Rivista Anarchica Online
Tutti provocatori?
N.A.P., Brigate Rosse, Bertoli
Il primo marzo si è concluso alla Corte d'Assise di Milano il
processo contro Gianfranco Bertoli, autore
dell'attentato davanti alla Questura di Milano il 17 maggio 1973. La condanna all'ergastolo era
scontata. È giunto quindi il momento (come preannunciato sullo scorso numero) di "tirare
le somme", se possibile, su
questo fatto per molti versi oscuro e problematico. Per cercare di capire il problema opereremo una
suddivisione
analitica in tre elementi: il fatto, l'autore e gli eventuali retroscena. Sull'attentato, lo ripetiamo ancora una
volta,
condividiamo in pieno il giudizio di netta condanna espresso dalle tre componenti
organizzate del movimento
anarchico italiano nel comunicato-stampa che abbiamo riprodotto sui numeri 21 e 35 della rivista.
Esso è
eticamente deplorevole - così scrivevamo all'indomani dell'attentato (cfr. A 22) -
per le vittime innocenti che
ha fatto (volontariamente o involontariamente non ha molta importanza: non si scherza con gli ordigni
di
morte) e politicamente inopportuno. Veniamo ora all'autore dell'attentato. Su Gianfranco
Bertoli la stampa borghese e sedicente rivoluzionaria ha
versato fiumi di inchiostro, tutti però intrisi di falsi e di calunnie. Tutte le rivelazioni
su di lui (già ne abbiamo
accennato sullo scorso numero e nello stesso senso di si è espressa Umanità Nova
del 15 marzo) si sono
dimostrate, anche se in sede dibattimentale, pure e semplici invenzioni. Sono rimasti certamente numerosi
punti
oscuri, vuoti logici e temporali, fatti non spiegati razionalmente: tutto questo deve avere giustamente il
suo peso.
Ma sono rimaste anche le dichiarazioni e le affermazioni che il Bertoli ha fatto sia al giudice istruttore
sia al
processo, che non erano quelle di un anarchico "posticcio e improvvisato", come hanno scritto i giornali,
ma
logiche e coerenti. Si tratta di una logica che noi evidentemente non accettiamo, ma non per questo
abbiamo il
diritto di etichettare come fascista chi si muove lungo direttive diverse, ma non opposte alle
nostre. Gli eventuali retroscena, cioè l'esistenza di mandanti, sono il nodo più
problematico da sciogliere. Nella
ricostruzione fatta dal Bertoli ci sono alcune incongruenze, alcuni elementi non chiari e non chiariti. Il
Pubblico
Ministero ha giocato su questi e con una arringa basata su una logica formale ineccepibile
ha voluto dimostrare
l'esistenza di un complotto di marca fascista. Peccato però (per il P.M.) che il suo ragionamento
logico non fosse
suffragato da fatti certi ed obiettivi. A questo punto egual valore hanno le argomentazioni del Bertoli,
altrettanto
convincente è la sua ricostruzione dei fatti (il reperimento della bomba, il passaggio alla dogana,
il viaggio, gli
spostamenti, ecc.). Parole contro parole, indizi contro negazioni, ma fatti certi, inequivocabili, pochi o
nessuno.
