rivista anarchica
anno 49 n. 436
estate 2019





Marche/
Epopea operaia di una lotta vincente

È uscito a marzo un libro bello, intenso e coraggioso, che fa rivivere un'epopea operaia lunga quasi vent'anni, dalla fine degli anni '70 alla metà dei '90 del Novecento. Il libro è La Simeide. Una lotta vincente di Tullio Bugari (Seri Editore, Macerata 2019, pp. 353, € 15,00).
Quello che scorre nelle pagine, in una cronaca incalzante narrata con sapienza, è un protagonista corale: operai in assemblee e cortei, delegati e sindacalisti nei Consigli di Fabbrica e di Zona, padroni che fuggono e altri che ci credono, sindaci e politici e partiti in consigli comunali e a facilitare trattative, studenti che si mobilitano e cittadini che applaudono gli operai in lotta.
La fabbrica è la SIMA di Jesi nelle Marche, coi suoi 700 operai che la salveranno insieme con gran parte dei posti di lavoro. Operaio tra gli operai c'è Cesare Tittarelli, anarchico, delegato nel CdF, in prima fila nella lunga lotta, fuori dalla lista dei riassunti. È una storia lontana, che parla però forte al presente.
Parla al presente per la memoria di persone che non devono essere dimenticate, e di vicende che non devono andare perdute. Parla al presente per la qualità della democrazia in cui viviamo, così incerta oggi da dovere saper attingere a esperienze di così grande partecipazione: di persone, comunità, soggetti collettivi politici, sindacali, sociali. Parla al presente anche per l'affidabilità delle fonti: cronache d'epoca, ricerche, archivi personali, memorie orali; per “raccontare dal punto di vista operaio”, scrive l'autore; ma anche – guardando alla contemporaneità – per riaffermare il valore delle fonti storiche contro la dittatura della post-verità, di un'autoreferenzialità per cui ogni opinione è vera e ogni fatto vale quanto un altro, in una sorta di inversione di valore di quella democrazia diretta che Cesare Tittarelli e gli operai della SIMA hanno saputo praticare.
Di fronte a un'impasse nella trattativa “la reazione degli operai è immediata [...] escono dallo stabilimento di Roncaglia e vanno a bloccare la ferrovia [...]: c'è chi [Cesare] si incarica di intralciare i binari ed esce dallo stabilimento con un muletto, si arrampica sulla scarpata, prosegue per alcune centinaia di metri in direzione di Jesi seguito dagli operai come in una specie di corteo, e poi lo lascia in mezzo ai binari, estrae le chiavi e le scaglia lontano in mezzo all'erba alta della campagna, gridando: Voglio vedere chi lo toglie!”
Dentro il vivo d'un racconto in presa diretta, ecco un primo dilemma: trattativa e lotta, responsabilità e radicalità; perché il “senso di responsabilità [...] si costruisce ogni giorno, e occorre ogni volta riguadagnarselo tra le tante discussioni interne, con opposti punti di vista, ma pronti a ricomporsi”, anche ricorrendo ad azioni aspre: “Il blocco si prolungava e la polizia aveva cominciato a prepararsi per sgomberare i binari con la forza [...] Poi arriva dalla direzione opposta un altro treno [...] e allora gli operai indietreggiano [...] arrivano in fondo, dove ai lati della ferrovia appare la città e c'è il passaggio a livello, chiuso [...] È mezzogiorno, molti operai di fabbriche e officine vicine stanno tornando dal lavoro e sono fermi lì [...] e dai balconi e dalle finestre la gente si sta affacciando [...] e inizia a battere le mani agli operai. Dirigenti della polizia e delegati del CdF parlamentano di nuovo, alla fine si accordano, prima smobilitano i poliziotti e dopo cinque minuti si impegnano a farlo anche gli operai. Ma dopo.”
Quelli erano anni in cui partiti, istituzioni, eletti avevano spesso un rapporto reale con la base, e forti erano anche le spinte dal basso, esperienze di autonomia e autogestione. “Il Consiglio Comunale all'unanimità esprime parere favorevole alla trattativa”; la strategia operaia “non poteva avere confini aziendali ma doveva anche ricercare all'esterno l'unità necessaria [...] su proposta del CdF si costituisce un Comitato interpartitico a cui aderiscono Pci, Dc, Pri, Psdi, Pdup e Amministrazione comunale.”
Ma ecco, da contrappunto, l'operaio comunista Giordano Mancinelli che puntualizza con orgoglio: “Le iniziative erano sempre le nostre, le lotte, le assemblee, i blocchi sulla strada statale, e anche quando andammo a Roncaglia ad aprire la manopola del gas, perché ci avevano interrotto la fornitura, e ci prendemmo la denuncia, mica chiedemmo prima ai sindacati o ad altri, decidemmo da soli di andare.” E “se c'era uno che spingeva continuamente, e diede un contributo fondamentale, era proprio Cesare Tittarelli”.
Ecco un secondo dilemma che il libro ci squaderna continuamente davanti, tra democrazia diretta e delegata, che la realtà d'allora e di oggi pone con evidenza come questione permanente.
Quella vertenza ebbe un esito innegabilmente positivo. Eppure l'autore sente di doverlo ribadire nelle ultime righe del libro, quasi ad esorcizzare contraddizioni e limiti, su cui ancora una volta è Cesare Tittarelli, il libertario, a riflettere; lui che, non riassunto dalla sua fabbrica e costretto a trovarsi un lavoro diverso, guida fino all'ultimo il comitato dei “cento operai senza fabbrica” che – dice – “si sono dovuti arrangiare: chi consegna pacchi, chi fa l'ambulante, chi è rientrato in fabbrica ma con profili di basso livello. Altri si sono persi di vista [...] Purtroppo, anche oggi che il Comitato chiude per missione compiuta, non me la sento di cantare vittoria.”
Ecco un terzo dilemma che il libro non può certo risolvere, e che si presenta anch'esso come parte di un'idea regolativa per una democrazia più vera, quello tra inclusione e esclusione, integrità e compromesso.
Cesare Tittarelli era già stato l'anima operaia e sindacale dell'Organizzazione Anarchica Marchigiana che con Tullio, giovani studenti nei primi anni '70, abbiamo condiviso. Cesare ci ha lasciato da un po' d'anni. Non c'è alcuno che, avendolo frequentato, non gli abbia riconosciuto intelligenza, passione, dedizione.
Tullio Bugari lo fa qui con discrezione, dentro il protagonismo collettivo di una lunga vertenza operaia, magistralmente narrata come epopea di un'intera comunità.

