Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 40
giugno 1975


Rivista Anarchica Online

C'è un nuovo padrone: la banca
di Oscar Corenai

Tendenze del sistema bancario italiano.
La statalizzazione delle banche durante il regime fascista. La funzione del credito nel sistema tardo-capitalista. Come il capitale finanziario di Stato condiziona le imprese private. Un centro di potere della burocrazia statale.

Un discorso sulle banche è quanto mai opportuno soprattutto in un periodo in cui si parla insistentemente delle ripercussioni nel nostro paese del crollo finanziario del gruppo bancario e politico che faceva capo a Michele Sindona. È opportuno perché bisogna svecchiare l'analisi critica su questi organismi e perché coloro che manovrano gli strumenti del credito hanno la stessa filosofia tecnoburocratica dei padroni "pubblici" e cioè interessi in conflitto con gli interessi dei rimanenti capitalisti privati. Nelle presenti note inizierò a parlare brevemente delle funzioni tradizionali delle banche e delle funzioni ultime assunte dal sistema bancario italiano (quasi tutte le maggiori banche sono in mano dello Stato) come monopolista dell'intermediazione del credito e finanziatore delle imprese industriali.
La banca agisce da passamano tra il risparmiatore (depositario di fondi) che versa nelle casse dell'istituto bancario il denaro in suo possesso e il padrone (commerciante o industriale) che lo prende a prestito; passando però il denaro dal risparmiatore all'imprenditore, la banca realizza il suo profitto nella differenza tra i tassi pagati e quelli incassati e cerca ovviamente di allargare al massimo le forbici e cioè pagare il minimo ai depositanti - i quali cercano invece di ottenere l'interesse più alto possibile - e percepire il massimo dai debitori - i quali a loro volta cercano di pagare il minimo, di pagare cioè bassi interessi.

La tecnoburocrazia fascista

Dopo la grande crisi del 1929 - che si protrasse per molti anni in moltissimi paesi e in Italia fino al 1936, anno della promulgazione della legge bancaria - in tutti i paesi, ed anche in Italia, si cercò di impostare un nuovo ordinamento bancario sulle rovine del sistema economico scosso da una crisi senza precedenti; i tecno-burocrati fascisti decisero che doveva esservi una rigida separazione tra banche commerciali (che rastrellano e prestano denaro solo a breve termine) e istituti di credito speciale, che raccolgono e prestano denaro a medio termine. I tecno-burocrati del regime fascista decisero cioè che i prestiti delle banche commerciali dovevano finanziare il capitale d'esercizio, mentre invece quelli degli istituti speciali gli investimenti in impianti. Il capitale di rischio doveva invece essere estratto dagli imprenditori dalla stessa gestione industriale delle imprese. L'impostazione appena riportata era necessaria per impedire che una nuova e terribile crisi produttiva trascinasse di nuovo il sistema bancario nella crisi economica; infatti prima del 1931-1932 (anno della grande crisi che travolse le attuali tre banche di interesse nazionale) le banche erano miste, prestavano cioè denaro a breve e medio termine alle imprese che controllavano come azionisti, spesso di maggioranza, e questo controllo era per le banche una forma di garanzia. La crisi economica oltre alle imprese travolse anche le stesse banche; dopo la tragedia intervenne lo Stato (e questo intervento segna la morte del liberalismo che predicava il non intervento dello Stato in campo economico) che dovette salvarle creando appositamente l'IMI, istituto mobiliare italiano, e l'IRI, istituto ricostruzione industriale, ai quali furono cedute le partecipazioni fallimentari delle banche impedendone il tracollo. L'impostazione in campo bancario del governo fascista attuata con la legge bancaria del 1936 si è trascinata fino agli anni cinquanta senza scosse eccezionali perché l'autofinanziamento delle imprese facilitava un rigiro abbastanza rapido dei prestiti a breve e medio termine; a sua volta l'autofinanziamento era imperniato sui bassi salari che percepivano i lavoratori italiani rispetta ai lavoratori degli altri paesi europei. All'inizio degli anni '60 i lavoratori scatenarono una dura lotta contro la politica di bassi salari e misero quindi in crisi tutto il sistema economico e di conseguenza anche quello bancario, che fu costretto a rinnovare sempre di più i crediti a breve termine. È del resto quanto afferma l'ex-governatore della Banca d'Italia Guido Carli nella relazione agli azionisti del 31 maggio scorso: "Dall'inizio degli anni '60 a oggi la struttura finanziaria delle imprese italiane ha subito profondi mutamenti. I capitali di rischio delle società con prevalente partecipazione statale sono scesi dal 44 al 19% rispetto al totale dei fondi che hanno concorso al loro finanziamento; i debiti complessivi sono saliti dal 51 al 73%; quelli verso istituzioni creditizie sono cresciuti dal 37 al 62%. Nelle società private i capitali di rischio sono scesi dal 56 al 33%, mentre i debiti complessivi sono saliti dal 37 al 52%". Dalla lunga citazione riportata si ricava la considerazione che l'accumulazione del capitale è quindi consentita - per le imprese private, per quelle statali e per quelle private controllate dallo Stato - dalle istituzioni politiche e non dal mercato e questo fatto rafforza i tecnoburocrati dello Stato che possono controllare non solo le imprese statali e parastatali, ma anche le residue private instaurando così senza colpo ferire piano piano il capitalismo di Stato; in questa enorme giungla finanziaria le banche invece di aumentare gli investimenti sostituiscono il capitale di rischio. La situazione abnorme che ho sopra descritto riuscì a reggere perché il pubblico, nel corso degli anni '60, acquistava ancora titoli obbligazionari.
La situazione mutò invece alla fine degli anni '60 a causa dell'elevato tasso di inflazione (dal febbraio del 1973 la lira ha perso più del 30% del suo valore; si è verificato cioè una vera svalutazione di fatto, mentre quella legale - che modifica ufficialmente rapporto di cambio con le altre monete - non sì è verificata) che ha impedito di proseguire questa politica.