In definitiva al processo l'accusa non è riuscita a dimostrare nessun collegamento del Bertoli con
i supposti
mandanti fascisti. Tutti gli interrogativi sono rimasti senza una chiara risposta ed a ciò si
è aggiunto il costante lavoro di
disinformazione svolto dai giornali che hanno dato del processo un'immagine distorta, travisando,
tacendo o
accentuando se questo era conveniente alla tesi precostituita: quella del provocatore fascista. Qui si
apre il discorso che maggiormente ci interessa è che va al di là del caso Bertoli e del suo
personaggio. Da
qualche anno ormai, spentasi l'ondata sessantottesca, rientrate nei ranghi le minoranze extra-sindacali,
assistiamo
a una involuzione "legalitaria" delle organizzazioni sedicenti rivoluzionarie, preoccupate più di
non perdere la
propria massa (si fa per dire) di manovra che non di stimolare e di portare avanti lotte con contenuti
realmente
rivoluzionari. In questa prospettiva (perdente sul piano rivoluzionario) si spiegano gli attacchi contro tutti
quei
gruppi o individui che escono dalla logica di queste organizzazioni. Non solo Bertoli è un
provocatore, ma
provocatorie sono anche le Brigate Rosse, la Baader-Meinhof, i N.A.P., tutti provocatori, anche quando
i fatti
dimostrano che questi non sono provocatori e che si tratta di individui o gruppi che hanno intrapreso un
certo
tipo di lotta al potere non ravvisando più validità nei metodi "tradizionali" delle varie
organizzazioni. Non importa
nulla, per i "dirigenti rivoluzionari" si tratta in ogni caso di "provocazione oggettiva": termine sempre
usato quando
i fatti non possono sostenere le affrettate condanne. Per esempio Bertoli, anche se non è un
provocatore
soggettivamente - proclamano i "rivoluzionari" - lo è "oggettivamente" perché il suo
gesto avrebbe potuto favorire
un tentativo autoritario. Ipotesi, congetture gratuite, smentite - in questo caso - dai fatti. D'altro
canto è ovvio che tutti gli atti violenti contro il potere generino reazioni ancor più violente
da parte dello
stesso, ma se ci attenessimo a questa logica i rivoluzionari dovrebbero autocondannarsi
all'immobilità. Tutta la
logica della "provocazione oggettiva" è aberrante, perché ragionando in tali termini
dovremmo definire
provocatori, per fare un solo esempio, i partigiani che con le loro azioni di giustizia e sacrosanta
guerriglia
esponevano la popolazione civile alle azioni di rappresaglia dei nazifascisti (basti pensare all'attentato di
via
Rasella e alla conseguente strage delle Fosse Ardeatine). Se consideriamo la realtà attuale,
che vede i gruppi rivoluzionari rinchiudersi nel loro guscio, accontentandosi
di gestire spazi politici sempre più ristretti, sempre meno rivoluzionari e sempre più
"quasi-riformisti", non
possiamo non comprendere come elementi meno stabili emotivamente e con viscerale spirito di ribellione
fuggano
dalla realtà con atti violenti e clamorosi. È la società autoritaria, con le sue
stridenti ingiustizie, a spingerli sulla
via della violenza. E dopo qualcuno di questi atti, ecco i rivoluzionari subito gridare "provocazione,
provocazione" quasi a voler esorcizzare le reazioni del potere. Noi non dobbiamo unirci al coro di questi
"rivoluzionari" che preferiscono la "verità politica" a quella "storica" (che è
l'unica verità). Per questa ragione noi
non ci siamo uniti al "coro" che voleva di Bertoli un fascista a tutti i costi. Troppa gente strilla, a destra
e a manca,
che la "verità è rivoluzionaria", che "la libertà si difende dicendo il vero", ecc.,
ma è poi pronta a dire le più grosse
menzogne per difendere le proprie tesi. Noi anarchici invece siamo gente onesta, cioè non
erigiamo la menzogna
a metodo di azione e... di pensiero. Questa nostra posizione è logica conseguenza di una
corretta pratica politica che vede nell'intima correlazione
tra mezzi e fini uno dei cardini della nostra azione. Le menzogne, le "verità politiche" non sono
utili, anzi sono
dannose alla rivoluzione libertaria ed egualitaria. Le "verità politiche" possono essere
tuttalpiù funzionali ad una
rivoluzione autoritaria, ma questo (è inutile ripeterlo) non ci interessa in quanto
anarchici. Potrebbe farci comodo pensare, dire, scrivere che G.F. Bertoli è un fascista. Ma
se non saremo convinti che oltre
che "comodo" è anche vero, non lo scriveremo mai.
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