Massimo Lanzavecchia



Cultura proletaria o bolscevica?/
La rivoluzione parte da noi

“Più lo frequentava e più si rendeva conto che il limite di Gor'kij non era la scarsa attitudine per la filosofia. Il suo vero problema era non saper decidere tra due innamoramenti: da un lato sé stesso, dall'altro la società. Quando la voce interiore gli sussurrava “io, io, io” subito si sentiva colpevole per non aver pensato “noi, noi, noi”. Allora, per dimostrarsi all'altezza del suo ruolo intellettuale, scriveva un peana per l'Umanità, l'unico vero Dio che bisognava costruire e adorare insieme [...]. Il giorno seguente, però, l'idea di una simile fusione lo preoccupava, perché lo avrebbe privato dell'ammirazione altrui [...]. Alto sul piedistallo, gridava “noi” con tutto il fiato, ma il suo era soltanto un plurale maiestatis”.
Questo breve paragrafo, che nulla rivela della curiosa trama di questo romanzo, Proletkult (Wu Ming, Einaudi, Torino 2018, pp. 333, € 18,50), ne “spoilera” invece a mio giudizio le intenzioni.
In quella discrepanza – fondamentale eppure spesso così difficile da cogliere – tra il “noi” e il “plurale maiestatis” si annidano sogni e bisogni, ideologie e fallimenti, rivoluzioni e restaurazioni. E non solo nella storia di cui qui si tratta, quella del post-Grande-Rivoluzione-d'Ottobre; ma in quella di tante altre rivoluzioni, avvenute prima o dopo o mai.
Il Proletkult, l'Organizzazione Culturale-Educativa Proletaria, era stato fondato a Mosca poche settimane prima della Rivoluzione, dal critico marxista e intellettuale bolscevico, nonché scrittore di fantascienza, Aleksandr Bogdanov autore del famoso romanzo “Stella rossa”.
Nelle intenzioni del promotore, questa organizzazione avrebbe dovuto gettare le fondamenta per un'arte e una cultura profondamente proletarie, scevre da influenze e sfumature borghesi. Bogdanov credeva nella rivoluzione, della quale era stato convinto fautore; ma era al tempo stesso consapevole che la “rivoluzione agita” non sarebbe durata a lungo senza una base culturale costruita dal basso, a-gerarchica, solidale e cooperativa. L'emergere di una vera arte proletaria, creata dai proletari per i proletari, priva degli orpelli della cultura borghese, avrebbe gettato fondamenta sicure, sulle quali edificare concretamente il sogno del mondo giusto e uguale.
L'idea del Proletkult funzionò oltre le aspettative; in tutto il paese fiorirono istituti, scuole, laboratori e corsi, allo scopo non solo di insegnare ai lavoratori a leggere, ma anche di incoraggiarli a “produrre” vere e proprie opere teatrali, letterarie, poetiche.
A soli tre anni dalla sua fondazione il Proletkult vantava più iscritti di quanti ne aveva il Partito, cioè mezzo milione circa. E se il prodotto letterario/artistico di tanto fervore non sempre poteva definirsi degno di gloria imperitura, certamente colpisce l'energia creativa che così tante persone tirarono di colpo fuori dal cassetto dei desideri.
Il Proletkult non era controllato direttamente dal Partito, però era sovvenzionato dallo Stato; questa sorta di libertà condizionata, per quanto forse inevitabile in quel contesto, ne decretò ben presto la fine; osteggiato dai leninisti che esigevano la centralizzazione del potere negli apparati statali, fu presto inglobato nell'apparato burocratico dell'Unione Sovietica, per essere poi abolito da Lenin nel '23.
