Rivista Anarchica Online
Cultura di Stato e oppressione linguistica
di R. Brosio
Aspetti positivi e negativi nella recente "riscoperta" delle minoranze linguistiche in Italia - La tesi
riformista
sostenuta da Salvi nel volume "Le lingue tagliate" - Solo il federalismo anarchico potrà garantire
lo sviluppo delle
culture e delle lingue oppresse.
Da quando, circa un anno fa, abbiamo trattato l'argomento "minoranze
etniche" (c f r. A 27, La diversità
riscoperta), il problema è andato indubbiamente acquistando credito e risonanza. Oggi
se ne occupano non solo
ristretti drappelli di "addetti ai lavori", o i diretti interessati (cioè gli appartenenti alle minoranze
stesse), ma anche
rappresentanti più o meno autorevoli della cultura e della politica, giornalisti, sociologi, scrittori,
intellettuali.
Si è formato insomma un vero e proprio movimento d'opinione, con qualche caratteristica tipica
delle mode, che
fiancheggia le rivendicazioni neo-nazionaliste, pur senza parteciparvi direttamente, e ne apprezza i
contenuti e
le motivazioni. Il fenomeno presenta aspetti indubbiamente positivi. Soprattutto ha avuto il merito
di rendere di pubblico dominio
alcune situazioni drammatiche (per esempio, quella italiana, dove una miriade di nazionalità -
e comunità -
minoritarie, fino a ieri dimenticate, rischia di scomparire senza lasciare traccia) ed ha senz'altro
contribuito al
risveglio di qualche coscienza etnica addormentata. Ciò nonostante, questo aumentato interesse
per i neo-nazionalismi è ben lontano dall'entusiasmarci. Avremmo preferito vedere crescere le
rivendicazioni delle
minoranze oppresse, piuttosto che l'attenzione degli estranei per esse. È vero che, spesso, le due
cose vanno di
pari passo. Ma è anche vero che, ultimamente una piccola folla di linguisti e di etnologi
perlopiù improvvisati si
è messa all'opera con animo da collezionisti imbalsamatori, alla ricerca di lessici antichi e
tradizioni moribonde.
Il che sarà anche di gran vantaggio per la cultura, ma non ha nulla a che vedere con il risvegliarsi
autonomo di
un'etnia straniata, la quale acquista consapevolezza di sé e lotta per il "diritto alla
diversità". Certe operazioni di
resurrezione linguistica, in definitiva, puzzano parecchio di artificioso, di costruito. Già nel
precedente articolo, si metteva in luce come le motivazioni, cioè gli scopi dichiarati, che
muovono le
popolazioni minoritarie nei conflitti contro quelle maggioritarie, siano molteplici e non tutte ugualmente
valide:
alla lotta per la lingua si affianca spesso quella per la religione (Irlanda), alla denuncia del sottosviluppo
fa
riscontro a volte il desiderio di cogestione del potere (Reggio Calabria) o di godimento esclusivo dei suoi
privilegi
(Croazia). Nonostante ciò si notava come questi non siano altro che dei vestiti occasionali di cui
si coprono, di
volta in volta, le varie rivendicazioni: la causa originaria è unica, è da ricercarsi nella
resistenza che, da sempre,
gli uomini oppongono a chi li vuole plasmare, comandare, condizionare, senza rispetto per la loro
volontà.
