Rivista Anarchica Online

rivista anarchica
anno 27 nr. 239
ottobre 1997


Rivista Anarchica Online

Dibattito sul teatro

Cara Cristina,
ho letto con piacere il tuo lungo intervento sul numero 238 di "A", Lasciate che il vento soffi. Così mi è venuta l'idea di mandarti queste paginette, che non hanno certo la pretesa di essere una risposta: la tua è un'analisi approfondita su parecchi fronti dello Stato Generale del teatro in Italia, i miei sono pensierucoli suscitati dalla lettura delle tue riflessioni, pensierucoli terra terra, senza un filo logico che li metta insieme, così: ideuzze, dubbietti a casaccio stimolati dal tuo pezzo.
Mi piace molto l'inizio - l'inizio è sempre un po' la cosa che dà o toglie senso a quello che segue - quando ricordi che il centro è la materia dell'arte, quindi nel nostro caso il centro è il teatro, e che il suo elemento fondante non si limita alla ricerca artistica, ma è la fusione di questa con la sua dimensione relazionale, produttiva, ecc. Forse proprio per questo, forse perché questo insieme di materie che vanno a formare un'unica materia d'arte è così complesso, credo che non sarò mai in grado di "interrogarmi" su come deve essere un teatro per potersi definire oggi vivente - posso "fare", questo sì, anzi ne ho l'assoluta necessità, e dal risultato di questo "fare" aggiungo consapevolezza a quella, spero, già acquisita. Ma non so davvero se possa esistere il pensare il teatro in astratto, il "pensare insieme" a una sua possibile destinazione, perlomeno io non ne sono capace. Primo perché è nell'agire la scena in tutti i suoi aspetti, dalla creazione artistica alle più becere beghe SIAE, che trovo un senso che a me sembra il famoso Teatro; secondo perché, come giustamente rimarchi tu stessa, a furia di convention, tavole rotonde, dibattiti e quant'altro, il risultato troppo spesso è che giustamente c'è chi si alza in platea e domanda "Ma scusate - noi chi?".
Non credo alle assemblee (delle quali sono tra l'altro un assiduo frequentatore, nella speranza mai coronata di essere smentito), ai "discorsi" - possono essere utili per parlare di Shakespeare, o che so io della "Evoluzione dell'uso del corpo nel teatro", ma per realizzare un cambiamento credo ogni giorno di più, grazie all'esperienza maturata con la Tribù a cui appartengo, che la cosa davvero indispensabile sia "fare". Tu chiedi al teatro italiano di interrogarsi e io subito penso alla scena, non a un tavolo con della gente intorno: non lo faccio apposta, non è una volontaria scelta politica, parte dalla pancia, non dal cervello. Forse dipende dalla natura biologicamente anarchica del teatro stesso, non so...
E' molto bello il paragone che fai delle piante che non mettono radici nel terreno esistente, ma nell'aria. Mi sembra che siamo a un punto in cui questo insieme di piante abbia sostituito l'aria con la creazione di una diversa "terra", costruendo un terreno "altro" su cui vivere. Non credo che sia questo che fa perdere la spinta utopica ai teatranti, anche se è vero che accade che la serenità economica rimbecillisca. Ma il problema non sta nel rapporto sempre più stretto con le istituzioni. E' vero, lo stato e i suoi derivati tendono, per loro natura, a normare, ad appiattire tutto ciò che comunemente a norme e piattezza sfugge. Credo sia la cosa più tristemente normale del mondo. E' vero che le regole vengono create per imporre un'estetica, per snaturare il potenziale rivoluzionario del teatro - non pretenderemo davvero che lo STATO in quanto tale lavori in realtà per la propria dissoluzione...
Ma a volte si riesce a rivoltare la frittata.