Il Dottor Bogdanov fu spedito a dirigere il centro trasfusionale di Mosca, dove il suo agognato collettivismo letterario dovette cambiare forma e trasformarsi in “collettivismo fisiologico” o “comunismo del sangue”, basato su pratiche trasfusionali. Bè, meglio di niente.
Fin qui i fatti e la storia. Dentro i quali e la quale, nel romanzo ambientato nel 1927, dunque dieci anni dopo la rivoluzione e con Lenin già imbalsamato, si infilano nientepopodimeno che... gli alieni. Nello specifico Denni, ragazza dall'aspetto androgino proveniente dal lontano pianeta Nacun. Dove il socialismo reale regna sovrano già da un bel po', comunque da abbastanza tempo per vederne con chiarezza tutti i limiti e dover correre altrove a cercar rimedi.
L'incontro tra Bogdanov e Denni – sul pianeta terra per rintracciare suo padre, Voloch, vecchio rivoluzionario amico di Bogdanov – dà il via a una serie di vicende condite di discussioni, confronti e racconti dai quali emerge un quadro credibile, a tratti ironico a tratti malinconico, dei protagonisti di quel pezzo di storia così importante per il destino dell'Europa e del mondo.
Il punto di vista della ragazza – ovviamente considerata un caso clinico, e come tale trattata – apre a Bogdanov prospettive insolite, lo costringe in qualche modo a rileggere passato e presente; lo conduce a un finale dove i “padri” si scambiano i ruoli perché “i figli sono di chi li cresce” o di chi per loro crea un pianeta dove possano crescere e vivere, se non nel modo perfetto, almeno nel modo più giusto possibile.
Romanzo storico, fantascientifico, di riflessione sociale e politica, nessuno di questi, di tutti un po'.
Il “socialismo agito” visto dal futuro, o da pianeti lontani, rivela tutti i suoi limiti.
Perché ahimè, quando i sogni si trasformano in vita reale, si traducono facilmente in privilegi, invidie, sospetti, punizioni.
Il potere accentrato taglia via la volontà di emancipazione, l'energia rivoluzionaria, il potenziale dei singoli moltiplicato dal collettivo. E i sogni finiscono per diventare di un triste colore molto simile al grigio.
Dalla Rivoluzione ai ministeri, il passo per alcuni non è così lungo; le barricate si tramutano in ricordi, i whisky di pregio in una comoda realtà. Gli ostinati, i sognatori, quelli che davvero ci credevano, vengono spostati, trasferiti, messi a fare altro; gli altri, gli improvvisamente ubbidienti, gestiscono poterini e miserie burocratiche, sono i Varenucha e i Nikanor Ivanovic di Bulgakov ne “il Maestro e Margherita”. E lì non bastano nemmeno gli alieni, deve scendere in terra il Diavolo in persona a risistemare qualche equilibrio.
Ammesso che esista la ricetta per una rivoluzione duratura, dobbiamo cercarla dentro di noi, prima che contro qualcun altro. O, meglio, le rivoluzioni esteriori devono corrispondere a quelle “dentro”. Nessuna rivoluzione sopravvive a lungo quando il “noi” è un plurale maiestatis; e nessuno di noi è del tutto immune a questa contraddizione.
Facile a dirsi, difficilissimo a farsi.
Forse dovranno davvero venire gli alieni, ad aiutarci a casa nostra.
O magari il diavolo, chissà.