All'origine di ogni conflitto etnico c'è sempre un'oppressione che non coincide necessariamente
con lo
sfruttamento, ma coincide sempre con l'obbligo a sottostare ad un'imposizione, a rientrare in un ordine
stabilito
altrove, a farsi diversi da quanto si è. Alle resistenze naturali, spontanee, contro tutto
ciò, gli anarchici si interessano, non alle giustificazioni
sovrastrutturali di cui si rivestono. A questo proposito, ricordiamo ancora una volta il caso della
Catalogna che
è veramente esemplare. Il forte orgoglio nazionalistico dei suoi abitanti non nasceva (e non nasce)
né dal
sottosviluppo né dallo sfruttamento in senso proprio: la Catalogna è sempre stata uno dei
territori più ricchi della
Spagna e, fin dagli inizi del '900, uno dei più industrializzati. Ciò nonostante, questa sua
efficienza produttiva era
posta "al servizio" del potere centrale di Madrid, sottoposta al suo controllo. Il tentativo sistematico di
distruggere
ogni connotazione etnica autonoma, da parte di tale potere centrale, non era quindi altro che il tentativo
di sancire
anche culturalmente questa dipendenza, in modo tanto più violento quanto più vivaci
erano invece le capacità
economiche di autonomia dei catalani. Questo accadde sia nell'epoca della monarchia spagnola, prima
e durante
la dittatura di Primo de Rivera, sia, dopo una tormentata parentesi repubblicana, all'indomani della
vittoria
franchista. Se secondo le autorità centrali di Madrid - i catalani dovevano farsi castigliani, e
cioè perdere la
coscienza di sé, era perché in tal modo sarebbe apparsa meno stridente la dipendenza da
un potere non solo
etnicamente, ma soprattutto economicamente estraneo. Di qui, per contro, l'avversità dei catalani
contro i
governanti di Madrid e la forte colorazione separatista della rivendicazione etnica. Orbene, gli anarchici
spagnoli
non "sollecitarono" mai questo separatismo, ne lasciarono intendere una loro convergenza, anche
temporanea,
sugli scopi politici che lo muovevano. Quando, dopo il 19 luglio 1936, la Catalogna raggiunse almeno
in parte
questi scopi, non differenziarono il loro atteggiamento verso la Generalitat (il governo
regionale catalano) da
quello che avevano per il potere centrale repubblicano, non dimostrarono certo per il governo di
Barcellona
minore "antipatia" ed ostilità che per quello di Madrid. Era il sentimento che stava dietro a
tutto ciò ad interessarli, cioè quell'orgoglio etnico che costituiva il
presupposto non solo del separatismo, ma anche dell'odio popolare contro le ingiustizie e le repressioni
perpetrate
dal potere centrale. E fu l'appello a questo sentimento originario, genuino, e non alle sue manifestazioni
"secondarie", a creare intorno alla C.N.T. catalana quel consenso proletario che si espresse poi nella
rivolta
vittoriosa contro il golpe di Franco. D'altronde il 1936 è passato alla storia come
l'anno della rivoluzione
libertaria spagnola (e catalana, in particolare), e non come quello della conquista (catalana o
basca)
dell'autonomia politica. Proprio nella rivoluzione libertaria l'orgoglio etnico trovava la sua giusta
collocazione
accanto alle altre componenti che la muovevano, le sue capacità di dare frutti genuini e non
bastardi. Il lettore ci perdonerà la lunga digressione, ma crediamo che essa sia stata utile per
mettere in luce la natura
dell'atteggiamento anarchico nei confronti dei movimenti di rivendicazione neo-nazionale. Che non ci
sembra né
di infastidita sufficienza, né di sottovalutazione superficiale. Ma nemmeno ci porta alla perdita
della nostra
connotazione ideologica: anche noi siamo stati (e siamo tuttora) una "minoranza oppressa" (anche se
minoranza
politico-sociale, non etnica) e quindi anche noi ci teniamo gelosamente a mantenere la nostra
"identità". Al
contrario, buona parte dell'interesse attuale per le comunità minoritarie si muove da un equivoco.
