Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 5 nr. 35
gennaio 1975


Rivista Anarchica Online

Tramonto di un'illusione?
di R. Brosio

Un secolo di esperienze cooperative.
L'incapacità del movimento cooperativo a negare e di conseguenza ad eliminare la divisione gerarchica del lavoro ha progressivamente ridotto le cooperative a delle aziende integrate nell'attuale sistema di sfruttamento capitalistico-tecnocratico. L'opera fagocitatrice del fascismo è stata perfezionata dal regime repubblicano e dalla sua tecnocrazia.

Un secolo fa, l'organizzazione cooperativa suscitava notevole interesse tra i rivoluzionari, che vedevano in essa un mezzo di lotta concreta contro lo strapotere economico delle classi privilegiate e un'occasione per sperimentare e costruire forme associative antitetiche a quelle basate sullo sfruttamento. Da allora, il movimento cooperativo ha fatto parecchia strada (nonostante rallentamenti e stasi occasionali) crescendo quantitativamente fino ad assumere oggi un'importanza notevole nell'economia praticamente di tutti i paesi industriali, oltre che di molti in via di sviluppo. All'Alleanza Cooperativa Internazionale (che non raggruppa certo tutte le cooperative del mondo) già nel 1965 risultano affiliate bel 551.000 società, con una produzione propria valutata in più di 4.000 milioni di sterline e un giro di affari complessivo di oltre 40.000 milioni di sterline. In Italia (dati del 1972) le cooperative superano attualmente le 20.000 unità, se ci limitiamo a considerare quelle raggruppate nelle tue organizzazioni nazionali (la Confederazione Cooperative Italiane, democristiana, la Lega Nazionale Cooperative, comunista, e l'Associazione Generale Cooperative Italiane, repubblicana), ma superano ampiamente tale dato tenendo conto di tutte le società non affiliate a nessuno dei tre organismi. Le più rappresentate sono certamente quelle agricole e quelle edilizie, ma anche gli altri settori (consumo, produzione e lavoro, trasporti, ecc.) sono ugualmente numerosi.
Nonostante questa situazione, indubbiamente felice quantitativamente, l'interesse originario dei rivoluzionari non si è mantenuto, anzi, è andato calando sensibilmente, e oggi non c'è più nessuno, tanto meno fra gli anarchici, che attribuisca al movimento cooperativo lo stesso valore eversivo di un tempo. Al contrario, esso appare perfettamente "inglobato" dall'attuale ordine sociale e ne è diventato, se non proprio un pilastro, per lo meno un elemento di notevole importanza per la sua stabilità. I dati precedentemente riportati ne fanno fede, visto che lo sfruttamento non risulta essere affatto diminuito, in Italia o in altri paesi cooperativisticamente avanzati.
Quali sono le ragioni di questo "tralignamento"? Di quali interessi sociali è oggi portatore il movimento cooperativo? E' quanto cercheremo di stabilire in queste note, occupandoci, per comodità di documentazione, di ciò che è avvenuto nel nostro paese, ma convinti che, per molti versi, il fenomeno sia il medesimo in tutto il mondo industriale.
Le prime cooperative sorsero oltre un secolo fa, ed ebbero subito un carattere prevalentemente popolare: erano una risposta delle categorie sociali meno abbienti alla sopraffazione quotidiana cui erano sottoposte da chi deteneva il potere economico, un tentativo di realizzare, con l'aiuto reciproco e la collaborazione tra sfruttati, delle condizioni di vita migliori, o comunque più sopportabili, di quelle offerte allora dalla società.
All'inizio furono soprattutto associazioni di consumatori, che si formavano per l'acquisto a prezzi più convenienti di generi di prima necessità: nel 1854, ad esempio, si era costituito a Torino, ad opera della Associazione Generale degli Operai, un cosiddetto Magazzino di Previdenza che rivendeva ai soci le merci acquistate, a prezzo di costo, maggiorato delle sole spese di amministrazione.