Claudia Ceretto



Racconti/
La Calabria di ieri e di oggi

I racconti di Angelo Gaccione (L'incendio di Roccabruna, Di Felice Edizioni, Martinsicuro - Te 2019, pp. 120 € 12,00) sono ambientati in un paesino della Calabria al quale l'autore, originario di Acri (CS), ha dato un nome di fantasia, “Roccabruna”.
Al pari del più noto paesello siculo di “Vigata”, reso celebre dai racconti di Camilleri, i cittadini che lo abitano hanno caratteristiche varie, ricoprono ruoli diversi, appartengono a classi sociali molto distanti tra loro e quindi in contrasto fortissimo per interessi economici e opzioni culturali, politiche e sociali diverse.
Il libro contiene quindici racconti, storie estreme e truci (storie di briganti, di vendette, di soprusi, di follie, di ignoranza, di abusi e misfatti del potere, di fanatismi religiosi...), come scrive nella sua bella prefazione Vincenzo Consolo, che si consumano in un luogo abitato da gente dallo spirito vendicativo.
Nel racconto “Il Sacrilegio” si parla di Roccabruna come di un paese caratterizzato politicamente dalla presenza di circa 200 anarchici, “duecento teste calde che non aspettano altro. Nel disordine ci sguazzano come vermi nell'acqua marcia”, dove la vendetta viene vista come un dovere sociale, come il giusto epilogo di uno scatto di dignità, di una rivolta necessaria ritenuta, da un sottoproletariato perennemente umiliato, come “l'unico perdono possibile”.
Di queste vendette sono piene le cronache di fine Ottocento-inizi Novecento, consumate contro chi sparava e torturava la povera gente, sicuro di godere della stessa impunità che non fu accordata né al Re Vittorio Emanuele III, giustiziato da Gaetano Bresci e neppure al colonnello della Polizia di Buenos Aires, Ramòn Falcòn, fatto saltare in aria da Simon Radowitsky, solo per citare alcuni “gesti eroici” che, piacenti o nolenti, fanno comunque parte della storia del movimento anarchico internazionale.
Anche nella filmografia più recente vengono rappresentate storie in cui la rivolta singola e/o popolare si manifesta in modo violento. Basti ricordare i film Novecento di Bertolucci o V per Vendetta di James Mc Teigue, nei quali ritorna il tema del “giustiziere politico e sociale” che, con un sol gesto individuale, pensa di regalare il definitivo riscatto ad interi popoli. In ogni singolo racconto, Gaccione descrive con così grande accuratezza e precisione i protagonisti che sembra quasi di vederli: il loro temperamento, le delusioni, le umiliazioni che subiscono si riflettono tristemente sulle vite dei familiari, spesso donne umili e bimbi così piccoli da giustificare la rabbia che spinge il soggetto sfruttato alla ribellione.
In modo molto efficace, l'autore non si disperde nel riannodare i fili di una tirannia storica, che affligge la Calabria da migliaia di anni, ma utilizza singoli episodi, detti popolari e proverbi che più di ogni artificio letterario rendono chiarissimo il contenuto e lo spirito degli episodi di ribellione. Al tempo dei Borboni, anche in Calabria nacque il brigantaggio, fenomeno resistenziale durato oltre quindici anni, di cui l'autore fa cenno nel racconto dal titolo “La taglia”.
Il brigante Natale Cozza, protagonista di questo racconto, rivolgendosi ai cittadini avverte: “La ricchezza si è fondata sulla frode e sul delitto. Pensateci ogni qual volta vi chinate a riverire”. Una volta finito il dominio in Calabria, i Borboni furono sostituiti egregiamente, nel Novecento, da una borghesia creatasi, come affermava Corrado Alvaro, nell'ultima guerra con la “borsa nera”.
Una borghesia, ricordava Pier Paolo Pasolini, “arroccata su posizioni dolorosamente antidemocratiche, convenzionali, servili”.
Gaccione, nei suoi racconti intrisi di ingiustizie e dolori, constata l'amarezza della vita soprattutto nell'azione di uomini e donne che invece di prendere coscienza si dimenticano di essere stati servi e diventano a loro volta aguzzini. Nel racconto dal titolo “L'incendio di Roccabruna”, il padrone Vincenzo Baffi impone una cena a casa di Turi Corda, il fattore considerato da lui meno di uno schiavo. Durante il pranzo, il barone Baffi chiede a Corda “A chi appartieni tu?”. “A Voscienza” risponde l'uomo. E poi, non soddisfatto, continua a chiedere al fattore, sghignazzando, a chi appartenessero il casolare, la moglie, le scarpe, e i pensieri, e l'aria che respira, e gli uccelli, e l'acqua che vi scorre, ottenendo sempre la solita risposta ubbidiente: “A Voscienza”.
Alla fine, preso da un delirio di onnipotenza, il barone arriva all'obiettivo prefissato: “E Nerina?” (la figlia giovanissima e bella del fattore). “Nerina è sangue mio” risponde Tulli Corda con una dignità che nessuno si aspettava. Quella risposta gela l'aria, il viso di don Vincenzo diviene satanico e, più cattivo che mai, urla ai suoi sgherri con gli occhi venati di sangue... “Sgozzatelo!”
Quella descritta dall'autore è una parte importante della storia della Calabria di allora; quella di oggi, grazie a meccanismi e sistemi di potere sofisticati, a dinamiche meno evidenti, sottili e alquanto complesse è, per certi versi, ancora peggiore.

