Rivista Anarchica Online
C'è un nuovo padrone: la banca
di Oscar Corenai
Tendenze del sistema bancario italiano. La statalizzazione delle banche durante il regime fascista.
La funzione del credito nel sistema tardo-capitalista.
Come il capitale finanziario di Stato condiziona le imprese private. Un centro di potere della burocrazia
statale.
Un discorso sulle banche è quanto mai opportuno soprattutto in
un periodo in cui si parla insistentemente delle
ripercussioni nel nostro paese del crollo finanziario del gruppo bancario e politico che faceva capo a
Michele
Sindona. È opportuno perché bisogna svecchiare l'analisi critica su questi organismi e
perché coloro che
manovrano gli strumenti del credito hanno la stessa filosofia tecnoburocratica dei padroni "pubblici" e
cioè
interessi in conflitto con gli interessi dei rimanenti capitalisti privati. Nelle presenti note inizierò
a parlare
brevemente delle funzioni tradizionali delle banche e delle funzioni ultime assunte dal sistema bancario
italiano
(quasi tutte le maggiori banche sono in mano dello Stato) come monopolista dell'intermediazione del
credito e
finanziatore delle imprese industriali. La banca agisce da passamano tra il risparmiatore (depositario
di fondi) che versa nelle casse dell'istituto bancario
il denaro in suo possesso e il padrone (commerciante o industriale) che lo prende a prestito; passando
però il
denaro dal risparmiatore all'imprenditore, la banca realizza il suo profitto nella differenza tra i tassi pagati
e quelli
incassati e cerca ovviamente di allargare al massimo le forbici e cioè pagare il minimo ai
depositanti - i quali
cercano invece di ottenere l'interesse più alto possibile - e percepire il massimo dai debitori - i
quali a loro volta
cercano di pagare il minimo, di pagare cioè bassi interessi.
La tecnoburocrazia fascista
Dopo la grande crisi del 1929 - che si protrasse per molti anni in moltissimi paesi e in Italia fino al
1936, anno
della promulgazione della legge bancaria - in tutti i paesi, ed anche in Italia, si cercò di impostare
un nuovo
ordinamento bancario sulle rovine del sistema economico scosso da una crisi senza precedenti; i
tecno-burocrati
fascisti decisero che doveva esservi una rigida separazione tra banche commerciali (che rastrellano e
prestano
denaro solo a breve termine) e istituti di credito speciale, che raccolgono e prestano denaro a medio
termine. I
tecno-burocrati del regime fascista decisero cioè che i prestiti delle banche commerciali dovevano
finanziare il
capitale d'esercizio, mentre invece quelli degli istituti speciali gli investimenti in impianti. Il capitale di
rischio
doveva invece essere estratto dagli imprenditori dalla stessa gestione industriale delle imprese.
L'impostazione
appena riportata era necessaria per impedire che una nuova e terribile crisi produttiva trascinasse di
nuovo il
sistema bancario nella crisi economica; infatti prima del 1931-1932 (anno della grande crisi che travolse
le attuali
tre banche di interesse nazionale) le banche erano miste, prestavano cioè denaro a breve e medio
termine alle
imprese che controllavano come azionisti, spesso di maggioranza, e questo controllo era per le banche
una forma
di garanzia. La crisi economica oltre alle imprese travolse anche le stesse banche; dopo la tragedia
intervenne lo
Stato (e questo intervento segna la morte del liberalismo che predicava il non intervento dello Stato in
campo
economico) che dovette salvarle creando appositamente l'IMI, istituto mobiliare italiano, e l'IRI, istituto
ricostruzione industriale, ai quali furono cedute le partecipazioni fallimentari delle banche impedendone
il
tracollo. L'impostazione in campo bancario del governo fascista attuata con la legge bancaria del 1936
si è
trascinata fino agli anni cinquanta senza scosse eccezionali perché l'autofinanziamento delle
imprese facilitava
un rigiro abbastanza rapido dei prestiti a breve e medio termine; a sua volta l'autofinanziamento era
imperniato
sui bassi salari che percepivano i lavoratori italiani rispetta ai lavoratori degli altri paesi europei. All'inizio
degli
anni '60 i lavoratori scatenarono una dura lotta contro la politica di bassi salari e misero quindi in crisi
tutto il
sistema economico e di conseguenza anche quello bancario, che fu costretto a rinnovare sempre di
più i crediti
a breve termine. È del resto quanto afferma l'ex-governatore della Banca d'Italia Guido Carli
nella relazione agli
azionisti del 31 maggio scorso: "Dall'inizio degli anni '60 a oggi la struttura finanziaria delle imprese
italiane ha
subito profondi mutamenti. I capitali di rischio delle società con prevalente partecipazione statale
sono scesi dal
44 al 19% rispetto al totale dei fondi che hanno concorso al loro finanziamento; i debiti complessivi sono
saliti
dal 51 al 73%; quelli verso istituzioni creditizie sono cresciuti dal 37 al 62%. Nelle società private
i capitali di
rischio sono scesi dal 56 al 33%, mentre i debiti complessivi sono saliti dal 37 al 52%". Dalla lunga
citazione
riportata si ricava la considerazione che l'accumulazione del capitale è quindi consentita - per le
imprese private,
per quelle statali e per quelle private controllate dallo Stato - dalle istituzioni politiche e non dal mercato
e
questo fatto rafforza i tecnoburocrati dello Stato che possono controllare non solo le imprese statali e
parastatali,
ma anche le residue private instaurando così senza colpo ferire piano piano il capitalismo di
Stato; in questa
enorme giungla finanziaria le banche invece di aumentare gli investimenti sostituiscono il capitale di
rischio. La
situazione abnorme che ho sopra descritto riuscì a reggere perché il pubblico, nel corso
degli anni '60, acquistava
ancora titoli obbligazionari. La situazione mutò invece alla fine degli anni '60 a causa
dell'elevato tasso di inflazione (dal febbraio del 1973
la lira ha perso più del 30% del suo valore; si è verificato cioè una vera
svalutazione di fatto, mentre quella legale
- che modifica ufficialmente rapporto di cambio con le altre monete - non sì è verificata)
che ha impedito di
proseguire questa politica.
