessi degli intellettuali, intrecciando con questi ultimi rapporti sempre più stretti: nel '67 PCI e PSI fondano il primo nucleo del sindacato scuola CGIL; nel '68, dietro gli obiettivi della dequalificazione del voto, la contestazione dei libri di testo e degli esami di abilitazione, le sinistre vedono maturare un attacco cosciente alla scuola capitalistico-borghese; nel '70-'72, sulla base comune della contestazione dei corsi abilitanti, la CGIL spinge per l'unità sindacale; nei programmi di lotta si legge che l'insegnante è giunto alla "scoperta delle dimensioni collettive e politiche e della quantità e qualità proletarie dei problemi. Prende coscienza della propria identità sociale di lavoratore salariato e subordinato e ha una precisa contropartita: lo Stato padrone" e comprende "la possibilità oggettiva e soggettiva e l'interesse che gli insegnanti hanno di essere soggetti politici della lotta di classe di segno proletario". Gli obiettivi della lotta sono: egualitarismo, autogestione, occupazione e scolarizzazione di massa. Del '70 infine sono le lotte unitarie e gli scioperi generali contro il governo di centro-destra e gli sforzi per far convergere le lotte della scuola e delle fabbriche (attraverso l'obiettivo del diritto allo studio per gli operai) a cui si aggiungono nel '74 le battaglie per la riforma dello stato giuridico degli insegnanti.

Egualitarismo e progressismo

La teoria dell'educazione tecnologica oscilla tra due poli: uno fa riferimento alle tesi del riformismo di sinistra di tipo svedese secondo il quale "la nuova scuola vuole porsi sia oltre la scuola borghese che quella di massa ed essere progressista e socialista". L'altro alla pedagogia marxista, in parte sovietica, ad uso della futura dittatura del proletariato, ma mediata con le "istanze libertarie" dei paesi occidentali.
Egualitarismo e progressismo sono i suoi punti cardine.
La trasformazione in atto della struttura economica sociale dal tipo capitalistico a quello tecnoburocratico ha comportato per i paesi più avanzati (ed ora ai suoi primi passi in Italia) una riforma della scuola nelle sue due funzioni principali: l'istruzione e l'educazione. È cambiata l'istruzione in rapporto alla richiesta di un nuovo tipo di professionalità media. È cambiata la pratica e la teoria dell'educazione, nella misura in cui l'educazione (specialmente se volta alle esigenze del futuro) si appropria dei valori sociali emergenti e li rielabora in un più ampio pensiero antropologico.
Agli inizi degli anni '60 l'istruzione ha assunto agli occhi degli economisti più avanzati un ruolo fondamentale per lo sviluppo economico: si è caratterizzata cioè sempre più come investimento economico necessario per il miglioramento produttivo e per affrontare la concorrenza internazionale.
In quanto "fattore di progresso" il sapere ha acquistato una funzione precisa anche nella determinazione dei valori sociali e in modo particolare nello stabilire la posizione di un individuo nella gerarchia sociale: nel periodo preindustriale tale posizione era soprattutto legata alla condizione di nascita, nel periodo di pieno capitalismo alle capacità innate e ai meriti personali, nella tecnocrazia l'attribuzione delle funzioni sociali è divenuta una prerogativa del sistema di istruzione e questa regola le possibilità di ascese sociali e le norme che ne derivano.
Il sapere medio richiesto dall'evoluzione tecnologica consiste soprattutto in una formazione intellettuale e pratica che prepari l'individuo ad adeguarsi ai rapidi mutamenti tecnologici, nonché a dare un contributo attivo al progresso: il sapere non viene inteso come una conoscenza acquisita una volta per tutte, ma piuttosto come "attitudine ad acquisire conoscenze nuove" mediante un repertorio base che abbia un vasto campo di applicazione. Il sapere tecnologico si differenzia da quello capitalistico nel senso che mentre quest'ultimo si fonda sulla elaborazione e diffusione dell'informazione e sulla conoscenza dei modi in cui il sapere può esser utilizzato, il sapere tecnologico non si identifica tanto con un contenuto specifico (se naturalmente escludiamo la specializzazione ad alto livello), quanto piuttosto con una funzione: il suo obiettivo è educare facendo coincidere formazione e informazione, contenuto dell'insegnamento e modo di apprendimento, l'istruzione con la "capacità di imparare ad imparare"; l'apprendimento scolastico si fonda sulla comprensione della struttura logica delle diverse materie per agevolare il passaggio dall'una all'altra, ma soprattutto sulla attitudine psicologica ad "adattarsi in modo attivo". Lo scopo è rendere l'individuo stesso funzione della società, attraverso una formazione integrale che si articola su valori quali la partecipazione, la democraticità, il collettivismo.

