Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 3 nr. 25
novembre 1973 - dicembre 1973


Rivista Anarchica Online

Il coltivatore diretto sfruttatore di se stesso
di R. Brosio

Usciti dal tradizionale riserbo del mondo rurale, i coltivatori diretti italiani sono scesi in piazza, a testimoniare i problemi e il malcontento della categoria. La stampa ce ne ha fornito pittoresche descrizioni. A Milano, a Torino, a Piacenza, i contadini hanno invaso a migliaia le vie cittadine, mungendo le vacche sui marciapiedi, rovesciando il latte nelle fontane, distribuendo gratis ai passanti frutta e verdura. Non sono mancati i danneggiamenti e le risse, spesso notevoli, ma i giornali si sono limitati a registrare "qualche intemperanza", dando invece largo spazio ai motivi della protesta. Di denunce o altri provvedimenti repressivi non abbiamo sentito parlare, e probabilmente non ce ne sono state.
In effetti, tutte le manifestazioni finora svoltesi sono state organizzate dalla Coldiretti, potente feudo democristiano e inesauribile serbatoio di voti per il partito di maggioranza relativa. Questo, più che la sensibilità delle forze dell'ordine verso i problemi della campagna, spiega sufficientemente la immunità dei partecipanti, che, in quanto preziosi elettori, erano intoccabili e imperseguibili. Spiega anche il carattere sostanzialmente reazionario e corporativo delle rivendicazioni portate avanti, volte solo ad ottenere condizioni di maggior favore nella produzione e commercializzazione delle merci agricole, senza il minimo accenno ai problemi sociali del mondo contadino. Con un simile patrocinio, non poteva essere diversamente.
Un poco più strano, almeno in apparenza, può sembrare il fatto che un'associazione potente come la Coldiretti, ben rappresentata in Parlamento dai numerosi deputati eletti coi voti dei suoi aderenti, solidamente ammanigliati ai centri di potere e di sottogoverno, parte integrante essa stessa, ai suoi vertici, della classe dirigente del paese, debba ricorrere, per farsi ascoltare, ai cortei di piazza, come un qualunque gruppuscolo. Ma è chiaro che non è questo lo scopo delle manifestazioni di rustico dissenso. Al contrario, è più probabile che esse siano state approntate per tenere i coltivatori diretti legati al carrozzone, per convincerli che, nonostante i disinganni e le fregature, papà Bonomi e mamma DC ne hanno a cuore le sorti. È probabile cioè che debbano servire più agli agricoltori che vi partecipano, per tranquillizzarli, che non al governo di cui sollecitano l'intervento. Il che, tra l'altro, ben si accorda con la gestione bonomiana dell'associazione, oscurantista, paternalista, demagogica.
Nell'attuale situazione economica e politica, il coltivatore diretto si trova in posizione di netto svantaggio, nei confronti delle altre forze sociali che partecipano alla produzione nazionale, e con lui tutto il settore agricolo. Tale posizione non sembra destinata a modificarsi, almeno in Italia e in un prossimo futuro. L'affermazione può apparire insensata, a quanti vedono nella proprietà privata (o nella funzione imprenditoriale) l'unica fonte del privilegio. Ma in agricoltura le cose non sono così semplici, come cercheremo di spiegare qui appresso.

il feudo di Bonomi

Per legge, è considerato coltivatore diretto chi fornisce, col suo lavoro e dei suoi familiari, almeno un terzo della manodopera necessaria alla conduzione dell'azienda. Questo fa sì che nella categoria finiscano per rientrare, in un modo o nell'altro, anche grandi proprietari-capitalisti, sfruttatori del lavoro salariale, desiderosi di usufruire delle facilitazioni creditizie e fiscali concesse ai piccoli agricoltori. Ciò non toglie, però, che la maggioranza dei coltivatori diretti siano veri coltivatori diretti, che apportano da soli nell'economia aziendale tutto (o quasi) il lavoro manuale necessario. Basta dare un'occhiata alle statistiche sulle dimensioni medie delle aziende agricole italiane, per convincersene. Essi sono la spina dorsale dell'agricoltura del nostro paese, rappresentando (con i coadiuvanti familiari) quasi i due terzi del numero totale di addetti, il doppio dei salariati. È gente che curva la schiena e si sporca le mani, e considerarli sfruttatori solo perché posseggono un pezzo di terra è pura follia. Se sfruttatori sono, lo sono di se stessi. Anche quando hanno alle proprie dipendenze uno o due salariati (mai molti di più), ne condividono la fatica con un reddito globale simile, o di poco superiore. Il fatto, poi, che siano remunerati in termini di profitto (cioè differenza tra ricavi e costo di produzione) è una cinica invenzione di economisti di città: il profitto esiste solo se si considera sottoretribuita (o addirittura, non retribuita) l'attività manuale svolta. Il che prende l'aspetto, in concreto, di un vero e proprio sfruttamento del lavoro.