Un fatto transitorio?

Mentre negli anni '60 le imprese ottenevano la maggior parte dei fondi a medio e a lungo termine di cui avevano bisogno ricorrendo allo strumento obbligazionario direttamente o indirettamente attraverso le banche (per quest'ultimo caso non ricorrendo cioè direttamente alla sottoscrizione delle obbligazioni da parte del pubblico) di credito ordinario o attraverso gli istituti specializzati che poi provvedevano a collocare i titoli obbligazionari presso il pubblico, oggi la situazione è molto più complessa. Innanzitutto - a causa dell'inflazione - le imprese ottengono la maggior parte dei fondi a medio e a lungo termine solo attraverso l'intermediazione delle banche che sottoscrivono i prestiti obbligazionari per poi farli sottoscrivere alle famiglie - le banche vorrebbero ancora cioè far da tramite fra "l'operatore famiglie" e "l'operatore imprese", trasformando il risparmio dei singoli in crediti verso le imprese; le famiglie però non hanno sottoscritto le obbligazioni per via dell'elevato tasso di inflazione che spinge la preferenza dei risparmiatori verso la liquidità o verso il deposito bancario (se l'interesse è elevato) e non più a comprare titoli. I titoli obbligazionari sono restati nel "portafoglio titoli" delle banche che ultimamente si è gonfiato fino a raggiungere la cifra enorme di 35 miliardi. Sì può ancora affermare che questo indebitamento è dovuto solamente ad un fatto transitorio? Personalmente credo di no; il processo di espansione dei debiti non è dovuto solo all'aumento vertiginoso del tasso di inflazione - quando la moneta perde una parte del suo valore, nel breve periodo gli imprenditori hanno interesse ad indebitarsi perché stipulando debiti ricevono moneta "buona" e rimborseranno poi, alla scadenza del debito, moneta "cattiva", moneta cioè svalutata -, ma è la nuova tendenza del capitalismo italiano imposta ancora confusamente dai tecnoburocrati: le banche cioè si sono tramutate in investitori istituzionali (facendo saltare così la rigida separazione tra istituti speciali e banche commerciali, istituti per il credito a breve termine), amministratori di titoli obbligazionari non collocati presso il pubblico; solo nel 1974 a fronte di 13.000 miliardi di nuovi depositi, gli istituti di credito hanno dovuto comprare 9.000 miliardi di titoli. Li hanno dovuti comprare perché altrimenti le imprese sarebbero rapidamente fallite: infatti si ha e si aveva una domanda calante, più bassa dell'offerta. Per arginare questa situazione la Banca d'Italia e il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio stabilirono da una parte di obbligare le banche ad investire in titoli a reddito fisso il 40% dell'incremento dei propri depositi e dall'altra la riduzione dei tassi passivi e di conseguenza anche quelli attivi praticati dagli istituti di credito agli imprenditori. Gli scopi di questi due provvedimenti sarebbero quelli di:1) rendere meno caro il costo del denaro e favorire quindi la ripresa produttiva; 2) rendere conveniente e quindi stimolare una domanda di titoli a lungo termine da parte dei privati, sperando che la riduzione dei tassi passivi e attivi possa restituire alle banche il ruolo di banche commerciali. Ovviamente questi provvedimenti (la riduzione dei tassi e riserva obbligatoria) non avranno gli effetti previsti dai burocrati della banca di Stato perché l'economia è ancora in crisi: la domanda infatti è inferiore all'offerta e fin quando questo processo continuerà le banche non potranno non rinnovare i crediti a breve termine alle imprese, pena il loro repentino fallimento. L'unica seria garanzia per gli impieghi delle banche sarebbe data in parte dall'avvio di un processo riformatore (case, scuole, sanità, servizi pubblici, ecc. ecc.) capace di azionare una ripresa non drogata, ma reale.