Quando citi il nuovo disegno di legge Veltroni capisco bene cosa intendi quando definisci negativi i termini "progetto", "stabilità". Ma da un altro punto di vista io mi ci ritrovo: il Cada Die Teatro è un "progetto", non nel senso che tempo fa, o di recente che sia, ci siamo messi a tavolino a scrivere cosa vogliamo essere, ma nel senso che il nostro quotidiano "agire" in questi quindici anni ha dato vita a un "progetto teatrale vivente". E lo stesso vale per altri fratelli a cui questa giornaliera "azione" ci accomuna a Asti, Padova, Ravenna...il "fare" ha inventato una sorta di "progettualità estemporanea". Riuscire a fare in modo che uno stato inserisca tutto questo in una legge, riconoscendo in una normativa ciò che normato non potrà mai essere, mi sembra lo scherzo più bello del mondo, quasi quanto far rientrare nella loro "stabilità" un radicamento frutto di un lavoro basato sul continuo movimento: nei territori, nei piccoli centri, con gli spettacoli, i laboratori, i festival e le rassegne extra-mercato, le occupazioni di spazi, il lavoro nelle carceri, nelle scuole, nei quartieri più infami delle città...sono i loro concetti a modificarsi in base al teatro, in parecchi casi.
Poi è evidente che in tutto questo il rischio di venire fagocitati è elevatissimo, e non sta a me stabilire quante e quali siano le vittime. Sono però sicuro che chi ha deciso di fare di questa scelta di vita un mestiere, parola per me nobilissima, che non ha nulla a che vedere con la mercificazione del proprio tempo lavorativo, e non un hobby o comunque un qualcosa che gratifica ma non è necessità quotidiana anche materiale, questo rischio lo deve assolutamente correre e sarà il tempo a dire con quali risultati.
Io, citando un altro tuo esempio, son ben contento che Judith Malina abbia continuato ad accogliere i senzatetto di New York nel suo spazio la notte, ma credo che qui la differenza non la faccia una diversa intensità dell'utopia che da noi si vive, ma forse il retaggio culturale. In Italia i teatri, gli spazi teatrali conquistati con sangue sudore e lacrime dagli anni '60 in poi, sono luoghi in qualche modo "sacri" - non importa siano essi La Scala di Milano o un garage di Cagliari, il luogo dove io tutti i giorni provo e costruisco un pensiero scenico, una visione della vita, è un luogo di pratica e riflessione profonda, serve a quello. I senzatetto o chi per loro non sono certo distanti dai miei pensieri (nel concreto penso all'esperienza di Pippo Delbono con i barboni, tanto per dirne una, o ai senegalesi assunti anni fa a pari stipendio dal Teatro delle Albe, ai carcerati dati in affidamento perché assunti come tecnici o attori delle compagnie, ecc), ma in teatro, se non ha una funzione, non ci entra neanche mia madre. Poi magari Judith Malina firma tranquillamente un contratto con l'istituzione privata americana per eccellenza, e fa la parte della nonna nella Famiglia Adams, filmone di cassetta holliwoodiana - in Italia cose del genere sono un po' più rare nell'ambiente di quelle famose piante, per quanto diverse possano essere tra loro. Bada bene che non sto assolutamente giudicando una donna di teatro (non me lo permetterei mai, rispetto a lei resto e resterò sempre un mocciosetto) che si è conquistata duramente il rispetto che siamo in tanti a portarle - sto solo evidenziando una diversità di culture.
Spesso, in questi anni di lavoro in cui è stato necessario prendere decisioni non semplici, mi veniva in mente un uomo. Qui in Sardegna, a Barrali, paesetto vicino a Cagliari, esiste da tanti anni una comune anarchica. Il suo fondatore riceveva (è morto pochi anni fa) non so quanta corrispondenza al giorno - metodicamente staccava i francobolli con il vapore e con una lametta divideva la parte sporcata dal timbro postale da quella rimasta pulita. Quando doveva spedire a sua volta una lettera, cercava nel suo vaso apposito due parti di francobollo che combaciassero (ne aveva ormai accumulati tanti che non aveva nessuna difficoltà), le incollava sulla busta, e via. La "norma" non gli impediva certo di fare arrivare le sue parole a chi gli era caro - la usava senza essere usato.
Mi piace pensare al teatro così, che riesce a camminare sulle sabbie mobili senza affondarci - magari si sporca un po', ma d'altronde i santi non sono di questo mondo.

Alessandro Lay
Cada Die Teatro (Cagliari)