Un fatto transitorio?
Mentre negli anni '60 le imprese ottenevano la maggior parte dei fondi a medio e a lungo termine
di cui avevano
bisogno ricorrendo allo strumento obbligazionario direttamente o indirettamente attraverso le banche (per
quest'ultimo caso non ricorrendo cioè direttamente alla sottoscrizione delle obbligazioni da parte
del pubblico)
di credito ordinario o attraverso gli istituti specializzati che poi provvedevano a collocare i titoli
obbligazionari
presso il pubblico, oggi la situazione è molto più complessa. Innanzitutto - a causa
dell'inflazione - le imprese
ottengono la maggior parte dei fondi a medio e a lungo termine solo attraverso l'intermediazione delle
banche che
sottoscrivono i prestiti obbligazionari per poi farli sottoscrivere alle famiglie - le banche vorrebbero
ancora cioè
far da tramite fra "l'operatore famiglie" e "l'operatore imprese", trasformando il risparmio dei singoli in
crediti
verso le imprese; le famiglie però non hanno sottoscritto le obbligazioni per via dell'elevato tasso
di inflazione
che spinge la preferenza dei risparmiatori verso la liquidità o verso il deposito bancario (se
l'interesse è elevato)
e non più a comprare titoli. I titoli obbligazionari sono restati nel "portafoglio titoli" delle banche
che ultimamente
si è gonfiato fino a raggiungere la cifra enorme di 35 miliardi. Sì può ancora
affermare che questo indebitamento
è dovuto solamente ad un fatto transitorio? Personalmente credo di no; il processo di espansione
dei debiti non
è dovuto solo all'aumento vertiginoso del tasso di inflazione - quando la moneta perde una parte
del suo valore,
nel breve periodo gli imprenditori hanno interesse ad indebitarsi perché stipulando debiti ricevono
moneta
"buona" e rimborseranno poi, alla scadenza del debito, moneta "cattiva", moneta cioè svalutata
-, ma è la nuova
tendenza del capitalismo italiano imposta ancora confusamente dai tecnoburocrati: le banche cioè
si sono
tramutate in investitori istituzionali (facendo saltare così la rigida separazione tra istituti speciali
e banche
commerciali, istituti per il credito a breve termine), amministratori di titoli obbligazionari non collocati
presso
il pubblico; solo nel 1974 a fronte di 13.000 miliardi di nuovi depositi, gli istituti di credito hanno dovuto
comprare 9.000 miliardi di titoli. Li hanno dovuti comprare perché altrimenti le imprese
sarebbero rapidamente
fallite: infatti si ha e si aveva una domanda calante, più bassa dell'offerta. Per arginare questa
situazione la Banca
d'Italia e il Comitato interministeriale per il credito e il risparmio stabilirono da una parte di obbligare le
banche
ad investire in titoli a reddito fisso il 40% dell'incremento dei propri depositi e dall'altra la riduzione dei
tassi
passivi e di conseguenza anche quelli attivi praticati dagli istituti di credito agli imprenditori. Gli scopi di
questi
due provvedimenti sarebbero quelli di:1) rendere meno caro il costo del denaro e favorire quindi la
ripresa
produttiva; 2) rendere conveniente e quindi stimolare una domanda di titoli a lungo termine da parte dei
privati,
sperando che la riduzione dei tassi passivi e attivi possa restituire alle banche il ruolo di banche
commerciali.
Ovviamente questi provvedimenti (la riduzione dei tassi e riserva obbligatoria) non avranno gli effetti
previsti dai
burocrati della banca di Stato perché l'economia è ancora in crisi: la domanda infatti
è inferiore all'offerta e fin
quando questo processo continuerà le banche non potranno non rinnovare i crediti a breve
termine alle imprese,
pena il loro repentino fallimento. L'unica seria garanzia per gli impieghi delle banche sarebbe data in
parte
dall'avvio di un processo riformatore (case, scuole, sanità, servizi pubblici, ecc. ecc.) capace di
azionare una
ripresa non drogata, ma reale.
