Rivista Anarchica Online
L'educazione tecnologica
di Claudia V.
Che cosa si nasconde dietro la "scuola di massa". La disoccupazione intellettuale e il "processo di
proletarizzazione" degli insegnanti. La scuola media unica e
l'università "aperta". L'importanza del sapere nella determinazione della gerarchia e dei valori
sociali. Educazione
tecnologica e organizzazione burocratica.
Nel corso degli anni '60 l'istituzione scolastica ha costituito uno dei terreni
base per il germogliare di una
convergenza di interessi giudicati fino a poco tempo prima incompatibili; autori di tale convergenza sono:
l'avanguardia degli intellettuali impegnati nella scuola, i fautori dello sviluppo tecnologico e le sinistre
ruotanti
intorno al partito comunista. Questa convergenza all'interno del sistema scolastico ha prodotto,
parallelamente
al suo sviluppo, una teoria compiuta e coerente dell'educazione tecnologica che oggi si presenta come
uno dei
momenti più importanti del discorso pedagogico della sinistra. Esaminiamo separatamente i due
aspetti di questa
"nuova" cultura tracciando da una parte una breve storia delle lotte dei protagonisti principali, gli
insegnanti,
dall'altra indicando alcuni valori espressi da questo pensiero pedagogico. Gli avvenimenti più
significativi per il sistema scolastico riguardanti il periodo 1951-'63 si possono così
riassumere: la crescita quantitativa e qualitativa dell'industria, che determina la richiesta di manodopera
più
qualificata e spinge verso una politica di scolarizzazione di massa; l'aumento dei salari operai e la
tendenza delle
classi inferiori all'ascesa sociale, la quale può attuarsi in gran parte solo mediante la scuola e una
sua
trasformazione da selettiva ad "aperta"; la necessità di adeguare l'istruzione medio-inferiore ai
nuovi modelli
produttivi e organizzativi; infine tranne che per un breve periodo di equilibrio tra domanda e offerta nel
'60, il
persistere della disoccupazione intellettuale. È in questo periodo che ha inizio un fenomeno
che riguarda la classe intellettuale insegnante: esso viene vissuto
dagli insegnanti come "processo di proletarizzazione" e costituisce uno dei fattori del loro spostamento
a sinistra;
questo processo ha un aspetto economico e uno sociale. La proletarizzazione economica coincide
quasi del tutto con il problema della disoccupazione intellettuale; ma
in particolare la spinta per il progetto di una scuola media egualitaria e unica nasce dall'attrito degli
interessi tra
gli insegnanti delle scuole elementari e gli insegnanti della media inferiore: alle spalle di queste due
categorie si
trovano rispettivamente le organizzazioni democristiane e cattoliche per i primi, le forze di sinistra per
gli altri. Gli obiettivi delle lotte dei maestri contro la disoccupazione si articolano nel senso di un
aumento della domanda
più che per una diminuzione dell'offerta, cioè per lo sviluppo dell'istruzione obbligatoria
(per mezzo della scuola
post-elementare), senza intaccare però le scuole medie già esistenti nel loro ruolo
selettivo (nella divisione tra
scuola media e l'avviamento). Tra il '54 e il '55 l'attuazione progressiva della scuola post-elementare,
non attraverso una riforma scolastica, ma
mediante circolari interne, pone gli insegnanti medi di fronte al pericolo di un aggravamento della
disoccupazione
dei laureati togliendo ad essi buona parte di "scolarizzazione" e, in quanto successo delle forze di
centro-destra,
i gruppi di sinistra di fronte al pericolo di ristrutturazioni in senso conservatore. È in questa
occasione che anche
le organizzazioni sindacali democristiane degli insegnanti medi si "alleano" con le opposizioni di sinistra
attorno
al progetto di "scuola nuova, unitaria, aperta a tutti, socialmente giusta e rispondente, capace di portare
ad un
livello di maturazione professionale tale da permettere qualunque scelta successiva". L'obiettivo di
spostare gli
interessi politici dalla scuola elementare (e universitaria) alla scuola media e la possibilità,
attraverso un
istituzione unica e poco selettiva, di estendere l'area di occupazione degli insegnanti medi è frutto
di questo
processo di proletarizzazione economica degli intellettuali e il centro di battaglie politiche che approdano
nel
'62 alla scuola media unica e nel '69 alla definitiva apertura della scuola. La proletarizzazione sociale
nasce a
sua volta dalla frattura fra tipo di istruzione medio-inferiore e i nuovi modelli di produzione; è
sentita in questo
periodo, dall'industria e dagli insegnanti più avanzati, l'esigenza di una "scuola dell'obbligo
più formativa che
informativa: di dare una preparazione general-generica e soprattutto di formare il carattere e la
personalità del
futuro lavoratore e cittadino"; una delle ragioni di questa esigenza è il diffuso senso di