agricoltura sfruttata

L'idea che i coltivatori diretti siano una categoria di sfruttati, trova maggior conforto se prendiamo in considerazione la storia, per così dire, della loro formazione. Essi non sono sempre esistiti, almeno nelle proporzioni attuali. Al contrario, la nascita della piccola proprietà coltivatrice, come struttura portante della nostra economia agricola, è un fenomeno relativamente recente, che risale soprattutto al periodo immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Inoltre, non è stato un fenomeno "spontaneo", ma la conseguenza di una volontà politica cosciente e consapevole. Tutta la politica agricola della classe dirigente italiana, dal '45 in poi, è stata diretta a stimolare con ogni mezzo la formazione della piccola proprietà, tramite le riforme fondiarie, i "piani verdi", le agevolazioni fiscali, ecc. Anche l'ultima legislazione sull'affitto rustico, che prevede la cessione dei terreni a canoni estremamente favorevoli per i fittavoli, è da considerarsi nella medesima prospettiva, di stimolo alla conduzione diretta dei fondi.
Lo scopo di tutto ciò non è la creazione di una nuova classe di privilegiati, ma lo sfruttamento dell'agricoltura (e quindi dei suoi addetti) da parte di un paese in via di rapida industrializzazione.
In altri termini, per poter trasformare l'Italia in un paese industriale, uscendo nel contempo dalla crisi del dopoguerra, la classe dirigente aveva bisogno di un'agricoltura che desse il massimo possibile, ma senza chiedere nulla in cambio. Che desse il massimo, per assicurare al paese il nutrimento di cui aveva bisogno. Che non chiedesse nulla, perché non fossero sottratte energie (umane e finanziarie) all'industria in via di sviluppo. L'agricoltura doveva, così, poggiare su di una struttura che garantisse questo risultato. Tale struttura è la piccola proprietà coltivatrice. Proprio perché proprietario, proprio perché remunerato dalla differenza tra incasso e spesa, il coltivatore diretto è portato a massimizzare l'impiego dell'unico fattore che non rappresenta per lui un vero esborso monetario: il proprio lavoro. Questo è il solo mezzo a sua disposizione per rendere "remunerativi" i prezzi a cui vende i prodotti, ma è anche il meccanismo che sancisce definitivamente la sua situazione di inferiorità e ne fa uno sfruttato. I prezzi infatti non sono liberi, ma imposti dalla città industriale che sui prodotti agricoli ha una specie di "monopolio di domanda", essendone l'unico acquirente. Ecco che al piccolo agricoltore la città può chiedere qualunque sacrificio: spinto dalla logica stessa della condizione in cui si trova, egli è costretto ad accettare tutto, prezzi irrisori, mafie commerciali, lavoro ingrato, pena la compromissione della sua sopravvivenza. Se l'operaio dell'industria può almeno scioperare, per salvaguardare la sua, pur relativa, forza contrattuale, questo è negato al coltivatore diretto. Contro chi, infatti, sciopererebbe? La sua "controparte" (la città industriale) è talmente impersonale e indistinta da renderne difficile anche il riconoscimento come avversario.

