Rivista Anarchica Online
Il contadino nazionalizzato
di R. Brosio
I coltivatori diretti forniscono il 78% di tutto il lavoro agricolo italiano. Questo essi sono: prestatori di
lavoro
remunerato e sottoremunerato secondo le esigenze capitalistico-burocratico attraverso il meccanismo dei
prezzi.
Nonostante l'apparenza (e l'illusione contadina), il coltivatore diretto è una forma mascherata di
"salariato di
stato".
In un precedente articolo (A 25) abbiamo affermato che la categoria
dei coltivatori diretti si sta avviando a
diventare la "spina dorsale" delle strutture agricole italiane, a causa di una serie di caratteristiche che la
rendono
funzionale alle necessità sfruttatrici delle classi dominanti. Facevamo notare, da un lato, la forzata
disponibilità
del coltivatore diretto a lasciarsi sfruttare, in quanto egli stesso coinvolto direttamente nel proprio
sfruttamento,
dall'altro, e proprio per questo, la espansione progressiva della categoria, in sostituzione di altri lavoratori
manuali della terra (salariati fissi, braccianti, ecc.). Vorremmo adesso definire meglio il discorso allora
iniziato,
per chiarirne le sfumature ed evitarne qualche equivoco. E' nostra opinione, infatti, che la presenza dei
coltivatori
diretti sia funzionale non solo alle necessità di sfruttamento dell'attuale ordine costituito
(cioè alla dipendenza
della campagna dalla città), ma anche alla tendenza generale di massiccio intervento statale in
economia, e quindi
alle esigenze della classe tecno-burocratica che, attraverso lo stato, sta definendo oggi il suo ruolo
dirigente nelle
società industriali. Questa è la prospettiva in cui ci sembra giusto inquadrare il problema
delle strutture rurali nel
nostro paese (e non solo in quello). Per legge (sarà bene ricordarlo) il coltivatore diretto
è quell'imprenditore agricolo che, da solo o con la sua
famiglia, fornisce all'azienda almeno un terzo del lavoro manuale necessario
alla coltivazione. In effetti questa
è la caratteristica che lo contraddistingue in via principale: il lavoro è l'unico fattore
produttivo di cui il
coltivatore diretto abbia piena disponibilità. Gli altri (capitale agrario, capitale fondiario e
organizzazione
imprenditoriale, secondo l'impostazione classica dell'economia (1)) sono sotto il suo controllo solo
nominalmente. Nella realtà vengono forniti dallo stato, in misura già rilevante oggi e
destinata ad accrescersi
notevolmente in un prossimo futuro. Proprio di ciò intendiamo parlare in queste note. La
difficoltà con cui l'agricoltura si approvvigiona di capitali è ben conosciuta. Tale
difficoltà è pressochè
insormontabile per il coltivatore diretto. I bassi redditi gli impediscono in modo assoluto
l'autofinanziamento,
cioè la possibilità di utilizzare una parte dei profitti aziendali per migliorare il fondo o
acquistare strumenti
produttivi più efficienti. D'altro canto, il ricorso al credito bancario ordinario è
fortemente ostacolato
dall'incapacità a fornire adeguate garanzia in copertura dei prestiti e dal peso insostenibile degli
interessi. In
queste condizioni, l'agricoltura basata sulla famiglia coltivatrice rischierebbe di morire d'inedia, e
soprattutto
sarebbe tecnicamente inadatta a sopperire alle necessità di un paese industriale in evoluzione. Il
che contrasta con
la già ricordata tendenza all'aumento del numero di coltivatori diretti e con l'evidente
volontà, da parte della
classe al potere, di favorire tale aumento. Nei fatti, è lo stato ad impedire la dissoluzione delle
imprese coltivatrici,
fornendo alle famiglie i capitali necessari al loro continuo adeguamento produttivo. Non staremo qui a
ricordare
la miriade di provvedimenti legislativi con cui, dal dopoguerra ad oggi, lo stato ha foraggiato di capitali
le strutture
rurali del nostro paese, con contributi a fondo perduto o pagando per gli agricoltori la maggior parte degli
interessi
richiesti dalle banche. Basta sfogliare un qualunque testo di politica agraria, per soddisfare ogni eventuale
curiosità. La dovizia dei provvedimenti, comunque, non deve trarre in inganno: essa non
significa che la tecnocrazia italiana
ha speso molti soldi per l'agricoltura, significa soltanto che ne ha spesi spesso.