insoddisfazione degli
insegnanti nei confronti del proprio ruolo sociale: una cronica insoddisfazione verso una professione
pressoché
priva di prospettive di carriera (tutto l'iter di diplomi, abilitazioni ed entrate in ruolo che precedono l'inizio
del
lavoro vero e proprio, cioè la "carriera" si svolge prima di uno stabile rapporto con l'istituzione
scuola), alla quale
si aggiunge la crisi di quello che viene considerato dagli insegnanti, per compensazione, il valore
principale della
propria professione: il prestigio sociale derivante dal livello di istruzione. L'inadeguatezza dell'istruzione
impartita
e la difficoltà dei laureati di inserirsi nel mondo del lavoro determina una "coscienza della
dequalificazione
dell'istruzione" che li spinge a vedere nella scuola media unica e in un più facile passaggio
dall'insegnamento
inferiore a quello superiore una possibilità di rivalutazione del proprio prestigio sociale. È
su queste basi che si
profila il contrasto fra due diverse funzioni dell'insegnamento, fra due diversi modi di concepire il ruolo
dell'intellettuale nella società: troviamo da una parte gli insegnanti conservatori incapaci di
immaginare sistemi
scolastici diversi da quelli tradizionali, fermi alla concezione del proprio ruolo come agenti
dell'élite dominante,
dall'altra i riformisti di sinistra, per i quali un diverso modo di insegnare, al passo con i tempi e con la
nuova classe
emergente, permette loro di rivalutare la propria funzione sociale e di riconoscersi in quanto intellettuali,
più che
in un ideologia politica, in una "nuova" cultura o "visione del mondo".
La sinistra e le lotte nelle scuole
A dare espressione ideologica e riferimento politico al "processo di proletarizzazione", ha contribuito
in modo
determinante il partito comunista, in un primo tempo nella campagna elettorale del '58 e in modo
determinante
nella seconda metà degli anni '60. La politica scolastica è infatti fino al '58, caratterizzata
dall'egemonia
democristiana e cattolica: si tratta di una politica volta ad impedire la mobilità scolastica alle classi
inferiori, a
chiudere gli accessi ai gradi superiori dell'istruzione, in sostanza a rafforzare il carattere selettivo della
fascia
scolastica medio-inferiore. Per tutto questo periodo le organizzazioni politiche e sindacali trascurano
il settore scuola: sfollare le università,
ridurre le scuole secondarie e classiche a "poche ma buone", rafforzare la selezione e la separazione fra
istituti
professionali e licei costituisce la politica scolastica delle sinistre. Improvvisamente le organizzazioni
di sinistra, a partire dal PCI, diventano i promotori della scuola egualitaria e
si fanno interpreti delle "istanze popolari" del corpo insegnante: l'adempimento dell'obbligo scolastico
e la
modifica della scuola media in scuola unica costituiscono i due obiettivi di lotta: con la campagna
elettorale del
'58 il PCI si lancia apertamente alla conquista degli strati intellettuali favorendone gli interessi. Dopo
l'istituzione
della scuola media unica ('62), la disoccupazione, temporaneamente arginata, dilaga nuovamente,
riaprendo il
processo di proletarizzazione. Nel frattempo il dislivello tra scuola e società si fa incolmabile;
è negli anni '60,
un può alle spalle delle lotte studentesche, che le sinistre sempre più si pongono come
soggetti della riforma
tecnoburocratica della scuola e alla difesa degli interessi degli intellettuali, intrecciando con questi ultimi
rapporti
sempre più stretti: nel '67 PCI e PSI fondano il primo nucleo del sindacato scuola CGIL; nel '68,
dietro gli
obiettivi della dequalificazione del voto, la contestazione dei libri di testo e degli esami di abilitazione,
le sinistre
vedono maturare un attacco cosciente alla scuola capitalistico-borghese; nel '70-'72, sulla base comune
della
contestazione dei corsi abilitanti, la CGIL spinge per l'unità sindacale; nei programmi di lotta si
legge che
l'insegnante è giunto alla "scoperta delle dimensioni collettive e politiche e della quantità
e qualità proletarie dei
problemi. Prende coscienza della propria identità sociale di lavoratore salariato e subordinato e
ha una precisa
contropartita: lo Stato padrone" e comprende "la possibilità oggettiva e soggettiva e l'interesse
che gli insegnanti
hanno di essere soggetti politici della lotta di classe di segno proletario". Gli obiettivi della lotta sono:
egualitarismo, autogestione, occupazione e scolarizzazione di massa. Del '70 infine sono le lotte unitarie
e gli
scioperi generali contro il governo di centro-destra e gli sforzi per far convergere le lotte della scuola e
delle
fabbriche (attraverso l'obiettivo del diritto allo studio per gli operai) a cui si aggiungono nel '74 le battaglie
per
la riforma dello stato giuridico degli insegnanti.