Angelo Pagliaro



Egitto/
Cosa resta della primavera

Sono passati ormai più di otto anni da quell'ondata di proteste e di rivendicazioni che ha attraversato gran parte del Nord Africa e del Medio Oriente e che oggi ricordiamo come “primavera araba”. In Egitto il 25 gennaio 2011 una folla di manifestanti si riversava per le strade del Cairo denunciando la corruzione dilagante e richiedendo le dimissioni di Hosni Mubarak, al potere ininterrottamente da un trentennio. Le immagini di Piazza Tahrir e di quelle migliaia di persone che la occuparono per giorni rimbalzavano in tutto il mondo e facevano da eco alle rivendicazioni dei manifestanti che invocavano libertà, democrazia e giustizia sociale. Dopo diciannove giorni Mubarak cadde, ma per l'Egitto non si è aperta quella fase di pluralismo e democrazia in cui molti avevano sperato.
L'egiziano 'Ala al-Aswani, dentista di professione nonché uno dei più apprezzati scrittori arabi contemporanei, ha preso parte alla rivolta e scritto diversi testi a riguardo; Sono corso verso il Nilo (Feltrinelli 2018, pp. 384 € 18,00) è uno di essi. Mantenendosi in equilibrio sulla linea di confine tra cronaca, testimonianza e narrativa, al-Aswani dà vita a molteplici personaggi le cui vite si intrecciano e si condizionano, e con la sua abilità nello strutturare i capitoli in modo che il fuoco si sposti costantemente da una vicenda all'altra, crea un gioco di suspense in grado di trattenere il lettore fino all'ultima riga, lasciandogli poi il bisogno, terminato il romanzo, di metabolizzare con calma e riflettere.
Tanti sono i protagonisti di questa storia, tra essi spiccano Asma, giovane insegnante che rifiuta di indossare il velo, e Mazen, ingegnere impegnato nel difendere le rivendicazioni degli operai del cementificio in cui lavora. Entrambi lottano contro la corruzione nei rispettivi ambienti di lavoro e scendono in strada insieme, scoprendo in se stessi una forza che forse non credevano di avere e innamorandosi una dell'altro. C'è poi Ashraf Wissa, ricco cristiano copto di mezza età, che vive di rendita e sognava un tempo di diventare un grande attore; Ashraf è profondamente scontento della propria esistenza, solo l'hashish e il suo sarcasmo gli permettono di andare avanti, fino a che la rivolta irrompe nella sua routine, esattamente sotto il suo balcone. La vista dei primi giovani morti sotto i colpi dell'esercito lo sconvolge, scopre che fuori dal piccolo mondo in cui si era rintanato c'è una generazione che ha deciso di lottare per cambiare le cose anche a costo della vita, e insieme a Ikram, la domestica con cui aveva una relazione clandestina, ma che diventa sempre più una donna che ama e stima, una compagna, si unisce a quei ragazzi cambiando nel profondo.
Sono corso verso il Nilo non ci porta solo tra le strade e nelle piazze del Cairo: questo romanzo è anche la storia di un regime che viene preso alla sprovvista da una ribellione che non si aspettava, un regime disposto a sacrificare il suo “uomo forte”, ma allo stesso tempo disposto a tutto purché l'Egitto non cambi davvero. Ed 'Ala al-Aswani ci accompagna dietro le quinte del potere, mostrandoci l'utilizzo della religione per manipolare gli individui, lo sporco lavoro dei servizi segreti del generale Ahmed 'Alwani e l'apparato di menzogne propagandate dai media attraverso figure come quella dell'abile presentatrice Nurhan, bugie diffuse con lo scopo di spingere il popolo a invocare la sicurezza e a dissociarsi dai ribelli. Ci racconta poi delle violenze di un esercito che uccide e tortura, senza che le vittime abbiano possibilità alcuna di ottenere giustizia in un'aula di tribunale, nemmeno dopo la caduta del dittatore, quando avevano creduto che si stesse finalmente delineando il mondo da loro immaginato. E ci ricorda infine che spesso il corpo delle donne è campo di battaglia, e quelle sono le pagine più dure da leggere. Complessa è la figura di 'Issam Sha'lan che in qualche modo rimane a cavallo tra queste due spinte contrapposte della società: comunista e ribelle in gioventù, non ha sopportato le torture e le umiliazioni inflittegli in carcere, e si ritrova da direttore di una fabbrica che sopprime gli scioperi degli operai, a osservare l'Egitto sollevarsi contro il suo governo, facendolo dubitare di quella certezza che si era dovuto costruire per scendere a compromessi con il potere, ovvero che gli egiziani non avrebbero mai potuto reagire, e che chiunque avesse voluto lottare, sarebbe stato lasciato solo.
Con Sono corso verso il Nilo 'Ala al-Aswani ha lavorato partendo dalla propria esperienza in piazza Tahrir, dalle persone che ha incontrato e con cui ha discusso, per scrivere un romanzo e dare vita a personaggi che affrontano momenti realmente accaduti. Intrecciando realtà e finzione ci restituisce il quadro di un evento che è accaduto da poco, ma che è già storia. E con la consapevolezza che questo romanzo non restituisce del tutto la complessità degli eventi accaduti e della molteplicità delle forze in campo, che non è un saggio socio-politico ma narrativa, credo che possa aiutarci a comprendere qualcosa in più.