In altri termini, non è nostra
intenzione sostenere l'immagine idilliaca di contadini felici, affrancati dalla fatica dei campi, per merito
dei nostri
filantropici legislatori. I capitali sono stati devoluti al progresso tecnico dei coltivatori diretti,
non alla loro
elevazione sociale; sono serviti a metterli in grado di produrre di più, non di
faticare di meno. Ciononostante,
il progresso tecnico (quello compatibile con l'equilibrio e le possibilità oggettive del sistema)
c'è stato, e si è
realizzato proprio in seguito al continuo intervento capitalistico del pubblico potere. La frequenza di tale
intervento, parallelamente all'aumento di produttività che ha generato, dimostra la dipendenza
assoluta della
famiglia coltivatrice, dallo stato, almeno per quanto concerne il fabbisogno di capitali. L'intervento statale
non
è occasionale, o "di salvataggio": è ormai una caratteristica strutturale della
produzione rustica. L'aumento del
numero dei coltivatori diretti postula inevitabilmente l'attribuzione dello stato del ruolo di principale
(unico, in
prospettiva) capitalista in agricoltura. Quanto andiamo dicendo non si riferisce al puro e semplice
capitale agrario, ma riguarda anche il capitale
fondiario. Una buona parte del denaro pubblico, a partire specialmente dalla costituzione della
Comunità
Economica Europea, è stata usata per il rammodernamento delle strutture rurali italiane:
costruzione di stalle
razionali, impianti di irrigazione, ricomposizione fondiaria, formazione della proprietà contadina.
Altri soldi
dovranno essere spesi nel medesimo senso, in un futuro assai prossimo, per continuare l'adeguamento
della nostra
agricoltura a quella degli altri paesi del Mercato Comune. Tutto ciò ha la conseguenza di rendere
lo stato, di fatto,
partecipe della proprietà fondiaria, anche se l'aspetto giuridico di essa non viene toccato. Il
coltivatore diretto
continua infatti ad essere proprietario della sua azienda, ma nella realtà essa è per un
terzo (o metà, o quello che
sia) di proprietà statale, perchè statali sono i denari con cui l'ha ingrandita, potenziata,
a volte anche acquistata.
Una delle manifestazioni più macroscopiche di quest'ingerenza dello stato fin nel cuore della
proprietà privata
rustica, è rappresentata dall'ultima legge sull'affitto (1971) che obbliga i concedenti a dare in
affitto i terreni a
canoni estremamente bassi, favorendo i fittavoli coltivatori diretti. Essa dimostra la volontà del
potere pubblico
di porsi come principale gestore del fattore fondiario, da concedere a chi vuole e alle condizioni che
vuole. Proprio a quest'ultimo proposito, possono nascere delle perplessità. Se il coltivatore
diretto ha perso (o sta
perdendo) le caratteristiche di possessore in proprio del capitale agrario e fondiario e se è lo stato
a fornire questi
fattori, qual è la remunerazione chiesta in cambio? Essa non appare in modo esplicito nel
conteggio del costo di
produzione dell'azienda coltivatrice, perchè, bisogna dirlo, lo stato non chiede nessun
corrispettivo monetario
per la concessione dei suoi favori. Abbiamo già detto che l'intervento in agricoltura è
fatto con due modalità
principali: contributi in conto capitale o contributi in conto interessi. In entrambi i casi, nessuna
restituzione è
prevista. Ciononostante, il rapporto di debito da parte del coltivatore diretto, resta, e in qualche modo
dev'essere
risolto. Il coltivatore paga i debiti verso lo stato con la rinuncia dell'ultima di quelle funzioni che, oltre
al lavoro
manuale, dovrebbe in teoria ancora svolgere nell'azienda: l'organizzazione imprenditoriale.