Egualitarismo e progressismo
La teoria dell'educazione tecnologica oscilla tra due poli: uno fa riferimento alle tesi del riformismo
di sinistra
di tipo svedese secondo il quale "la nuova scuola vuole porsi sia oltre la scuola borghese che quella di
massa ed
essere progressista e socialista". L'altro alla pedagogia marxista, in parte sovietica, ad uso della futura
dittatura
del proletariato, ma mediata con le "istanze libertarie" dei paesi occidentali. Egualitarismo e
progressismo sono i suoi punti cardine. La trasformazione in atto della struttura economica sociale
dal tipo capitalistico a quello tecnoburocratico ha
comportato per i paesi più avanzati (ed ora ai suoi primi passi in Italia) una riforma della scuola
nelle sue due
funzioni principali: l'istruzione e l'educazione. È cambiata l'istruzione in rapporto alla richiesta
di un nuovo tipo
di professionalità media. È cambiata la pratica e la teoria dell'educazione, nella misura
in cui l'educazione
(specialmente se volta alle esigenze del futuro) si appropria dei valori sociali emergenti e li rielabora in
un più
ampio pensiero antropologico. Agli inizi degli anni '60 l'istruzione ha assunto agli occhi degli
economisti più avanzati un ruolo fondamentale per
lo sviluppo economico: si è caratterizzata cioè sempre più come investimento
economico necessario per il
miglioramento produttivo e per affrontare la concorrenza internazionale. In quanto "fattore di
progresso" il sapere ha acquistato una funzione precisa anche nella determinazione dei valori
sociali e in modo particolare nello stabilire la posizione di un individuo nella gerarchia sociale: nel periodo
preindustriale tale posizione era soprattutto legata alla condizione di nascita, nel periodo di pieno
capitalismo
alle capacità innate e ai meriti personali, nella tecnocrazia l'attribuzione delle funzioni sociali
è divenuta una
prerogativa del sistema di istruzione e questa regola le possibilità di ascese sociali e le norme che
ne derivano. Il sapere medio richiesto dall'evoluzione tecnologica consiste soprattutto in una
formazione intellettuale e pratica
che prepari l'individuo ad adeguarsi ai rapidi mutamenti tecnologici, nonché a dare un contributo
attivo al
progresso: il sapere non viene inteso come una conoscenza acquisita una volta per tutte, ma piuttosto
come
"attitudine ad acquisire conoscenze nuove" mediante un repertorio base che abbia un vasto campo di
applicazione.
Il sapere tecnologico si differenzia da quello capitalistico nel senso che mentre quest'ultimo si fonda sulla
elaborazione e diffusione dell'informazione e sulla conoscenza dei modi in cui il sapere può esser
utilizzato, il
sapere tecnologico non si identifica tanto con un contenuto specifico (se naturalmente escludiamo la
specializzazione ad alto livello), quanto piuttosto con una funzione: il suo obiettivo è educare
facendo coincidere
formazione e informazione, contenuto dell'insegnamento e modo di apprendimento, l'istruzione con la
"capacità
di imparare ad imparare"; l'apprendimento scolastico si fonda sulla comprensione della struttura logica
delle
diverse materie per agevolare il passaggio dall'una all'altra, ma soprattutto sulla attitudine psicologica ad
"adattarsi
in modo attivo". Lo scopo è rendere l'individuo stesso funzione della società, attraverso
una formazione integrale
che si articola su valori quali la partecipazione, la democraticità, il collettivismo.