Diana Galletta



Intorno al '68/
Storia di utopia e speranze

A distanza di 50 anni, il '68 è diventato materia di studio nelle scuole medie superiori e nelle Università. La puzza e la forza dirompente dei lacrimogeni, la violenza scagliata contro gli studenti e contro i lavoratori, in breve contro il binomio studenti-operai, la mobilitazione continua di quell'anno in particolare e del lungo decennio successivo, sono fatti che, per così dire, con il tempo si sono smaterializzati, fino a diventare oggetto di pensiero e di riflessione.
Si è in presenza di fatti storicizzati, del tutto facenti parte della comune nostra percezione sociale. Il '68 è il termine di riferimento ormai diffuso concernente l'inizio di una nuova epoca storica del Paese, come del resto dappertutto.
Scrittori, storici, professori, ricercatori ne hanno fatto materia di nostalgica rievocazione, argomento di corsi universitari, materia di ricerca degli e sugli snodi ed i meccanismi sociali e politici postsessantotteschi, che hanno consegnato il Paese, pur scosso, rinnovato e ribaltato dal '68, al prevalente, consistente e maggioritario blocco attuale di potere.
Tutto ciò è pur assai lodevole in quanto conserva la memoria dell'inizio del rinnovamento strutturale e profondo della nostra società, ancorché rapidamente contrastato e recuperato dalle forze della conservazione e della reazione. Ma non sono molti i libri che restituiscono il clima del '68, i suoi temi, le sue profonde passioni di giustizia e uguaglianze e le autentiche idealità, la difficile elaborazione ideologica e politica che affrontarono gli anarchici dell'epoca, assediati dalla repressione spietata e a rischio di confondersi e disfarsi nelle varie traduzioni e versioni organizzative politiche del marxismo e del leninismo.
Massimo Ortalli nella sua introduzione si dichiara convinto che la storia sia maestra di vita, come ne sono convinto anche io, e che quanto scritto da Massimo Varengo sia annoverabile fra “gli strumenti più idonei per capire il presente e prefigurare il futuro”. Già questo sarebbe sufficiente per suggerire la lettura del libro.
Con il suo libro Intorno al '68. Utopie e autoritarismi nel decennio 1968-1977 (Zero in Condotta, Milano 2018, € 7,00) in appena 96 pagine sobrie e sintetiche, Massimo Varengo ci riporta in pieno a ciò che è stato il '68. Gli anni raccontati sono stati anni pesantissimi, ma pieni di speranze e sotto certi aspetti, a guardare la scena attuale, pieni di generose illusioni.
Il libro tenta, e in gran parte vi riesce, di dare un senso anarchico a quello che è successo. È articolato per chiare e lineari descrizioni e talvolta interpretazioni dei diversi eventi che si sono succeduti. Dal prologo costituito dalla ribellione cosiddetta giovanile alla società patriarcale e autoritaria, al vero e proprio '68, allo stragismo e alle vittime della strategia della tensione, prevalentemente anarchici, ma non solo, per giungere al movimento del '77 e alla violenza rivoluzionaria.
La bella introduzione di Massimo Ortalli ci riporta l'eco di quegli anni e introduce il concetto come la fughe in avanti di alcuni settori del movimento “divennero il cavallo di troia con il quale fu possibile scardinare e scompaginare un intero movimento”. Un concetto che viene sviluppato dall'autore nel capitolo “Appunti sul movimento anarchico dal '68 al '77”. Appunti particolarmente importanti perché nelle pagine dedicate alla progressiva rinascita e sdoganamento sociale e politico del movimento anarchico, che pure è stato uno dei principali movimenti politici del nostro Paese fino all'avvento del fascismo, sono descritti in modo preciso i passaggi complicati attraverso i quali il movimento ha di nuovo incontrato e di nuovo fatto proprio, senza però mai averlo dimenticato, il pensiero del maestro Malatesta.