Infatti, la
contropartita di tutte le facilitazioni creditizie e fiscali, di tutti gli interventi e di tutti i contributi, è
l'accettazione
del ruolo dirigente dello stato, l'adattamento del coltivatore a tutte le sue indicazioni tecniche, produttive,
organizzative. Lo stato (ed è logico, tutto sommato) regala sì, i suoi denari, ma soltanto
a coloro che si adeguano
alle sue direttive, in modo da fornire una produzione agricola sempre adeguata alle necessità del
paese (cioè della
classe dirigente). La già citata legge sull'affitto rustico, per esempio, svincola il fittavolo
coltivatore diretto dal
controllo della proprietà, ma lo sottomette a quello dello stato (che è dunque il vero
nuovo proprietario): la
condizione per l'esecuzione di qualunque opera di miglioramento sul fondo è il benestare del
Ministero
dell'Agricoltura o dei suoi organi periferici. Norme simili sono previste per tutti i più recenti
provvedimenti a
favore della terra. Lo stato non è soltanto proprietario, capitalista. E' anche imprenditore. E
il coltivatore diretto? A questo punto è chiaro che la sua funzione reale è quella, pura
e semplice, di lavoratore
manuale. Almeno, questa è l'attività cui lo ha destinato il potere statale, quando
ne ha deciso la nascita come
struttura portante della nostra agricoltura. Lavoratore manuale dipendente dello stato, per
di più. Una specie di
moderno servo della gleba, cui è dato in uso un fondo, macchine e attrezzi, perchè
produca quello che il signore
desidera. Ci si meravigliava poc'anzi che lo stato non chiedesse denaro in cambio dei fattori produttivi
concessi
ai coltivatori. Ma nessun proprietario, nessun industriale dà in affitto i macchinari ai propri
dipendenti. Li assume,
li fa lavorare, e basta. E' proprio quanto fa lo stato nei confronti dei coltivatori diretti. La
remunerazione in termini di profitto
(differenza tra incassi e spese) è una pura finzione: nella realtà è un salario che
può essere alzato o (più spesso)
abbassato a seconda delle necessità e delle situazioni, senza bisogno di rinnovi di contratti,
scioperi o altro,
alzando o abbassando i prezzi delle merci agricole. In questo modo si riesce a far sopportare
all'agricoltura (cioè
alle famiglie coltivatrici) tutti i sacrifici che l'industria richiede per il suo sviluppo e che, comunque, non
ha
intenzione di sopportare. Sbagliano, dunque, quanti pensano che agricoltura e potere statale siano
termini inconciliabili. Nel nostro paese
il potere della tecnoburocrazia sta impadronendosi delle strutture fondiarie proprio attraverso quella che
sembra
tuttora il rifugio dell'individualismo e della libera concorrenza: la piccola proprietà contadina.
Senza gli errori
della collettivizzazione forzata, senza i rischi della riprivatizzazione, anche l'Italia si sta avviando ad avere
la sua
"agricoltura di stato". Sbagliano quanti non lo credono possibile. Ma sbagliano anche quelli che vi
affidano le
loro speranze d'emancipazione del lavoro agricolo.
R. Brosio
1) Si intende per capitale agrario l'insieme degli strumento produttivi mobili (bestiame,
macchine, scorte
aziendali), mentre viene considerato capitale fondiario l'unione del terreno con i capitali
investiti in modo stabile
su di esso (fabbricati, impianti arborei, ecc.).
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