Invece di
privilegiare ciò che origina la rivendicazione etnica (e quindi ciò che ne
determina i limiti e le possibilità di
affermazione) sono le manifestazioni esteriori di essa ad essere prese in considerazione, quelli che
già abbiamo
definito i "vestiti" della rivendicazione stessa. Tipico, a questo proposito, il caso della lingua, che ha preso
ormai
le dimensioni di un problema a sé stante e gode di una attenzione di gran lunga superiore a tutte
le altre possibili
motivazioni rivendicative. Ciò accade certamente a causa della frequenza con cui tale problema
si ritrova in quasi
tutti i conflitti etnici, ma anche, forse, della sua "neutralità", della possibilità di essere
avvicinato con gli intenti
più disparati, da quello politico-sociale a quello puramente culturale, o addirittura unicamente
classificativo. L'importanza della lingua, come strumento per la riconquista o il mantenimento della
propria identità etnica, non
è da sottovalutare. Famosa è ormai l'affermazione secondo cui una lingua non è
soltanto un repertorio
convenzionale di segni, ma una vera e propria concezione del mondo. Cioè, l'espressione di un
preciso rapporto
con la realtà, frutto di una determinata situazione sociale ed economica e del complesso di
mentalità,
atteggiamenti psicologici, tradizione culturale di una etnia. Essere costretti ad usare una lingua diversa
dalla
propria significa dunque forzare il proprio cervello a ragionare in un modo che non gli è
congeniale, perdere il
rapporto abituale con le cose e smarrirsi nella ricerca faticosa dei confini di un nuovo rapporto,
inizialmente
sconosciuto. Perdere la propria identità etnica significa dunque perdere anche la propria
identità personale, il
"senso di sé" come membro di una comunità e quindi come individuo, dal momento che
non si può "esistere" da
soli. Ecco dunque svilupparsi la lotta contro le imposizioni linguistiche, tanto più aspra e
puntigliosa quanto più
il processo di straniamento cui le minoranze sono sottoposte è contrastato da una radicata
coscienza della propria
identità. Non ci sogneremo mai di mettere in discussione tutto ciò. Non ci sogneremo
mai di negare comprensione - per
esempio - al desiderio dei baschi, o dei sardi, o dei friulani, di parlare nel proprio idioma materno e di
sentire
questo comune desiderio come una specie di "cemento" che li unisce in una lotta comunitaria per la
propria etnia.
Ma per salvare una lingua non basta salvare un'etnia, se insieme ad essa non viene salvato anche quel
complesso
di situazioni ambientali, quel "rapporto con le cose" che dell'etnia è la vera matrice. Di
ciò la lingua è solo la
testimonianza, l'espressione, come si diceva, non la causa. Parallelamente, l'oppressione linguistica,
l'imposizione
di un idioma estraneo alle tradizioni dell'ethnos e il conseguente straniamento non sono che
il risultato di altre
imposizioni più concrete, che vengono a modificare proprio quel rapporto, strappando gli uomini
al loro ambiente
naturale o alterandone profondamente gli equilibri tradizionali. Se non riesce ad incidere in questa
realtà, ogni
lotta con intendimenti esclusivamente linguistici è destinata al fallimento. Si tratta
del tipico equivoco di chi
scambia i sintomi per la malattia. Proprio di un tale equivoco è rimasto vittima, a nostro giudizio,
Sergio Salvi,
autore del volume "Le lingue tagliate - storia delle minoranze linguistiche in
Italia" (Rizzoli, 1975) che sta
riscuotendo un discreto successo editoriale. In effetti il libro è interessante ed offre un panorama
completo e
dettagliato delle minoranze linguistiche in Italia, corredato dall'elenco di tutti i comuni alloglotti. Nel suo
insieme,
"Le lingue tagliate" è denso di notevole sapienza glottologica, almeno per quanto
è dato capire a dei "profani"
come noi, e sotto questo profilo - dunque - nulla da obiettare. Ma la trattazione parte dall'ingenua
considerazione che se molte comunità alloglotte appaiono condannate all'estinzione ciò
è dovuto principalmente
alla mancata applicazione di alcuni articoli della Carta Costituzionale: il che ci sembra decisamente
insostenibile,
spiegazione reticente e superficiale delle origini di un fenomeno tanto rilevante da meritarsi a pieno diritto
la
denominazione di "genocidio bianco". Passando dal generale al particolare, bisogna riconoscere che la
vera natura
del fenomeno è spesso messa in luce in una maniera che ci trova assai più consenzienti.