la fuga all'indietro

Questa situazione, questo rapporto tra città e campagna, ha rappresentato la base su cui ha potuto poggiare il "boom" economico degli anni '50. Il decollo industriale del dopoguerra è stato pagato con il supersfruttamento dell'agricoltura e quest'ultimo, ripetiamo, è stato realizzato con l'istituzione della piccola proprietà coltivatrice. Si può notare, a tale proposito, che l'Italia non è l'unico esempio di ciò. Con poche sfumature di differenza, un'identica via all'industrializzazione è stata percorsa dagli altri paesi europei. Perfino nell'est "socialista" (Polonia, ad esempio) si è fatto ricorso alla privatizzazione della produzione rurale quando la scarsa meccanizzazione non consentiva all'agricoltura di fornire alla città il sostegno necessario per il suo sviluppo.
Questa quasi illimitata "capacità di sacrificio" non è l'unico vantaggio che l'industria estorce alla piccola proprietà coltivatrice. Un altro, e di importanza non indifferente, è rappresentato dall'atteggiamento psicologico che i coltivatori diretti tendono ad assumere, come conseguenza della situazione in cui si trovano ad agire. L'incapacità a identificare con precisione i responsabili del proprio sfruttamento, l'illusione della "libertà" connessa col possesso della terra, l'isolamento quotidiano e il regime di relativa concorrenza vigente tra gli appartenenti alla categoria, contribuiscono a formare una struttura caratteriale tendenzialmente reazionaria, poco inclini ai sentimenti di solidarietà rivoluzionaria, diffidente del nuovo e attaccata alla tradizione, facile terreno, come tale, per l'attecchimento di ideologie conservatrici. Molti, specie tra gli anziani, ricordano con nostalgia i tempi del fascismo. La mitologia dell'Italia "rurale" di quell'epoca, la considerazione che il regime ostentava per l'agricoltura, il fatto stesso di venire inquadrati ogni settimana per "giocare ai soldati" in camicia nera, dava loro l'impressione di essere parte integrante, seppur passiva, della vita del Paese. Oggi, al contrario, se ne sentono esclusi, e non fa differenza che lo sfruttamento sia sempre lo stesso, sotto il duce come sotto Rumor.
Su questa mescolanza di rancori e miopie, paura e rassegnazione, si è solidamente impiantata la Coldiretti, selezionando con cura tutti gli aspetti più retrivi della psicologia contadina, coltivandone ora alla rabbia ora lo spirito gregario, per far leva, di volta in volta, su quello più conveniente in ogni contesto. Così, è arrivata a controllare la stragrande maggioranza dei coltivatori. A ciò, ha contribuito il quasi totale disinteresse della sinistra istituzionale per tutta la categoria, o, se preferite, l'incapacità di elaborare strategie ed obiettivi veramente originali, alternativi a quelli democristiani. La Alleanza Contadina (comunista) e la U.C.I. (socialista) raggruppano sì e no un venti per cento dei coltivatori organizzati, e le rivendicazioni che portano avanti sono sostanzialmente simili a quelle corporative della Coldiretti. Con simili tutori, è chiaro che il processo di maturazione politica degli sfruttati del mondo rurale non potrà essere che estremamente lento e difficoltoso.

la rivoluzione nelle campagne

Il problema riveste una notevole importanza. Contrariamente a quanto molti pensano, specie tra i marxisti "ortodossi" dell'area extraparlamentare, i coltivatori diretti non sono destinati a scomparire, sostituiti dai salariati di grosse aziende capitalistiche. Anche se questa prospettiva piace ai cultori del "socialismo scientifico", non sembra destinata ad avverarsi. È probabile invece che, pur nell'ambito di aziende di maggiori dimensioni, coltivate con l'aiuto di macchine progredite, la famiglia coltivatrice continui anche in futuro a svolgere il suo ruolo di base dell'economia agricola. Tale almeno è la situazione cui sono pervenuti Paesi più avanzati del nostro sulla via dell'industrializzazione, nei quali i coltivatori diretti non sono scomparsi e non mostrano alcuna tendenza a scomparire. Perfino nelle gigantesche e meccanizzatissime aziende degli U.S.A., la figura chiave è tuttora quella del coltivatore diretto.
Tutto ciò significa che è illusorio sperare in una proletarizzazione dei lavoratori agricoli e quindi in un loro allineamento, come psicologia e problematica, con gli operai dell'industria. Le strategie rivoluzionarie che non tengono conto di questo, sono destinate al fallimento e all'inefficienza.
Nello stesso tempo, il riconoscimento dei piccoli agricoltori come veri sfruttati della campagna (accanto, ovviamente, ai salariati) comporta l'obbligo per qualunque libertario, di prenderli in considerazione e considerare anch'essi come propri interlocutori, una volta che si siano liberati dal peso di ideologie e atteggiamenti che non rappresentano il loro interesse. Purtroppo, oltre agli ostacoli oggettivi alla penetrazione della propaganda libertaria fra i coltivatori diretti, rappresentati dal monopolio delle loro teste esercitato dall'on. Bonomi, c'è il fatto che manca, oggi, fra gli anarchici, una strategia coerente di intervento nelle campagne. Il problema dunque, resta aperto. Nella sua notevole difficoltà, costituisce un appello a tutti i compagni, a tutti i militanti, perché ciascuno dia il suo contributo. La rivoluzione deve essere preparata anche nelle campagne.

R. Brosio