Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 4 nr. 33
novembre 1974


Rivista Anarchica Online

Il contadino nazionalizzato
di R. Brosio

I coltivatori diretti forniscono il 78% di tutto il lavoro agricolo italiano. Questo essi sono: prestatori di lavoro remunerato e sottoremunerato secondo le esigenze capitalistico-burocratico attraverso il meccanismo dei prezzi. Nonostante l'apparenza (e l'illusione contadina), il coltivatore diretto è una forma mascherata di "salariato di stato".

In un precedente articolo (A 25) abbiamo affermato che la categoria dei coltivatori diretti si sta avviando a diventare la "spina dorsale" delle strutture agricole italiane, a causa di una serie di caratteristiche che la rendono funzionale alle necessità sfruttatrici delle classi dominanti. Facevamo notare, da un lato, la forzata disponibilità del coltivatore diretto a lasciarsi sfruttare, in quanto egli stesso coinvolto direttamente nel proprio sfruttamento, dall'altro, e proprio per questo, la espansione progressiva della categoria, in sostituzione di altri lavoratori manuali della terra (salariati fissi, braccianti, ecc.). Vorremmo adesso definire meglio il discorso allora iniziato, per chiarirne le sfumature ed evitarne qualche equivoco. E' nostra opinione, infatti, che la presenza dei coltivatori diretti sia funzionale non solo alle necessità di sfruttamento dell'attuale ordine costituito (cioè alla dipendenza della campagna dalla città), ma anche alla tendenza generale di massiccio intervento statale in economia, e quindi alle esigenze della classe tecno-burocratica che, attraverso lo stato, sta definendo oggi il suo ruolo dirigente nelle società industriali. Questa è la prospettiva in cui ci sembra giusto inquadrare il problema delle strutture rurali nel nostro paese (e non solo in quello).
Per legge (sarà bene ricordarlo) il coltivatore diretto è quell'imprenditore agricolo che, da solo o con la sua famiglia, fornisce all'azienda almeno un terzo del lavoro manuale necessario alla coltivazione. In effetti questa è la caratteristica che lo contraddistingue in via principale: il lavoro è l'unico fattore produttivo di cui il coltivatore diretto abbia piena disponibilità. Gli altri (capitale agrario, capitale fondiario e organizzazione imprenditoriale, secondo l'impostazione classica dell'economia (1)) sono sotto il suo controllo solo nominalmente. Nella realtà vengono forniti dallo stato, in misura già rilevante oggi e destinata ad accrescersi notevolmente in un prossimo futuro. Proprio di ciò intendiamo parlare in queste note.
La difficoltà con cui l'agricoltura si approvvigiona di capitali è ben conosciuta. Tale difficoltà è pressochè insormontabile per il coltivatore diretto. I bassi redditi gli impediscono in modo assoluto l'autofinanziamento, cioè la possibilità di utilizzare una parte dei profitti aziendali per migliorare il fondo o acquistare strumenti produttivi più efficienti. D'altro canto, il ricorso al credito bancario ordinario è fortemente ostacolato dall'incapacità a fornire adeguate garanzia in copertura dei prestiti e dal peso insostenibile degli interessi. In queste condizioni, l'agricoltura basata sulla famiglia coltivatrice rischierebbe di morire d'inedia, e soprattutto sarebbe tecnicamente inadatta a sopperire alle necessità di un paese industriale in evoluzione. Il che contrasta con la già ricordata tendenza all'aumento del numero di coltivatori diretti e con l'evidente volontà, da parte della classe al potere, di favorire tale aumento. Nei fatti, è lo stato ad impedire la dissoluzione delle imprese coltivatrici, fornendo alle famiglie i capitali necessari al loro continuo adeguamento produttivo. Non staremo qui a ricordare la miriade di provvedimenti legislativi con cui, dal dopoguerra ad oggi, lo stato ha foraggiato di capitali le strutture rurali del nostro paese, con contributi a fondo perduto o pagando per gli agricoltori la maggior parte degli interessi richiesti dalle banche. Basta sfogliare un qualunque testo di politica agraria, per soddisfare ogni eventuale curiosità.
La dovizia dei provvedimenti, comunque, non deve trarre in inganno: essa non significa che la tecnocrazia italiana ha speso molti soldi per l'agricoltura, significa soltanto che ne ha spesi spesso. In altri termini, non è nostra intenzione sostenere l'immagine idilliaca di contadini felici, affrancati dalla fatica dei campi, per merito dei nostri filantropici legislatori. I capitali sono stati devoluti al progresso tecnico dei coltivatori diretti, non alla loro elevazione sociale; sono serviti a metterli in grado di produrre di più, non di faticare di meno. Ciononostante, il progresso tecnico (quello compatibile con l'equilibrio e le possibilità oggettive del sistema) c'è stato, e si è realizzato proprio in seguito al continuo intervento capitalistico del pubblico potere. La frequenza di tale intervento, parallelamente all'aumento di produttività che ha generato, dimostra la dipendenza assoluta della famiglia coltivatrice, dallo stato, almeno per quanto concerne il fabbisogno di capitali. L'intervento statale non è occasionale, o "di salvataggio": è ormai una caratteristica strutturale della produzione rustica. L'aumento del numero dei coltivatori diretti postula inevitabilmente l'attribuzione dello stato del ruolo di principale (unico, in prospettiva) capitalista in agricoltura.