L'organizzazione tecnoburocratica

Ma prima di considerare singolarmente questi valori può essere utile accennare ad alcuni fatti: l'educazione del futuro (quale vuole essere l'educazione tecnologica) non deve adeguarsi solo al tipo di produzione tecnologico, ma anche al tipo di organizzazione tecnoburocratico che tali organizzazioni costituiscono nei paesi più avanzati il loro tessuto sociale, per cui essi sono più che puri strumenti per la produzione di merci e di servizi, ma hanno importanti effetti normativi; inoltre esse tendono a porsi come istituzioni totali, ad assorbire cioè totalmente al proprio interno la vita sociale dei suoi componenti.
Nel nostro caso due aspetti sono importanti dell'organizzazione tecnoburocratica: il rapporto tra l'individuo e il proprio ruolo e il rapporto tra l'individuo e l'organizzazione.
Rispetto al lavoro, quest'ultimo nella grande organizzazione tende a perdere il proprio valore autonomo (cioè in quanto lavoro), per essere sostituito dai risultati che da esso derivano: guadagno, sicurezza, prestigio. Ed è noto come il lavoro spersonalizzato spinga gli individui a trovare una gratificazione più nei simboli (di prestigio) e nel loro consumo, che nella realtà della funzione svolta. Ma questa spersonalizzazione è efficace soprattutto perché su di essa o meglio, per mezzo di questa, l'organizzazione svolge uno dei suoi compiti principali (e del resto vitali per la propria stessa vita): la determinazione del comportamento. L'organizzazione tecnoburocratica esclude i criteri personali nella valutazione dei suoi componenti, ma poggia su "criteri obiettivi": il bene dell'organizzazione è il valore più alto e il soggetto che incarna questa obiettività è la collettività: questo significa che l'individuo è indotto a valutare il proprio prestigio o valore in base all'unico modo di esprimersi che l'organizzazione esige dalla collettività: l'unanimità. Nelle leggi "sociali" dell'organizzazione tecnoburocratica l'unanimità è vincolata ad un altro fattore: la responsabilità. È altrettanto fondamentale infatti che l'individuo risponda in tutte le sue azioni alla volontà e alle esigenze collettive, che il suo comportamento sia consapevole dei suoi legami con l'organizzazione e la collettività a sua volta è chiamata a controllare le azioni del singolo, a funzionare da metro di misura nei suoi giudizi e scelte.
Ecco quindi che per questo tipo di organizzazioni il simbolo e la collettività sono beni preziosi: educare la personalità ad essere sensibile al comportamento sociale e ai suoi simboli è una necessità.
Ritorniamo ora ai valori quali la partecipazione, lo spirito democratico e il collettivismo come sono espressi nella pedagogia delle sinistre, tenendo presenti che essi rientrano in una lotta mirante a rafforzare il carattere istituzionale della scuola (estensione dell'obbligo scolastico e tempo pieno) e che, essendosi trasformati i nuclei culturali tradizionali, il ruolo dell'istruzione viene svolto in gran parte dalla società attraverso i mass-media e la funzione educativa un tempo della famiglia è ora assunta dalla scuola.
Secondo questa pedagogia l'educazione deve dare "l'opportunità di sperimentare una partecipazione funzionale alla vita sociale" (è la "educazione alla fungibilità" propagandata dal PCI nel '58), insegnare "l'autodisciplina nei compiti individuali e collettivi", "dare ai giovani la possibilità di dedicarsi a dei compiti significativi". L'educazione si esplica come "apprendimento pratico di principi sociali edificanti" ed infine tutto ciò può avvenire solo in una scuola che sia, in formato ridotto e "simbolico" "una comunità di lavoro perché il giovane acquisti la coscienza del proprio ruolo".
Il semplice adattamento passivo, frutto dell'educazione autoritaria, dev'essere bandito perché "un cittadino apatico costituisce una base molto instabile per ogni sistema politico, particolarmente in tempo di crisi, perché il sistema non può contare sul suo sostegno attivo e sulla sua lealtà".
L'integrazione si realizza attraverso la strumentalizzazione della creatività e del criticismo; l'individuo deve sapere che ogni soluzione è relativa e migliorabile; il sapere è la "capacità di procedere oltre le forme culturali del proprio tempo" e la comprensione che le soluzioni non sono mai definitive, ma sempre "relative alle funzioni e alle situazioni da soddisfare". Si ha dunque, da una parte la difesa di una "apertura critica" al "principio del possibile", dall'altra, implicitamente, l'affermazione che nulla è possibile al di fuori di una risposta adeguata e funzionale alla realtà.
Quali sono allora queste "frontiere del possibile", quale la loro dimensione nell'importante rapporto tra l'uomo nella storia e l'uomo e la società così come sono espressi nella teoria pedagogica del progressismo?