Clientele e scandali
Vi è infatti un legame strettissimo esistente tra gli organi di gestione del capitale finanziario
e i gruppi dirigenti
della democrazia cristiana, i quali sono riusciti - aiutati dagli altri dirigenti dei partiti di centro-sinistra e
con il
beneplacito del PCI - a portare il nostro paese verso il collasso economico e hanno usato e usano tuttora,
malgrado gli scandali, i poteri cosiddetti pubblici a favore proprio e del loro partito, per chiari fini di
sopraffazione, sottogoverno e clientelismo. Il legame o i legami tra le banche e gruppi di potere D.C. e
degli altri
partiti di governo (non dimentichiamoci che le nomine alle cariche dirigenziali, e spesso anche le
assunzioni degli
impiegati che vengono reclutati tra la fauna del sottogoverno, degli istituti di credito sono attualmente
lasciate
alla contrattazione clientelare, al sottobosco governativo) sono stati pubblicizzati dai riformisti e dai
giornalisti
di sinistra ma quello che distingue la loro dalla nostra critica è il fatto che i riformisti e i radicali
(p.es. Eugenio
Scalfari, consigliere delegato dell'"Espresso") criticano questo sistema dall'interno, denunciano gli
"scandali" di
un sistema che, altrimenti, sarebbe considerato valido (si limitano ad es. a chiedere la testa di qualche
imbroglione
troppo grosso, minacciano maggior ostruzionismo, denunciano gli errori più grossolani, ecc.
ecc.). Sempre più
il capitalismo privato e quello di Stato si stanno dimostrando uno strumento dannoso, che criminalmente
distrugge
e spreca risorse per creare e diffondere uno pseudo benessere tra una popolazione sempre più
manovrata
psicologicamente.
La teologia dell'efficienza
Molti degli attuali critici di Sindona (proprio perché si limitano solitamente a criticare solo
gli scandali più
appariscenti) non criticavano questo personaggio - accolto negli atenei americani dove interviene nei corsi
di alta
finanza - quando tutto filava liscio, quando questi distribuiva profitti ai gruppi di potere D.C., ai fascisti,
e ad altri
gruppi di potere; forse allora questi critici erano davanti a speculazioni riuscite e non a crack finanziari
e di
conseguenza non avevano niente da dire. Tra mille scandali e crack più o meno evidenti i
tecnoburocrati stanno portando avanti la loro politica che è
praticamente una nuova filosofia produttivistica, una sorta di nuova teologia dell'efficienza consumistica
e
produttiva in un clima di forzata pace sociale - complici i riformisti - che intende piegare la
combattività dei
lavoratori alla logica dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, alla logica di una più sofisticata e
"accettabile"
razionalizzazione nella vendita della propria forza-lavoro e nell'uso sempre più controllato di tale
forza. I tecno-burocrati vogliono trasformare sempre più completamente il nostro paese in un
paese a forte capitalismo di Stato
dove sono sconvolti i vecchi capisaldi ideologici del capitalismo privato (disgregazione della vecchia
classe
capitalistica, con la separazione della proprietà della gestione e cumulazione del potere politico
con quello
economico): gli imprenditori (soprattutto quelli "pubblici" posti alla direzione delle imprese a prevalente
partecipazione statale o alla direzione delle imprese pubbliche, ma anche quelli privati e tra questi
soprattutto
i più grandi) non perseguono solo più la massimizzazione del saggio di profitto, ma altri
obiettivi, come quello
dei profitti stabili, potere monopolistico ed altri; per capire bene questa ultima considerazione può
bastare solo
dire che l'accumulazione del capitale si fa col denaro dei risparmiatori prestato dalle banche alle industrie
e non
si fa, se non marginalmente, con i profitti ricavati dalla gestione. In una tale situazione non ha più
molta
importanza se un imprenditore realizza o non realizza profitti, mentre acquista grande importanza il
clientelismo
politico, la facilità di accesso al credito consentito solo a quegli imprenditori che si inquadrano
in una
programmazione rigida e nella logica dei tecno-burocrati. Per il fatto che quest'ultimi controllano il
credito a
breve, a medio e a lungo termine possono disporre della sorte (infatti le imprese senza il rinnovo dei
crediti non
potrebbero sopravvivere e fallirebbero velocemente) dei capitalisti e hanno quindi infiniti modi di
distribuire
privilegi e castighi. Concludendo è opportuno sottolineare l'ultima proposta del governatore
della banca di Stato secondo il quale
occorrerebbe - per risanare la situazione finanziaria delle banche - convertire una parte dei crediti degli
istituti
finanziatori in azioni delle società debitrici; le banche diventerebbero cioè proprietarie
delle industrie italiane,
comprese quelle private e siccome le banche sono quasi in gran parte di proprietà dello Stato
quasi tutto il sistema
industriale passerebbe sotto il controllo statale. È quello che hanno sempre voluto i
tecno-burocrati, galoppiamo
sempre più verso un capitalismo di Stato.
Oscar Corenai
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