L'organizzazione tecnoburocratica
Ma prima di considerare singolarmente questi valori può essere utile accennare ad alcuni
fatti: l'educazione del
futuro (quale vuole essere l'educazione tecnologica) non deve adeguarsi solo al tipo di produzione
tecnologico,
ma anche al tipo di organizzazione tecnoburocratico che tali organizzazioni costituiscono nei paesi
più avanzati
il loro tessuto sociale, per cui essi sono più che puri strumenti per la produzione di merci e di
servizi, ma hanno
importanti effetti normativi; inoltre esse tendono a porsi come istituzioni totali, ad assorbire cioè
totalmente al
proprio interno la vita sociale dei suoi componenti. Nel nostro caso due aspetti sono importanti
dell'organizzazione tecnoburocratica: il rapporto tra l'individuo e il
proprio ruolo e il rapporto tra l'individuo e l'organizzazione. Rispetto al lavoro, quest'ultimo nella
grande organizzazione tende a perdere il proprio valore autonomo (cioè in
quanto lavoro), per essere sostituito dai risultati che da esso derivano: guadagno, sicurezza, prestigio. Ed
è noto
come il lavoro spersonalizzato spinga gli individui a trovare una gratificazione più nei simboli (di
prestigio) e nel
loro consumo, che nella realtà della funzione svolta. Ma questa spersonalizzazione è
efficace soprattutto perché
su di essa o meglio, per mezzo di questa, l'organizzazione svolge uno dei suoi compiti principali (e del
resto vitali
per la propria stessa vita): la determinazione del comportamento. L'organizzazione tecnoburocratica
esclude i
criteri personali nella valutazione dei suoi componenti, ma poggia su "criteri obiettivi": il bene
dell'organizzazione
è il valore più alto e il soggetto che incarna questa obiettività è la
collettività: questo significa che l'individuo è
indotto a valutare il proprio prestigio o valore in base all'unico modo di esprimersi che l'organizzazione
esige dalla
collettività: l'unanimità. Nelle leggi "sociali" dell'organizzazione tecnoburocratica
l'unanimità è vincolata ad un
altro fattore: la responsabilità. È altrettanto fondamentale infatti che l'individuo risponda
in tutte le sue azioni alla
volontà e alle esigenze collettive, che il suo comportamento sia consapevole dei suoi legami con
l'organizzazione
e la collettività a sua volta è chiamata a controllare le azioni del singolo, a funzionare da
metro di misura nei suoi
giudizi e scelte. Ecco quindi che per questo tipo di organizzazioni il simbolo e la collettività
sono beni preziosi: educare la
personalità ad essere sensibile al comportamento sociale e ai suoi simboli è una
necessità. Ritorniamo ora ai valori quali la partecipazione, lo spirito democratico e il
collettivismo come sono espressi nella
pedagogia delle sinistre, tenendo presenti che essi rientrano in una lotta mirante a rafforzare il carattere
istituzionale della scuola (estensione dell'obbligo scolastico e tempo pieno) e che, essendosi trasformati
i nuclei
culturali tradizionali, il ruolo dell'istruzione viene svolto in gran parte dalla società attraverso i
mass-media e la
funzione educativa un tempo della famiglia è ora assunta dalla scuola. Secondo questa
pedagogia l'educazione deve dare "l'opportunità di sperimentare una partecipazione funzionale
alla vita sociale" (è la "educazione alla fungibilità" propagandata dal PCI nel '58),
insegnare "l'autodisciplina nei
compiti individuali e collettivi", "dare ai giovani la possibilità di dedicarsi a dei compiti
significativi". L'educazione
si esplica come "apprendimento pratico di principi sociali edificanti" ed infine tutto ciò
può avvenire solo in una
scuola che sia, in formato ridotto e "simbolico" "una comunità di lavoro perché il giovane
acquisti la coscienza
del proprio ruolo". Il semplice adattamento passivo, frutto dell'educazione autoritaria, dev'essere
bandito perché "un cittadino apatico
costituisce una base molto instabile per ogni sistema politico, particolarmente in tempo di crisi,
perché il sistema
non può contare sul suo sostegno attivo e sulla sua lealtà". L'integrazione si realizza
attraverso la strumentalizzazione della creatività e del criticismo; l'individuo deve sapere
che ogni soluzione è relativa e migliorabile; il sapere è la "capacità di procedere
oltre le forme culturali del
proprio tempo" e la comprensione che le soluzioni non sono mai definitive, ma sempre "relative alle
funzioni e
alle situazioni da soddisfare". Si ha dunque, da una parte la difesa di una "apertura critica" al "principio
del
possibile", dall'altra, implicitamente, l'affermazione che nulla è possibile al di fuori di una risposta
adeguata e
funzionale alla realtà. Quali sono allora queste "frontiere del possibile", quale la loro
dimensione nell'importante rapporto tra l'uomo
nella storia e l'uomo e la società così come sono espressi nella teoria pedagogica del
progressismo?