Quanto andiamo dicendo non si riferisce al puro e semplice capitale agrario, ma riguarda anche il capitale fondiario. Una buona parte del denaro pubblico, a partire specialmente dalla costituzione della Comunità Economica Europea, è stata usata per il rammodernamento delle strutture rurali italiane: costruzione di stalle razionali, impianti di irrigazione, ricomposizione fondiaria, formazione della proprietà contadina. Altri soldi dovranno essere spesi nel medesimo senso, in un futuro assai prossimo, per continuare l'adeguamento della nostra agricoltura a quella degli altri paesi del Mercato Comune. Tutto ciò ha la conseguenza di rendere lo stato, di fatto, partecipe della proprietà fondiaria, anche se l'aspetto giuridico di essa non viene toccato. Il coltivatore diretto continua infatti ad essere proprietario della sua azienda, ma nella realtà essa è per un terzo (o metà, o quello che sia) di proprietà statale, perchè statali sono i denari con cui l'ha ingrandita, potenziata, a volte anche acquistata. Una delle manifestazioni più macroscopiche di quest'ingerenza dello stato fin nel cuore della proprietà privata rustica, è rappresentata dall'ultima legge sull'affitto (1971) che obbliga i concedenti a dare in affitto i terreni a canoni estremamente bassi, favorendo i fittavoli coltivatori diretti. Essa dimostra la volontà del potere pubblico di porsi come principale gestore del fattore fondiario, da concedere a chi vuole e alle condizioni che vuole.
Proprio a quest'ultimo proposito, possono nascere delle perplessità. Se il coltivatore diretto ha perso (o sta perdendo) le caratteristiche di possessore in proprio del capitale agrario e fondiario e se è lo stato a fornire questi fattori, qual è la remunerazione chiesta in cambio? Essa non appare in modo esplicito nel conteggio del costo di produzione dell'azienda coltivatrice, perchè, bisogna dirlo, lo stato non chiede nessun corrispettivo monetario per la concessione dei suoi favori. Abbiamo già detto che l'intervento in agricoltura è fatto con due modalità principali: contributi in conto capitale o contributi in conto interessi. In entrambi i casi, nessuna restituzione è prevista. Ciononostante, il rapporto di debito da parte del coltivatore diretto, resta, e in qualche modo dev'essere risolto.
Il coltivatore paga i debiti verso lo stato con la rinuncia dell'ultima di quelle funzioni che, oltre al lavoro manuale, dovrebbe in teoria ancora svolgere nell'azienda: l'organizzazione imprenditoriale. Infatti, la contropartita di tutte le facilitazioni creditizie e fiscali, di tutti gli interventi e di tutti i contributi, è l'accettazione del ruolo dirigente dello stato, l'adattamento del coltivatore a tutte le sue indicazioni tecniche, produttive, organizzative. Lo stato (ed è logico, tutto sommato) regala sì, i suoi denari, ma soltanto a coloro che si adeguano alle sue direttive, in modo da fornire una produzione agricola sempre adeguata alle necessità del paese (cioè della classe dirigente). La già citata legge sull'affitto rustico, per esempio, svincola il fittavolo coltivatore diretto dal controllo della proprietà, ma lo sottomette a quello dello stato (che è dunque il vero nuovo proprietario): la condizione per l'esecuzione di qualunque opera di miglioramento sul fondo è il benestare del Ministero dell'Agricoltura o dei suoi organi periferici. Norme simili sono previste per tutti i più recenti provvedimenti a favore della terra. Lo stato non è soltanto proprietario, capitalista. E' anche imprenditore.
E il coltivatore diretto? A questo punto è chiaro che la sua funzione reale è quella, pura e semplice, di lavoratore manuale. Almeno, questa è l'attività cui lo ha destinato il potere statale, quando ne ha deciso la nascita come struttura portante della nostra agricoltura. Lavoratore manuale dipendente dello stato, per di più. Una specie di moderno servo della gleba, cui è dato in uso un fondo, macchine e attrezzi, perchè produca quello che il signore desidera. Ci si meravigliava poc'anzi che lo stato non chiedesse denaro in cambio dei fattori produttivi concessi ai coltivatori. Ma nessun proprietario, nessun industriale dà in affitto i macchinari ai propri dipendenti. Li assume, li fa lavorare, e basta.
E' proprio quanto fa lo stato nei confronti dei coltivatori diretti. La remunerazione in termini di profitto (differenza tra incassi e spese) è una pura finzione: nella realtà è un salario che può essere alzato o (più spesso) abbassato a seconda delle necessità e delle situazioni, senza bisogno di rinnovi di contratti, scioperi o altro, alzando o abbassando i prezzi delle merci agricole. In questo modo si riesce a far sopportare all'agricoltura (cioè alle famiglie coltivatrici) tutti i sacrifici che l'industria richiede per il suo sviluppo e che, comunque, non ha intenzione di sopportare.
Sbagliano, dunque, quanti pensano che agricoltura e potere statale siano termini inconciliabili. Nel nostro paese il potere della tecnoburocrazia sta impadronendosi delle strutture fondiarie proprio attraverso quella che sembra tuttora il rifugio dell'individualismo e della libera concorrenza: la piccola proprietà contadina. Senza gli errori della collettivizzazione forzata, senza i rischi della riprivatizzazione, anche l'Italia si sta avviando ad avere la sua "agricoltura di stato". Sbagliano quanti non lo credono possibile. Ma sbagliano anche quelli che vi affidano le loro speranze d'emancipazione del lavoro agricolo.

R. Brosio

1) Si intende per capitale agrario l'insieme degli strumento produttivi mobili (bestiame, macchine, scorte aziendali), mentre viene considerato capitale fondiario l'unione del terreno con i capitali investiti in modo stabile su di esso (fabbricati, impianti arborei, ecc.).