Rivista Anarchica Online
Dibattito sul teatro
Cara Cristina, ho letto con piacere il tuo lungo intervento sul numero 238 di "A",
Lasciate che il vento soffi. Così mi
è venuta l'idea di mandarti queste paginette, che non hanno certo la pretesa di essere una risposta: la tua
è un'analisi approfondita su parecchi fronti dello Stato Generale del teatro in Italia, i miei sono
pensierucoli suscitati dalla lettura delle tue riflessioni, pensierucoli terra terra, senza un filo logico che
li metta insieme, così: ideuzze, dubbietti a casaccio stimolati dal tuo pezzo. Mi piace molto l'inizio
- l'inizio è sempre un po' la cosa che dà o toglie senso a quello che segue -
quando ricordi che il centro è la materia dell'arte, quindi nel nostro caso il centro è il teatro, e che
il suo
elemento fondante non si limita alla ricerca artistica, ma è la fusione di questa con la sua dimensione
relazionale, produttiva, ecc. Forse proprio per questo, forse perché questo insieme di materie che vanno
a formare un'unica materia d'arte è così complesso, credo che non sarò mai in grado di
"interrogarmi"
su come deve essere un teatro per potersi definire oggi vivente - posso "fare", questo sì, anzi
ne ho
l'assoluta necessità, e dal risultato di questo "fare" aggiungo consapevolezza a quella, spero, già
acquisita. Ma non so davvero se possa esistere il pensare il teatro in astratto, il "pensare insieme" a una
sua possibile destinazione, perlomeno io non ne sono capace. Primo perché è nell'agire la scena
in tutti
i suoi aspetti, dalla creazione artistica alle più becere beghe SIAE, che trovo un senso che a me sembra
il famoso Teatro; secondo perché, come giustamente rimarchi tu stessa, a furia di convention, tavole
rotonde, dibattiti e quant'altro, il risultato troppo spesso è che giustamente c'è chi si alza in platea
e
domanda "Ma scusate - noi chi?". Non credo alle assemblee (delle quali sono tra l'altro un
assiduo frequentatore, nella speranza mai
coronata di essere smentito), ai "discorsi" - possono essere utili per parlare di Shakespeare, o che so io
della "Evoluzione dell'uso del corpo nel teatro", ma per realizzare un cambiamento credo ogni giorno
di più, grazie all'esperienza maturata con la Tribù a cui appartengo, che la cosa davvero
indispensabile
sia "fare". Tu chiedi al teatro italiano di interrogarsi e io subito penso alla scena, non a un tavolo con
della gente intorno: non lo faccio apposta, non è una volontaria scelta politica, parte dalla pancia, non
dal cervello. Forse dipende dalla natura biologicamente anarchica del teatro stesso, non so... E' molto bello
il paragone che fai delle piante che non mettono radici nel terreno esistente, ma nell'aria.
Mi sembra che siamo a un punto in cui questo insieme di piante abbia sostituito l'aria con la creazione
di una diversa "terra", costruendo un terreno "altro" su cui vivere. Non credo che sia questo che fa
perdere la spinta utopica ai teatranti, anche se è vero che accade che la serenità economica
rimbecillisca.
Ma il problema non sta nel rapporto sempre più stretto con le istituzioni. E' vero, lo stato e i suoi
derivati tendono, per loro natura, a normare, ad appiattire tutto ciò che comunemente a norme e
piattezza sfugge. Credo sia la cosa più tristemente normale del mondo. E' vero che le regole vengono
create per imporre un'estetica, per snaturare il potenziale rivoluzionario del teatro - non pretenderemo
davvero che lo STATO in quanto tale lavori in realtà per la propria dissoluzione... Ma a volte si riesce
a rivoltare la frittata. Quando citi il nuovo disegno di legge Veltroni capisco bene cosa intendi quando
definisci negativi i
termini "progetto", "stabilità". Ma da un altro punto di vista io mi ci ritrovo: il Cada Die Teatro è
un
"progetto", non nel senso che tempo fa, o di recente che sia, ci siamo messi a tavolino a scrivere cosa
vogliamo essere, ma nel senso che il nostro quotidiano "agire" in questi quindici anni ha dato vita a un
"progetto teatrale vivente". E lo stesso vale per altri fratelli a cui questa giornaliera "azione" ci
accomuna a Asti, Padova, Ravenna...il "fare" ha inventato una sorta di "progettualità estemporanea".