Contro la storia

Suchodolski, un teorico di importazione tra quelli più in voga, afferma che lo spirito di progresso va inteso "innanzitutto come impegno personale che va dalla capacità di comprendere che la produttività deve essere costantemente migliorata, alla teoria della continua possibilità di miglioramento umano, di comprendere la necessità dell'evoluzione"; che "la moderna filosofia del progresso accetta le fondamentali direttrici evolutive della civiltà moderna, della quale sottopone a critica la forma attuale"; ed ancora, che "l'uomo crea il mondo in cui vive: tale creazione non consiste in un atto unico, ma in un processo storico: ogni passo sul cammino dell'ulteriore attività creativa presuppone l'assimilazione da parte dell'uomo delle sue precedenti conquiste e la consapevolezza delle tappe già raggiunte" ed infine che "opporsi alla situazione di fatto non significa necessariamente opporsi alla storia generale: sì può contrastare una determinata situazione proprio per mantenersi in linea con la fondamentale tendenza della storia".
Queste ed altre affermazioni sembrano tutte condurre alla considerazione che il principio guida di questo progressismo sia in sostanza una negazione: la storia è aperta a diverse possibili soluzioni, ma sono possibilità reali solo quelle contemplate dalla necessità dell'evoluzione. L'uomo può trovare infinite varianti ad un processo storico ma non metterlo in discussione, non andare contro la storia; è chiaro che una simile tesi può, per ipotesi, giustificarsi solo ammettendo che la storia del potere e quella degli sfruttati procedano necessariamente secondo le medesime leggi evolutive, leggi che escluderebbero del tutto la possibilità di una "volontà di rivoluzione" che si opponga al deterministico mutare della struttura del potere, e realizzi l'utopia.
È una tesi in sostanza che sembra rispolverare l'ideologia borghese dell'ottocento dei "cambiamento nella continuità" e della comunanza, nella storia, degli interessi dei padroni con quelli degli sfruttati.
Su questa base anche il rapporto tra l'individuo e le norme e le istituzioni sociali e il rapporto tra "vero" e "falso" sono di natura particolare.
Sempre lo stesso autore afferma che "il progresso è la dialettica unificazione di fattori oggettivi e soggettivi. La teoria della personalità mira all'armonizzazione delle necessità individuali con i processi dell'evoluzione civile, cioè alla coscienza dell'unità di interessi soggettivi e oggettivi"; ma che cosa è oggettivamente, storicamente, valido?: "il marxismo sottolinea la validità delle idee che si fanno strada nelle masse popolari e l'erroneità dei concetti individuali avulsi dalla corrente oggettiva della storia": questo significa, in termini bizantini, ma "dialettici", che nel sottile rapporto tra funzione e valore (o verità) di una norma sociale, la norma valida è solo quella dettata dall'opinione delle masse in quanto collettiva e ad esse funzionale; e che se l'opinione individuale è, proprio perché individuale, errata, la verità è garantita solo dalla collettività: e si tratta un "vero" del tutto particolare, dal momento che si identifica con "l'opinione".
Una teoria della storia così perniciosa, non può che concludersi con un richiamo al "realismo" ricco di allusioni nei confronti di tutti i rivoluzionari effettivi o potenziali (il progressismo marxista ha infatti esorcizzato il pericolo riformista, in quanto il riformismo è nella sua stessa struttura): è segno di maturità sociale saper "individuare in una determinata situazione storica... quanto esprime la corrente di progresso e quanto invece ne costituisce la negazione", contro le minacce di una "vana lotta donchisciottesca contro il progresso storico in marcia", poiché all'uomo è dato realizzare "solo ciò che è possibile e non ciò che è desiderabile".

Claudia V.