L'autore parla
dell'emigrazione che ha sradicato dal loro territorio intere popolazioni come i greci di Calabria o gli
albanesi di
Sicilia o in mocheni della Val Fersina. "Dopo sessant'anni di scuola italiana - scrive Salvi
-, dopo vent'anni
di televisione italiana, la gente ha in parte smarrito il lessico, così vasto e così variegato,
una volta a propria
disposizione. Comincia a rassegnarsi all'uso stentato di un italiano fatto di cento parole (...). Prendiamo
la
fascia alpina: gli indigeni sono pompati dalle fabbriche della pianura limitrofa oppure dall'Europa ricca:
i loro villaggi semivuoti sono spesso appetiti, corteggiati, "cementizzati" dall'industria turistica. Ne
partono
gli occitani, il franco-provenzali, i tedeschi, i ladini, gli sloveni, per andare ad "italianizzarsi" in pianura
e vi arrivano i turisti ad "italianizzare" i superstiti (...)". Altrove, il riconoscimento delle cause del
genocidio
in atto allarga i suoi orizzonti, ed è allora la "cultura di massa", prodotta dall'espansione
economica e dallo
sfruttamento, ad essere additata come responsabile dell'imbavagliamento delle popolazioni minoritarie,
nel quadro
di una disumanizzazione generale dei rapporti umani. Eppure, quando si arriva al "che fare?" tutto
ciò viene dimenticato. Salvi ritorna a chiudersi nella dimensione
esclusivamente linguistica del problema, auspicando leggi e provvedimenti a tutela delle varie alloglossie.
Leggi
e provvedimenti che dovrebbero essere varati ed applicati da quello stesso sistema autoritario che finora
non ha
voluto neanche applicare i (suoi) dettami costituzionali, quello stesso sistema autoritario che ha preparato
il
substrato economico-sociale di questo straniamento, che uccide quotidianamente le culture minoritarie
perché
tende ogni giorno a spegnere la scintilla della consapevolezza in ogni uomo, che rifiuta a chiunque il
diritto di
"essere diverso" perché ha bisogno di un gregge uniforme da asservire per continuare ad esistere.
Che senso ha
allora procedere al censimento delle minoranze linguistiche in Italia, programmare l'insegnamento delle
lingue
materne nelle scuole, chiedere aiuti finanziari, se poi i paesi continueranno a spopolarsi, se il cemento
turistico
continuerà a prendere il sopravvento, se il "progresso economico" trasformerà le antiche
comunità fatte a misura
d'uomo in giganteschi dormitori per folle di lavoratori manuali, se le tradizioni, le feste, le abitudini
verranno
soppiantate dal ritmo innaturale dei ritmi di lavoro, dalle evasioni anonime della società
massificata? Salvi stesso riconosce che, anche nei territori dove la tutela linguistica è
effettivamente esercitata (Tirolo
meridionale, per esempio), "(...) la civiltà della Coca-Cola, del campionato di calcio e di
Canzonissima avanza
a rullo compressore e distrugge ogni conato di indipendenza culturale (...)". Senza rimuovere
radicalmente le
cause, non sì può risolvere il problema. Chi userà mai il lessico della tradizione
per nominare oggetti e situazioni
che con la tradizione non hanno nulla a che fare? Ma le cause non possono essere rimosse nell'attuale
ordine
sociale, come mai potrebbe rimuoverle lo Stato, che è il principale responsabile di tutto
ciò? Noi anarchici dal potere statale non ci aspettiamo altro che cinico disinteresse, forse
"coperto" da dichiarazioni
mistificanti. Più probabilmente, la consueta repressione. Solo l'organizzazione federativa della
società può
risolvere adeguatamente il problema. Solo l'organizzazione federativa anarchica, senza Stato e quindi
senza poteri
sopraffattori, potrà garantire a tutti, etnie ed individui, regioni e comunità produttive, quel
diritto ad esprimersi
liberamente, quel diritto ad essere se stessi, senza il quale l'uomo non potrà mai essere né
libero né felice.
R. Brosio
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