Riuscire a fare in modo che uno stato inserisca tutto questo in una legge, riconoscendo in una normativa
ciò che normato non potrà mai essere, mi sembra lo scherzo più bello del mondo, quasi
quanto far
rientrare nella loro "stabilità" un radicamento frutto di un lavoro basato sul continuo movimento: nei
territori, nei piccoli centri, con gli spettacoli, i laboratori, i festival e le rassegne extra-mercato, le
occupazioni di spazi, il lavoro nelle carceri, nelle scuole, nei quartieri più infami delle città...sono
i loro
concetti a modificarsi in base al teatro, in parecchi casi. Poi è evidente che in tutto questo il rischio
di venire fagocitati è elevatissimo, e non sta a me stabilire
quante e quali siano le vittime. Sono però sicuro che chi ha deciso di fare di questa scelta di vita un
mestiere, parola per me nobilissima, che non ha nulla a che vedere con la mercificazione del proprio
tempo lavorativo, e non un hobby o comunque un qualcosa che gratifica ma non è necessità
quotidiana
anche materiale, questo rischio lo deve assolutamente correre e sarà il tempo a dire con quali
risultati. Io, citando un altro tuo esempio, son ben contento che Judith Malina abbia continuato ad accogliere
i
senzatetto di New York nel suo spazio la notte, ma credo che qui la differenza non la faccia una diversa
intensità dell'utopia che da noi si vive, ma forse il retaggio culturale. In Italia i teatri, gli spazi teatrali
conquistati con sangue sudore e lacrime dagli anni '60 in poi, sono luoghi in qualche modo "sacri" - non
importa siano essi La Scala di Milano o un garage di Cagliari, il luogo dove io tutti i giorni provo e
costruisco un pensiero scenico, una visione della vita, è un luogo di pratica e riflessione profonda, serve
a quello. I senzatetto o chi per loro non sono certo distanti dai miei pensieri (nel concreto penso
all'esperienza di Pippo Delbono con i barboni, tanto per dirne una, o ai senegalesi assunti anni fa a pari
stipendio dal Teatro delle Albe, ai carcerati dati in affidamento perché assunti come tecnici o attori delle
compagnie, ecc), ma in teatro, se non ha una funzione, non ci entra neanche mia madre. Poi magari
Judith Malina firma tranquillamente un contratto con l'istituzione privata americana per eccellenza, e
fa la parte della nonna nella Famiglia Adams, filmone di cassetta holliwoodiana - in Italia cose del
genere sono un po' più rare nell'ambiente di quelle famose piante, per quanto diverse possano essere
tra loro. Bada bene che non sto assolutamente giudicando una donna di teatro (non me lo permetterei
mai, rispetto a lei resto e resterò sempre un mocciosetto) che si è conquistata duramente il rispetto
che
siamo in tanti a portarle - sto solo evidenziando una diversità di culture. Spesso, in questi anni di
lavoro in cui è stato necessario prendere decisioni non semplici, mi veniva
in mente un uomo. Qui in Sardegna, a Barrali, paesetto vicino a Cagliari, esiste da tanti anni una
comune anarchica. Il suo fondatore riceveva (è morto pochi anni fa) non so quanta corrispondenza al
giorno - metodicamente staccava i francobolli con il vapore e con una lametta divideva la parte sporcata
dal timbro postale da quella rimasta pulita. Quando doveva spedire a sua volta una lettera, cercava nel
suo vaso apposito due parti di francobollo che combaciassero (ne aveva ormai accumulati tanti che non
aveva nessuna difficoltà), le incollava sulla busta, e via. La "norma" non gli impediva certo di fare
arrivare le sue parole a chi gli era caro - la usava senza essere usato. Mi piace pensare al teatro così,
che riesce a camminare sulle sabbie mobili senza affondarci - magari
si sporca un po', ma d'altronde i santi non sono di questo mondo.
Alessandro Lay Cada Die Teatro (Cagliari)
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