In seguito le cooperative si stesero, prendendo in considerazione altre esigenze, e sorsero associazioni di lavoro, di trasformazione dei prodotti agricoli, eccetera, arrivando poco a poco a coprire tutti i settori in cui ancor oggi esplicano la propria attività. Tale sviluppo fu particolarmente intenso nel periodo compreso tra il 1890 e il 1915, senza che l'originario carattere popolare si perdesse. L'impulso veniva, oltre che dalle esigenze obiettive delle classi povere, anche dall'interessamento dei militanti di varie dottrine politiche, anarchici e soprattutto socialisti prima, "cristiani" in seguito, che vedevano nelle cooperative un mezzo per risolvere i problemi degli sfruttati in armonia coi principi della propria idea. Alla fine del 1915 le cooperative di produzione e lavoro in Italia erano 3022, quelle di edificazione 751, quelle agricole 1143, per un totale (comprendendo anche i settori minori) di 7429 società.
L'elemento caratterizzante di tutte le prime cooperative fu la scoperta dei vantaggi della mutualità, cioè conseguenti all'esercizio in comune di una determinata attività: siano essi configurabili in una minor spesa di acquisto, in una maggior retribuzione del lavoro, in una maggior valutazione dei prodotti, tali vantaggi sono la conseguenza diretta del fatto che gli acquisti, il lavoro, la vendita dei prodotti vengono fatti in comune da un certo numero di soci. Per fare un esempio, gli aderenti ad una cooperativa di acquisto risparmiano perché, in virtù del loro numero, si riforniscono da grossisti, saltando un anello nella catena di distribuzione delle merci e quindi anche il relativo aggravio di prezzo. Risparmiano, cioè, non perché costringono i commercianti a vendere a prezzi inferiori, ma solo in quanto possono rivolgersi ad un diverso tipo di commercianti (i grossisti) e questo solo in virtù dell'esercizio in comune dell'attività di acquisto. Con le debite modificazioni, l'esempio può essere facilmente esteso agli altri casi di cooperazione. L'organizzazione cooperativa, insomma, permette di valorizzare le condizioni in cui l'attività sociale viene svolta, senza per altro modificare le caratteristiche di tale attività: il consumo resta consumo, il lavoro manuale resta lavoro manuale, la trasformazione dei prodotti resta trasformazione dei prodotti, con tutti i pregi e i difetti inerenti, ma vengono svolti in condizioni di maggior convenienza.
Questo vantaggio della mutualità, innegabile e capace di permettere notevoli miglioramenti tecnici delle attività economiche, costituiva l'elemento caratterizzante delle cooperative nel senso che ne divenne ben presto l'unico fine per cui si costituivano. Al di là delle differenze di impostazione ideologica, i primi cooperativisti nutrivano tutti la fiducia che la mutualità fosse suscettibile di far sentire i propri benefici effetti non solo all'interno della singola associazione e limitatamente alla propria specifica ragione sociale, ma anche nei confronti di tutto il sistema in cui si trovavano inserite. L'espansione del movimento cooperativo (cioè l'esercizio della mutualità) avrebbe garantito, di per sé, un virtù delle proprie caratteristiche, l'elevazione dei ceti meno fortunati, senza bisogno di ricorrere alla sopraffazione e alla violenza, senza bisogno di trasferire la propria sfortuna sugli altri. La mutualità non era quindi uno strumento al servizio di questa o quella dottrina politica, ma, come si diceva, il fine del cooperativismo considerato a priori coincidente con una determinata impostazione teorica.
Tale punto di partenza ridusse ben presto a mere questioni formali le differenti origini ideologiche del movimento cooperativo, unificandolo, di fatto, in un corpo solo, dotato di medesimi movimenti e di medesime tendenze. Inoltre, e questo è l'aspetto più importante, diventò la base di quel "tralignamento" di cui si diceva all'inizio.
La fiducia nei vantaggi "rivoluzionari" della mutualità, infatti, era eccessiva e mal riposta. Riprendendo il discorso fatto in questo proposito, si può notare che l'esercizio in comune di una certa attività modifica favorevolmente le condizioni in cui viene svolta, ma non il significato sociale di essa. Ciò che è subordinato, diretto, esecutivo, sottoposto, resta tale, solo meglio compensato. In altri termini, l'origine prima dello sfruttamento, cioè la divisione sociale gerarchica del lavoro, non viene minimamente compromessa dall'espandersi del fenomeno cooperativo come tale, ma anzi ne riceve in qualche modo un consolidamento, dal momento che la disuguaglianza diviene più razionale e più sopportabile. Il maggior compenso che riceve lo sfruttato (o il minor costo che sostiene) non è ottenuto a scapito dei privilegi dello sfruttatore, non è sottratto ai suoi profitti: è frutto soltanto del modo usato dagli sfruttati per organizzare la propria attività, cioè il proprio sfruttamento. Lo sfruttamento, cioè la divisione "verticale" del lavoro, può rimanere prevalentemente (ma non solo) "all'interno" all'azienda (nella grandi società cooperative, soprattutto, organizzate secondo una gerarchia aziendale tecno-burocratica), oppure può esercitarsi prevalentemente per un meccanismo esterno (si pensi ad una piccola cooperativa di lavoratori manuali, di facchini ad esempio, che non hanno un "padrone" diretto - capitalista o tecnocrate - ma il cui lavoro rimane esecutivo, socialmente subordinato e remunerato ai livelli inferiori della scala dei redditi) anche se l'associazione consente magari ai soci di passare, per dire, dall'ultimo gradino al penultimo o al terzultimo.