Enrico Calandri



Rudolf Rocker/
Per un pensiero organico della trasformazione sociale

Contro la corrente (Milano 2018, pp. 208, € 15,00) è il titolo della raccolta di saggi di Rudolf Rocker recentemente pubblicata da Eleuthera e curata da David Bernardini e Devis Colombo. “Contro la corrente” è forse la definizione che più caratterizza l'identità storica del movimento anarchico, come scrive lo stesso Rocker, “malgrado tutto e tutti!”; ma “contro la corrente” è soprattutto la cifra biografica di Rudolf Rocker, figura di riferimento del movimento anarchico internazionale fino alla metà del secolo scorso. Se dovessimo raccontare la storia della pratica internazionalista degli anarchici ci basterebbe ripercorrere le gesta del sindacalista tedesco per addentrarci in una storia dal sapore mitico, ma dai tratti reali. Chi volesse accingersi in tale avventura potrebbe farlo tuffandosi nelle centinaia di pagine che l'anarchico tedesco ha donato ai posteri e che Andrea Chersi ha reso disponibili in italiano.
Bernardini e Colombo regalano al pubblico italiano una raccolta curata con intelligenza, che valorizza la profondità della riflessione di Rudolf Rocker. Una riflessione di spessore, mai accademica, superficiale o, peggio, consolatoria. I saggi si snodano in un arco temporale che attraversa tutta la guerra civile europea, dal 1919 al 1953. Ma nonostante la loro età, leggendoli se ne può ammirare la freschezza. Ed è qui l'assoluta necessità di scoprire e approfondire la storia e il pensiero di Rocker, rimasto per troppo tempo nell'ombra, soprattutto nel contesto italiano in cui lo studio della storia anarchica non eccelle tra gli argomenti dell'accademia.
L'inverno politico che stiamo affrontando è ancora una farsa, seppur concretamente vera, rispetto al nazifascismo e allo stalinismo con cui si confrontò Rocker. Siamo ancora ad uno stadio democraticamente autoritario, e non propriamente fascista. Eppure l'analisi sviluppata nelle pagine di questi contributi ci parla con molta franchezza. Sono tre i temi su cui Rocker più si spende: l'analisi della scure totalitaria; l'autocritica per il movimento anarchico; il metodo d'intervento di una politica trasformatrice.
Andando in ordine, Rocker leggeva nella dittatura “un'idea di per sé controrivoluzionaria”, pertanto volgeva la sua critica tanto ai regimi fascisti quanto al blocco sovietico, in cui individuava una matrice comune. Raccogliendo questi scritti, Bernardini e Colombo riportano al centro dell'attenzione le riflessioni anarchiche sul totalitarismo, la tara della loro importanza nel processo storico della contemporaneità. Rocker si inserisce in quella famiglia anarchica che nell'equidistanza tra regimi fascisti, egemonia bolscevica e democrazie borghesi ha costituito la propria specificità.
In questi scritti Rocker citava a ripetizione Lenin quando affermava che “la libertà non è altro che un pregiudizio borghese”. Per lui non era praticabile una società migliore nelle torbide maglie di una visione escludente delle libertà personali poiché “ogni scopo si impersonifica nei suoi mezzi”. In queste parole sentiamo echeggiare quelle affinità elettive che hanno spesso unito, nella temperie fra le due guerre, liberal-socialisti e anarchici; di chi ritenne discriminante per la propria prassi politica legare immaginario futuro e coerente pratica quotidiana.
Ma se si fosse limitato a questo, Rocker sarebbe risultato interessante, ma non illuminante, come a tratti invece appare. A tessere le fila delle riflessioni dell'anarchico è una costante verve auto-critica indirizzata alla propria area di appartenenza. Non è un caso che il secondo articolo di questa raccolta si apra con la denuncia della crisi del movimento anarchico. Una crisi che nel 1927, anno di pubblicazione dello scritto in questione, era palese su entrambe le sponde dell'atlantico.
Meno evidente erano le tracce di cosa rappresentasse quella crisi, da cosa fosse data, come quindi era necessario intervenire per invertirne la rotta. In questo Rocker è diretto, non naviga a vista in analisi consolatorie sull'avanzata fascista: “noi siamo diventati troppo dottrinari e pensiamo a molte più cose più con la mentalità dei nostri predecessori che con la nostra”. È la stessa impostazione che lo caratterizzerà più di vent'anni dopo, quando nel 1953 denuncerà la “stagnazione mentale” che conduce a dimenticare “che anche il tempo scorre e con lui tutti i mezzi che sono nati dal suo grembo”.
Le considerazioni del vecchio anarchico erano indirizzate su molteplici direttrici, per quanto riguarda i suoi compagni, la critica si assestava sul fatuo rivoluzionarismo intransigente, incapace di leggere la rilevanza delle piccole riforme nel processo rivoluzionario (senza necessariamente accomodarsi sul riformismo politico); sia nei limiti di una visione economicista che vedeva nella lotta economica “un fine in sé”.
Non è questo il luogo per approfondire i temi citati, che pure Rocker affronta con mirabile chiarezza e capacità di sintesi. Per chiudere è necessario spendere qualche parola sul passaggio che dalla critica dell'economicismo ci porta all'ultimo punto che credo possa sintetizzare la sua visione: la necessità di uno “sviluppo organico nella trasformazione sociale”. Rocker immaginava e costruiva delle linee per una pratica rivoluzionaria che fosse al tempo stesso liberatrice e libertaria.
Sfogliando le pagine di questa pubblicazione, andando avanti e indietro tra gli articoli, i tre temi che qui ho brevemente sintetizzato si intrecciano, si parlano a vicenda, se a tratti uno sembra più rilevante, subito dopo torna a confrontarsi con una visione complessiva della politica. Una visione organica, appunto, che parte dalla riappropriazione del socialismo come “in ultima istanza una questione culturale”. L'attenzione di Rocker andava all'”universo mentale” su cui intervenire, all'idea, come scrivono bene in introduzione Colombo e Bernardini che “una premessa fondamentale per la messa in atto del socialismo fosse la più larga diffusione e comprensione possibile dei suoi presupposti culturali”.
A chiudere il volume sono due saggi. Il primo del traduttore Nino Muzzi e il secondo del curatore David Bernardini. Mentre il primo offre riferimenti sul linguaggio del nostro, il saggio di Bernardini bene inquadra la vicenda storiografica dell'anarchico, la sua biografia e la necessità di approfondirne lo studio. Speriamo sia solo la prima tappa di un percorso proficuo.

