Rivista Anarchica Online
Il coltivatore diretto sfruttatore di se stesso
di R. Brosio
Usciti dal tradizionale riserbo del mondo rurale, i coltivatori diretti italiani
sono scesi in piazza, a
testimoniare i problemi e il malcontento della categoria. La stampa ce ne ha fornito pittoresche
descrizioni. A Milano, a Torino, a Piacenza, i contadini hanno invaso a migliaia le vie cittadine,
mungendo le vacche sui marciapiedi, rovesciando il latte nelle fontane, distribuendo gratis ai passanti
frutta e verdura. Non sono mancati i danneggiamenti e le risse, spesso notevoli, ma i giornali si sono
limitati a registrare "qualche intemperanza", dando invece largo spazio ai motivi della protesta. Di
denunce o altri provvedimenti repressivi non abbiamo sentito parlare, e probabilmente non ce ne sono
state. In effetti, tutte le manifestazioni finora svoltesi sono state organizzate dalla Coldiretti, potente
feudo
democristiano e inesauribile serbatoio di voti per il partito di maggioranza relativa. Questo, più
che la
sensibilità delle forze dell'ordine verso i problemi della campagna, spiega sufficientemente la
immunità
dei partecipanti, che, in quanto preziosi elettori, erano intoccabili e imperseguibili. Spiega anche il
carattere sostanzialmente reazionario e corporativo delle rivendicazioni portate avanti, volte solo ad
ottenere condizioni di maggior favore nella produzione e commercializzazione delle merci agricole,
senza
il minimo accenno ai problemi sociali del mondo contadino. Con un simile patrocinio, non poteva essere
diversamente. Un poco più strano, almeno in apparenza, può sembrare il fatto che
un'associazione potente come la
Coldiretti, ben rappresentata in Parlamento dai numerosi deputati eletti coi voti dei suoi aderenti,
solidamente ammanigliati ai centri di potere e di sottogoverno, parte integrante essa stessa, ai suoi
vertici, della classe dirigente del paese, debba ricorrere, per farsi ascoltare, ai cortei di piazza, come un
qualunque gruppuscolo. Ma è chiaro che non è questo lo scopo delle manifestazioni di
rustico dissenso.
Al contrario, è più probabile che esse siano state approntate per tenere i coltivatori
diretti legati al
carrozzone, per convincerli che, nonostante i disinganni e le fregature, papà Bonomi e mamma
DC ne
hanno a cuore le sorti. È probabile cioè che debbano servire più agli agricoltori
che vi partecipano, per
tranquillizzarli, che non al governo di cui sollecitano l'intervento. Il che, tra l'altro, ben si accorda con
la gestione bonomiana dell'associazione, oscurantista, paternalista, demagogica. Nell'attuale
situazione economica e politica, il coltivatore diretto si trova in posizione di netto
svantaggio, nei confronti delle altre forze sociali che partecipano alla produzione nazionale, e con lui
tutto il settore agricolo. Tale posizione non sembra destinata a modificarsi, almeno in Italia e in un
prossimo futuro. L'affermazione può apparire insensata, a quanti vedono nella proprietà
privata (o nella
funzione imprenditoriale) l'unica fonte del privilegio. Ma in agricoltura le cose non sono così
semplici,
come cercheremo di spiegare qui appresso.
il feudo di Bonomi
Per legge, è considerato coltivatore diretto chi fornisce, col suo lavoro e dei suoi familiari,
almeno un
terzo della manodopera necessaria alla conduzione dell'azienda. Questo fa sì che nella categoria
finiscano
per rientrare, in un modo o nell'altro, anche grandi proprietari-capitalisti, sfruttatori del lavoro salariale,
desiderosi di usufruire delle facilitazioni creditizie e fiscali concesse ai piccoli agricoltori. Ciò
non toglie,
però, che la maggioranza dei coltivatori diretti siano veri coltivatori
diretti, che apportano da soli
nell'economia aziendale tutto (o quasi) il lavoro manuale necessario. Basta dare un'occhiata alle
statistiche sulle dimensioni medie delle aziende agricole italiane, per convincersene. Essi sono la spina
dorsale dell'agricoltura del nostro paese, rappresentando (con i coadiuvanti familiari) quasi i due terzi
del numero totale di addetti, il doppio dei salariati. È gente che curva la schiena
e si sporca le mani, e
considerarli sfruttatori solo perché posseggono un pezzo di terra è pura follia. Se
sfruttatori sono, lo
sono di se stessi. Anche quando hanno alle proprie dipendenze uno o due salariati (mai molti di
più), ne
condividono la fatica con un reddito globale simile, o di poco superiore. Il fatto, poi, che siano
remunerati in termini di profitto (cioè differenza tra ricavi e costo di produzione) è una
cinica invenzione
di economisti di città: il profitto esiste solo se si considera sottoretribuita (o addirittura,
non retribuita)
l'attività manuale svolta. Il che prende l'aspetto, in concreto, di un vero e proprio sfruttamento
del
lavoro.