Se la pratica della mutualità fosse stata abbinata ad una robusta concezione ideologica, che l'avesse usata come strumento per la realizzazione di un fine egualitario chiaramente identificato, forse questo difetto di fondo avrebbe potuto essere "in prospettiva" superato. E' innegabile infatti il vantaggio tecnico della cooperazione, ed è rilevante il suo potenziale propagandistico, la sua capacità di dimostrare che la fratellanza e la collaborazione possono essere una base di organizzazione sociale per lo meno altrettanto valida che la competizione e la disuguaglianza. Inoltre, una rete sufficientemente estesa di cooperative libertarie potrebbe costituire una sorta di "infrastruttura rivoluzionaria", utile per sostenere concretamente il movimento degli sfruttati in lotta.
Tale caratterizzazione egualitaria, comunque non si produsse. Al contrario, e forse proprio in mancanza di essa, il movimento cooperativo si sviluppò ponendo sempre più l'accento sui vantaggi tecnici della mutualità, e organizzandosi di conseguenza, in vista, cioè, dell'esclusivo perseguimento del fine economico, specifico di ogni associazione. All'interno delle cooperative più grandi, per motivi di efficienza e funzionalità, prese così a riprodursi, come dicevamo poc'anzi, la medesima divisione, tra incarichi direttivi e subordinati, esistente nell'ambiente "esterno".
A questo processo di spoliticizzazione sostanziale contribuirono in misura rilevante i partiti di impostazione marxista e cattolica, che, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, esercitarono la maggior influenza sul movimento cooperativo. E molto sarebbe da dire su tale influenza, e sulla praticamente completa identità di vedute in merito, da parte di due sedicenti avversari. In ogni caso, si apriva così, per le cooperative, la strada dell'inserimento nel "sistema", che poteva assorbire senza pericoli, man mano che si modellavano secondo le sue esigenze.
Col fascismo, l'opera di assorbimento divenne istituzionale e razionalizzata. Nel 1926 fu creato l'ente Nazionale Fascista della Cooperazione, che agiva come strumento di controllo burocratico. Alcune grandi cooperative, come l'Alleanza Cooperativa Torinese e le Cooperative Operaie di Trieste, vennero trasformate in enti morali e sottoposte al controllo diretto del potere esecutivo. Le altre persero ogni autonomia, essendo i dirigenti in genere designati dall'alto.
Il regime faceva propri i regimi mutualistici, usandoli di fatto per sopperire a quelle necessità cui non poteva far fronte con i sistemi economici tradizionali. La cooperazione non era più l'espressione delle esigenze delle classi inferiori, ma la espressione delle esigenze del regime, che ne usava i vantaggi per i suoi propri fini. La disponibilità reazionaria del mutualismo è chiaramente dimostrata da quest'uso fascista del movimento cooperativo. Sta di fatto che esso ne ricevette un notevole impulso. Una rilevazione dell'ENFC, al 21 aprile 1938, ci informa sull'esistenza di ben 13.899 società, testimoniando contemporaneamente quanto ormai fosse diventata importante la cooperazione per la stabilità economica del regime.