Clientele e scandali

Vi è infatti un legame strettissimo esistente tra gli organi di gestione del capitale finanziario e i gruppi dirigenti della democrazia cristiana, i quali sono riusciti - aiutati dagli altri dirigenti dei partiti di centro-sinistra e con il beneplacito del PCI - a portare il nostro paese verso il collasso economico e hanno usato e usano tuttora, malgrado gli scandali, i poteri cosiddetti pubblici a favore proprio e del loro partito, per chiari fini di sopraffazione, sottogoverno e clientelismo. Il legame o i legami tra le banche e gruppi di potere D.C. e degli altri partiti di governo (non dimentichiamoci che le nomine alle cariche dirigenziali, e spesso anche le assunzioni degli impiegati che vengono reclutati tra la fauna del sottogoverno, degli istituti di credito sono attualmente lasciate alla contrattazione clientelare, al sottobosco governativo) sono stati pubblicizzati dai riformisti e dai giornalisti di sinistra ma quello che distingue la loro dalla nostra critica è il fatto che i riformisti e i radicali (p.es. Eugenio Scalfari, consigliere delegato dell'"Espresso") criticano questo sistema dall'interno, denunciano gli "scandali" di un sistema che, altrimenti, sarebbe considerato valido (si limitano ad es. a chiedere la testa di qualche imbroglione troppo grosso, minacciano maggior ostruzionismo, denunciano gli errori più grossolani, ecc. ecc.). Sempre più il capitalismo privato e quello di Stato si stanno dimostrando uno strumento dannoso, che criminalmente distrugge e spreca risorse per creare e diffondere uno pseudo benessere tra una popolazione sempre più manovrata psicologicamente.

La teologia dell'efficienza

Molti degli attuali critici di Sindona (proprio perché si limitano solitamente a criticare solo gli scandali più appariscenti) non criticavano questo personaggio - accolto negli atenei americani dove interviene nei corsi di alta finanza - quando tutto filava liscio, quando questi distribuiva profitti ai gruppi di potere D.C., ai fascisti, e ad altri gruppi di potere; forse allora questi critici erano davanti a speculazioni riuscite e non a crack finanziari e di conseguenza non avevano niente da dire.
Tra mille scandali e crack più o meno evidenti i tecnoburocrati stanno portando avanti la loro politica che è praticamente una nuova filosofia produttivistica, una sorta di nuova teologia dell'efficienza consumistica e produttiva in un clima di forzata pace sociale - complici i riformisti - che intende piegare la combattività dei lavoratori alla logica dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, alla logica di una più sofisticata e "accettabile" razionalizzazione nella vendita della propria forza-lavoro e nell'uso sempre più controllato di tale forza. I tecno-burocrati vogliono trasformare sempre più completamente il nostro paese in un paese a forte capitalismo di Stato dove sono sconvolti i vecchi capisaldi ideologici del capitalismo privato (disgregazione della vecchia classe capitalistica, con la separazione della proprietà della gestione e cumulazione del potere politico con quello economico): gli imprenditori (soprattutto quelli "pubblici" posti alla direzione delle imprese a prevalente partecipazione statale o alla direzione delle imprese pubbliche, ma anche quelli privati e tra questi soprattutto i più grandi) non perseguono solo più la massimizzazione del saggio di profitto, ma altri obiettivi, come quello dei profitti stabili, potere monopolistico ed altri; per capire bene questa ultima considerazione può bastare solo dire che l'accumulazione del capitale si fa col denaro dei risparmiatori prestato dalle banche alle industrie e non si fa, se non marginalmente, con i profitti ricavati dalla gestione. In una tale situazione non ha più molta importanza se un imprenditore realizza o non realizza profitti, mentre acquista grande importanza il clientelismo politico, la facilità di accesso al credito consentito solo a quegli imprenditori che si inquadrano in una programmazione rigida e nella logica dei tecno-burocrati. Per il fatto che quest'ultimi controllano il credito a breve, a medio e a lungo termine possono disporre della sorte (infatti le imprese senza il rinnovo dei crediti non potrebbero sopravvivere e fallirebbero velocemente) dei capitalisti e hanno quindi infiniti modi di distribuire privilegi e castighi.
Concludendo è opportuno sottolineare l'ultima proposta del governatore della banca di Stato secondo il quale occorrerebbe - per risanare la situazione finanziaria delle banche - convertire una parte dei crediti degli istituti finanziatori in azioni delle società debitrici; le banche diventerebbero cioè proprietarie delle industrie italiane, comprese quelle private e siccome le banche sono quasi in gran parte di proprietà dello Stato quasi tutto il sistema industriale passerebbe sotto il controllo statale. È quello che hanno sempre voluto i tecno-burocrati, galoppiamo sempre più verso un capitalismo di Stato.

Oscar Corenai