agricoltura sfruttata
L'idea che i coltivatori diretti siano una categoria di sfruttati, trova maggior conforto se prendiamo
in
considerazione la storia, per così dire, della loro formazione. Essi non sono sempre esistiti,
almeno nelle
proporzioni attuali. Al contrario, la nascita della piccola proprietà coltivatrice, come struttura
portante
della nostra economia agricola, è un fenomeno relativamente recente, che risale soprattutto al
periodo
immediatamente successivo alla seconda guerra mondiale. Inoltre, non è stato un fenomeno
"spontaneo",
ma la conseguenza di una volontà politica cosciente e consapevole. Tutta la politica agricola
della classe
dirigente italiana, dal '45 in poi, è stata diretta a stimolare con ogni mezzo la formazione della
piccola
proprietà, tramite le riforme fondiarie, i "piani verdi", le agevolazioni fiscali, ecc. Anche l'ultima
legislazione sull'affitto rustico, che prevede la cessione dei terreni a canoni estremamente favorevoli per
i fittavoli, è da considerarsi nella medesima prospettiva, di stimolo alla conduzione diretta dei
fondi. Lo scopo di tutto ciò non è la creazione di una nuova classe di privilegiati,
ma lo sfruttamento
dell'agricoltura (e quindi dei suoi addetti) da parte di un paese in via di rapida industrializzazione. In
altri termini, per poter trasformare l'Italia in un paese industriale, uscendo nel contempo dalla crisi del
dopoguerra, la classe dirigente aveva bisogno di un'agricoltura che desse il massimo possibile, ma senza
chiedere nulla in cambio. Che desse il massimo, per assicurare al paese il nutrimento di cui aveva
bisogno. Che non chiedesse nulla, perché non fossero sottratte energie (umane e finanziarie)
all'industria
in via di sviluppo. L'agricoltura doveva, così, poggiare su di una struttura che garantisse questo
risultato.
Tale struttura è la piccola proprietà coltivatrice. Proprio perché proprietario,
proprio perché remunerato
dalla differenza tra incasso e spesa, il coltivatore diretto è portato a massimizzare l'impiego
dell'unico
fattore che non rappresenta per lui un vero esborso monetario: il proprio lavoro. Questo è il solo
mezzo
a sua disposizione per rendere "remunerativi" i prezzi a cui vende i prodotti, ma è anche il
meccanismo
che sancisce definitivamente la sua situazione di inferiorità e ne fa uno sfruttato. I prezzi infatti
non sono
liberi, ma imposti dalla città industriale che sui prodotti agricoli ha una specie di "monopolio
di
domanda", essendone l'unico acquirente. Ecco che al piccolo agricoltore la città può
chiedere qualunque
sacrificio: spinto dalla logica stessa della condizione in cui si trova, egli è costretto ad accettare
tutto,
prezzi irrisori, mafie commerciali, lavoro ingrato, pena la compromissione della sua sopravvivenza. Se
l'operaio dell'industria può almeno scioperare, per salvaguardare la sua, pur relativa, forza
contrattuale,
questo è negato al coltivatore diretto. Contro chi, infatti, sciopererebbe? La sua "controparte"
(la città
industriale) è talmente impersonale e indistinta da renderne difficile anche il riconoscimento
come
avversario.
la fuga all'indietro
Questa situazione, questo rapporto tra città e campagna, ha rappresentato la base su cui ha
potuto
poggiare il "boom" economico degli anni '50. Il decollo industriale del dopoguerra è stato
pagato con
il supersfruttamento dell'agricoltura e quest'ultimo, ripetiamo, è stato realizzato con l'istituzione
della
piccola proprietà coltivatrice. Si può notare, a tale proposito, che l'Italia non è
l'unico esempio di ciò.