Il secondo conflitto mondiale rappresentò una stasi per l'evoluzione del movimento. Ma le necessità di ricostruzione del dopoguerra ne riproposero i vantaggi, la convenienza economica, la possibilità di usarlo ancora una volta come alleato del sistema. La costituzione della neonata Repubblica Italiana (art.45) riconosce solennemente la "funzione sociale della cooperazione" e mette l'accento sulla mutualità. Lo stesso fanno le disposizioni che regolano la concessione di benefici fiscali alle cooperative, dettando norme precise perché i principi mutualistici vengano rispettati. Tutto ciò potrebbe sembrare una vittoria a qualche ingenuo sostenitore del carattere egualitario della cooperazione. Nella realtà, è la dimostrazione di quanto sia definitiva l'opera di assorbimento, da parte del sistema, sei principi più propriamente tecnici della cooperazione, di quanto essa sia diventata funzionale ai bisogni delle classi dominanti (al punto che, attraverso le proprie leggi, si preoccupano che non degeneri (per continuare ad usufruirne i vantaggi). In questo senso, lo stato "democratico" ha completato e reso più efficiente l'istituzionalizzazione del movimento cooperativo, iniziata dal fascismo.
D'altronde, se dal campo strettamente legislativo ci spostiamo ad esaminare la realtà economica delle cose, troviamo più di una conferma alle nostre considerazioni. Il carattere popolare delle cooperative appare ormai definitivamente perduto non solo considerando la funzione obiettiva che sono in grado di svolgere, cioè il sostegno che di fatto forniscono alla stabilità del sistema, ma anche la funzione soggettiva di molte di esse, cioè la loro ragione sociale. Accanto alle cooperative di sfruttati, che non sono altro che mezzi di coinvolgerli nel loro proprio sfruttamento, sorgono sempre più numerose le cooperative di sfruttatori, o comunque di privilegiati, che si associano per esercitare con maggiore efficienza il proprio predominio: cooperative edilizie, formate da impresari, cooperative di professionisti (architetti, ingegneri), cooperative di banche cioè di veri e propri capitalisti. Il che rivela quanto inquinato da interessi reazionari sia ormai il mutualismo, quanto poco garantisca, come tale, il perseguimento di fini che non siano il mantenimento della disuguaglianza e del privilegio, quanto poco, infine, ci sia da rallegrarsi che lo stato ne salvaguardi i presupposti e le caratteristiche.
Inoltre, anche volendo astrarre dal ruolo che giocano nell'economia del paese, non va dimenticata la evoluzione della maggior parte delle cooperative quanto ad assetto organizzativo interno. Abbiamo già accennato alla tendenza a riprodurre "dentro" la stessa divisione tra incarichi direttivi e subordinati che c'è "fuori". Questo si verifica specialmente nelle grandi società, che trattano un rilevante volume di affari e che hanno un numero elevato di soci. Qui, ad onta di tutte le migliori intenzioni mutualistiche, la assemblea dei soci ha un potere puramente fittizio. Chi esercitò il controllo sulla cooperativa è il consiglio di amministrazione, formato da tecnici ed esperti regolarmente stipendiati, come in una qualsiasi società per azioni. I soci sono chiamati, una volta l'anno, ad approvare o disapprovare un bilancio consuntivo, e non hanno nessuna possibilità di partecipare alle decisioni riguardanti le scelte future dell'impresa mutualistica, che vengono rimesse alla discrezione degli amministratori. Questi ultimi, proprio in virtù della posizione di netto predominio dirigenziale di cui godono, percepiscono spesso di retribuzioni elevate, che, di fatto, sono in aperto contrasto col principio stesso della cooperazione. La cooperativa diventa così un centro di formazione di un vero e proprio potere di stampo tecnoburocratico (con tutti i privilegi connessi) come nelle imprese e negli enti statali e parastatali (cui le grandi "cooperative" assomigliano sempre di più), come e più che nelle grandi imprese tecno-burocratiche.
Casi tipici di questa degenerazione, sono tutte le cooperative di 2° grado, cioè le associazioni di cooperative. Il potere dei dirigenti di consorzi come la COOP Italia, l'Intercoop, la Tecnoesport (controllati dal Partito Comunista) e tante altre, per l'importanza nazionale e spesso internazionale di tali società, è oramai palesemente uscito dai confini delle cooperative, per confondersi con quello, ormai quasi totale, esercitato dai tecnocrati del capitale pubblico e privato sul paese nel suo complesso. Altro esempio, politicamente di segno opposto al primo, ma di identico significato, è la Federazione Italiana dei Consorzi Agrari (Federconsorzi), potente feudo democristiano, centro di potere e di sottogoverno, fabbrica di voti, drammatica testimonianza del "tralignamento" del movimento cooperativo.

R. Brosio