Contro la storia
Suchodolski, un teorico di importazione tra quelli più in voga, afferma che lo spirito di
progresso va inteso
"innanzitutto come impegno personale che va dalla capacità di comprendere che la
produttività deve essere
costantemente migliorata, alla teoria della continua possibilità di miglioramento umano, di
comprendere la
necessità dell'evoluzione"; che "la moderna filosofia del progresso accetta le
fondamentali direttrici evolutive
della civiltà moderna, della quale sottopone a critica la forma attuale"; ed ancora, che
"l'uomo crea il mondo
in cui vive: tale creazione non consiste in un atto unico, ma in un processo storico: ogni passo sul
cammino
dell'ulteriore attività creativa presuppone l'assimilazione da parte dell'uomo delle sue precedenti
conquiste
e la consapevolezza delle tappe già raggiunte" ed infine che "opporsi alla situazione
di fatto non significa
necessariamente opporsi alla storia generale: sì può contrastare una determinata
situazione proprio per
mantenersi in linea con la fondamentale tendenza della storia". Queste ed altre affermazioni
sembrano tutte condurre alla considerazione che il principio guida di questo
progressismo sia in sostanza una negazione: la storia è aperta a diverse possibili soluzioni, ma
sono possibilità reali
solo quelle contemplate dalla necessità dell'evoluzione. L'uomo può trovare infinite
varianti ad un processo
storico ma non metterlo in discussione, non andare contro la storia; è chiaro che una simile tesi
può, per ipotesi,
giustificarsi solo ammettendo che la storia del potere e quella degli sfruttati procedano necessariamente
secondo
le medesime leggi evolutive, leggi che escluderebbero del tutto la possibilità di una
"volontà di rivoluzione" che
si opponga al deterministico mutare della struttura del potere, e realizzi l'utopia. È una tesi
in sostanza che sembra rispolverare l'ideologia borghese dell'ottocento dei "cambiamento nella
continuità" e della comunanza, nella storia, degli interessi dei padroni con quelli degli
sfruttati. Su questa base anche il rapporto tra l'individuo e le norme e le istituzioni sociali e il rapporto
tra "vero" e "falso"
sono di natura particolare. Sempre lo stesso autore afferma che "il progresso è la
dialettica unificazione di fattori oggettivi e soggettivi.
La teoria della personalità mira all'armonizzazione delle necessità individuali con i
processi dell'evoluzione
civile, cioè alla coscienza dell'unità di interessi soggettivi e oggettivi"; ma che cosa
è oggettivamente,
storicamente, valido?: "il marxismo sottolinea la validità delle idee che si fanno strada nelle
masse popolari
e l'erroneità dei concetti individuali avulsi dalla corrente oggettiva della storia": questo
significa, in termini
bizantini, ma "dialettici", che nel sottile rapporto tra funzione e valore (o verità) di una norma
sociale, la norma
valida è solo quella dettata dall'opinione delle masse in quanto collettiva e ad esse funzionale; e
che se l'opinione
individuale è, proprio perché individuale, errata, la verità è garantita solo
dalla collettività: e si tratta un "vero"
del tutto particolare, dal momento che si identifica con "l'opinione". Una teoria della storia
così perniciosa, non può che concludersi con un richiamo al "realismo" ricco di allusioni
nei confronti di tutti i rivoluzionari effettivi o potenziali (il progressismo marxista ha infatti esorcizzato
il pericolo
riformista, in quanto il riformismo è nella sua stessa struttura): è segno di
maturità sociale saper "individuare in
una determinata situazione storica... quanto esprime la corrente di progresso e quanto invece ne
costituisce
la negazione", contro le minacce di una "vana lotta donchisciottesca contro il progresso
storico in marcia",
poiché all'uomo è dato realizzare "solo ciò che è possibile e non
ciò che è desiderabile".
Claudia V.
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