Con poche sfumature di differenza, un'identica via all'industrializzazione è stata percorsa dagli
altri paesi
europei. Perfino nell'est "socialista" (Polonia, ad esempio) si è fatto ricorso alla privatizzazione
della
produzione rurale quando la scarsa meccanizzazione non consentiva all'agricoltura di fornire alla
città
il sostegno necessario per il suo sviluppo. Questa quasi illimitata "capacità di sacrificio" non
è l'unico vantaggio che l'industria estorce alla piccola
proprietà coltivatrice. Un altro, e di importanza non indifferente, è rappresentato
dall'atteggiamento
psicologico che i coltivatori diretti tendono ad assumere, come conseguenza della situazione in cui si
trovano ad agire. L'incapacità a identificare con precisione i responsabili del proprio
sfruttamento,
l'illusione della "libertà" connessa col possesso della terra, l'isolamento quotidiano e il regime
di relativa
concorrenza vigente tra gli appartenenti alla categoria, contribuiscono a formare una struttura
caratteriale tendenzialmente reazionaria, poco inclini ai sentimenti di solidarietà rivoluzionaria,
diffidente
del nuovo e attaccata alla tradizione, facile terreno, come tale, per l'attecchimento di ideologie
conservatrici. Molti, specie tra gli anziani, ricordano con nostalgia i tempi del fascismo. La mitologia
dell'Italia "rurale" di quell'epoca, la considerazione che il regime ostentava per l'agricoltura, il fatto
stesso
di venire inquadrati ogni settimana per "giocare ai soldati" in camicia nera, dava loro l'impressione di
essere parte integrante, seppur passiva, della vita del Paese. Oggi, al contrario, se ne sentono esclusi,
e
non fa differenza che lo sfruttamento sia sempre lo stesso, sotto il duce come sotto Rumor. Su
questa mescolanza di rancori e miopie, paura e rassegnazione, si è solidamente impiantata la
Coldiretti, selezionando con cura tutti gli aspetti più retrivi della psicologia contadina,
coltivandone ora
alla rabbia ora lo spirito gregario, per far leva, di volta in volta, su quello più conveniente in ogni
contesto. Così, è arrivata a controllare la stragrande maggioranza dei coltivatori. A
ciò, ha contribuito
il quasi totale disinteresse della sinistra istituzionale per tutta la categoria, o, se preferite,
l'incapacità di
elaborare strategie ed obiettivi veramente originali, alternativi a quelli democristiani. La Alleanza
Contadina (comunista) e la U.C.I. (socialista) raggruppano sì e no un venti per cento dei
coltivatori
organizzati, e le rivendicazioni che portano avanti sono sostanzialmente simili a quelle corporative della
Coldiretti. Con simili tutori, è chiaro che il processo di maturazione politica degli sfruttati del
mondo
rurale non potrà essere che estremamente lento e difficoltoso.
la rivoluzione nelle campagne
Il problema riveste una notevole importanza. Contrariamente a quanto molti pensano, specie tra i
marxisti "ortodossi" dell'area extraparlamentare, i coltivatori diretti non sono destinati a scomparire,
sostituiti dai salariati di grosse aziende capitalistiche. Anche se questa prospettiva piace ai cultori del
"socialismo scientifico", non sembra destinata ad avverarsi. È probabile invece che, pur
nell'ambito di
aziende di maggiori dimensioni, coltivate con l'aiuto di macchine progredite, la famiglia coltivatrice
continui anche in futuro a svolgere il suo ruolo di base dell'economia agricola. Tale almeno
è la
situazione cui sono pervenuti Paesi più avanzati del nostro sulla via dell'industrializzazione, nei
quali i
coltivatori diretti non sono scomparsi e non mostrano alcuna tendenza a scomparire. Perfino nelle
gigantesche e meccanizzatissime aziende degli U.S.A., la figura chiave è tuttora quella del
coltivatore
diretto. Tutto ciò significa che è illusorio sperare in una proletarizzazione dei
lavoratori agricoli e quindi in un
loro allineamento, come psicologia e problematica, con gli operai dell'industria. Le strategie
rivoluzionarie che non tengono conto di questo, sono destinate al fallimento e all'inefficienza. Nello
stesso tempo, il riconoscimento dei piccoli agricoltori come veri sfruttati della campagna (accanto,
ovviamente, ai salariati) comporta l'obbligo per qualunque libertario, di prenderli in considerazione e
considerare anch'essi come propri interlocutori, una volta che si siano liberati dal peso di ideologie e
atteggiamenti che non rappresentano il loro interesse. Purtroppo, oltre agli ostacoli oggettivi alla
penetrazione della propaganda libertaria fra i coltivatori diretti, rappresentati dal monopolio delle loro
teste esercitato dall'on. Bonomi, c'è il fatto che manca, oggi, fra gli anarchici, una strategia
coerente di
intervento nelle campagne. Il problema dunque, resta aperto. Nella sua notevole difficoltà,
costituisce
un appello a tutti i compagni, a tutti i militanti, perché ciascuno dia il suo contributo. La
rivoluzione deve
essere preparata anche nelle campagne.
R. Brosio
|