Rivista Anarchica Online
A nous la libertè diario a cura di Felice Accame
In memoria di Coniglio Ruggero
Ora che i giornali, televisioni ed
echi di popolo plaudente cominciano a tacere, ora che il celere oblio
dell'attuale mondanità sta per appiattirlo nel magazzino delle
meraviglie che furono, posso dirvi che Roger Rabbit - il gran
film di Natale e dintorni - lo sono andato a vedere anch'io. Ci sono
andato e ne ho ricavato una noia mortale, un'afflizione che sommata
alle altre riservatemi dalle festività avrei preferito
evitare.
Mi sono annoiato, quando non
innervosito - ho anche un po' di vergogna a dirlo, fra gli osanna di
critica e pubblico (osanna, peraltro, l'uno scaturito dall'altro,
come sempre quando tanta coscienza è mossa da tanto quattrino)
- e qui di seguito cercherò di rendervene conto.
So benissimo, sia chiaro, che Roger
Rabbit è probabilmente il più alto esempio di
raffinatezza tecnologica in fatto di cinema di animazione; so
benissimo dei tanti miliardi investiti e di quanta pazienza
neoartigianale questo R.R. sia figlio; e so anche benissimo come
l'accoppiata Spielberg-Zemeckis, produttore e regista sia (spesso e
non sempre) garanzia di spettacolarità e intelligenza. Ho
colto, di sequenza in sequenza, la miriade di citazioni argutamente
allusive ai film che hanno fatto storia; non mi è sfuggita
neppure la benemerita morale di cui lo sviluppo narrativo si fa
portatore: morale che attribuirebbe al riso virtù salvifica in
una società malata di tetraggine (come se il tetro non ne
avesse ben donde) e morale che, in quanto accomunante oggidì
un arco costituzionale che va da Eco a Banfi (Lino), ho più
che in sospetto. Ma, nonostante tutto ciò, non mi sono
divertito e mi sono, invece, annoiato a morte. O meglio, non è
del tutto vero quello che ho detto: mi sono invece divertito
moltissimo nei primi cinque minuti di film, quelli dedicati ad un
cartone animato, un cartone animato puro, tradizionale, tutto e solo
cartoons, assolutamente esilarante, delizioso. Poi, come il cartoon
lascia il posto all'ibrido, alla coesistenza narrativa e
rappresentativa di cartoons ed umanità, prima addio curiosità,
poi addio divertimento: in me è subentrata noia e
mortificazione.
Perché.
Una prima spiegazione potrebbe essere
tentata così: ogni qualvolta le soluzioni tecnologiche
raggiungono tali livelli da sotterrare in secondo piano l'elemento
narrativo, ecco che la durata normale da film diventa pleonastica,
stancante. Come certi film con troppi effetti speciali ed una realtà
narrativa qualsiasi, subordinata in partenza, al di là di
certi interessi "professionali", dopo il primo impatto, il
nostro interesse di spettatori "normali" diminuisce.
Come spiegazione, questa, mi accontenta
soltanto parzialmente, perché toccando a noi costituirci
qualcosa in termini di struttura narrativa ed essendo noi in ciò
liberissimi di farlo con checchessia, rimarrebbe da spiegare perché
laddove c'è abbondanza di tecnologia dell'immagine ciò
non riesce con facilità, o perlomeno con la facilità consueta.
Una risposta più esauriente va
trovata a monte. Perché una narrazione funzioni, mi chiedo,
cosa dev'essere rispettato?
Innanzitutto una cosa, mi rispondo:
perché una narrazione funzioni occorre che fra chi narra e chi
ascolta siano condivise delle regole, le regole cui devono sottostare
gli eventi di quella narrazione. Badate bene: la sorpresa non solo è
sempre possibile, la sorpresa è necessaria, ma per essere
davvero sorpresa occorre ch'essa scaturisca dall'universo di
possibilità che, almeno implicitamente, siano date dal
narratore anche a chi ascolta. Io spettatore, insomma, per divertirmi
devo co-partecipare della logica interna della narrazione cui
assisto; devo co-partecipare dell'universo del discorso prescelto da
colui che narra per me.
Superman, per esempio, mi diverte
perché so cosa può fare e cosa non può fare; ma
non mi divertirebbe più se ad ogni sua avventura esercitasse
una sua nuova facoltà, escogitata ad hoc per risolvere il caso
di turno.
Roger Rabbit dunque -
contraddicendo ogni qualvolta gli pare le regole spaziali o
addirittura smentendo il principio d'identità che confina gli
umani con gli umani ed i cartoni animati con i cartoni animati -
stanca la mia attenzione perché troppo presto mi fa capire che
l'universo di cui narra non lo condivide con me: se lo tiene per sé
onde arrangiare lo sviluppo della vicenda come meglio gli aggrada.
Come spettatore volonterosamente attivo, mi esclude.
Ecco perché mi sono divertito
solo durante il cartone animato iniziale - ove le regole di sviluppo,
per quanto trasgressive della narrativa realistica, erano quelle dei
cartoni animati del suo genere -, ed ecco perché, dopo, mi
sono annoiato a morte.
Un motivo, allora, c'è. È
un motivo tutto mio, beninteso: non ho alcuna intenzione di affermare
che valga per tutti. Il divertimento è una categoria
ideologica come un'altra, sulla quale, inutile nasconderlo, pesa quel
tanto di tipologico che contrassegna gli atteggiamenti di ciascuno di
noi. Se davvero c'è, dunque, non voglio togliere il
divertimento a nessuno. Vorrei lasciare in pace coloro che R.R. se lo
sono goduto e, tutt'al più, confortare con un argomento coloro
che R.R. l'hanno faticosamente subito.
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