Oreste Veronesi



Malamente/
Una rivista di lotta e critica del territorio

Alla redazione di Malamente abbiamo chiesto una presentazione della rivista. Eccola.

“malamente vanno le cose, in provincia e nelle metropoli
malamente si dice che andranno domani
malamente si sparla e malamente si ama
malamente ci brucia il cuore per le ingiustizie e la rassegnazione
malamente si lotta e si torna spesso conciati
malamente ma si continua ad andare avanti
malamente vorremmo vedere girare il vento
malamente colpire nel segno
malamente è un avverbio resistente
per chi lo sa apprezzare.”
Tutto va malamente, si direbbe in questi tempi, ma a ben guardare non sempre le cose vanno male per noi, a volte una lotta riesce a colpire malamente, ad aprire crepe nei muri e nelle catene che tengono imprigionate le vite e i desideri di chi è oppresso e sfruttato. L'incertezza e la crisi di questi tempi sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano.
Malamente è una rivista completamente autoprodotta e autofinanziata, che esce ogni tre o quattro mesi. È nata nella primavera del 2015 per ospitare spunti di approfondimento e riflessione collettivi, per una condivisione dei saperi e delle pratiche di critica sociale, per aprire prospettive concrete di liberazione. È un cantiere aperto di sperimentazione culturale e politica sul territorio delle Marche, tra l'Appennino e la costa, ma non rispetta nessuna frontiera anche perché pensiamo che le lotte sociali possano e debbano costruire le proprie nuove geografie.
Siamo consapevoli che una lettura realmente efficace dell'esistente non può essere calata dall'alto al basso come criterio di descrizione ideologica, perciò percorriamo il percorso opposto e a partire da ogni ambito del quotidiano in cui sperimentare una trasformazione rivoluzionaria ci spingiamo a osservare, ascoltare, dialogare con gli individui e le collettività e con le loro – e nostre – contraddizioni. Quanto più lontani dal replicare l'ennesimo spazio identitario legato a una sub-cultura rivolta su se stessa, vogliamo calarci nelle lotte sociali presenti sul territorio per individuarne le connessioni, trarne gli opportuni stimoli e tentare il contrattacco rifiutando l'arte di scegliere il male minore.
Il timone della rivista è rivolto a proporre uno sguardo sul presente che abbia a cuore la libertà. Orientato, quindi, alla necessaria critica sociale, dal momento che quello che non manca, anche qui nella periferica provincia marchigiana, sono le buone ragioni per opporci a un'organizzazione sociale che mostra sempre più, se ancor ce ne fosse bisogno, la propria insensatezza prima ancora che insostenibilità. Sotto traccia, vi è il desiderio di rompere l'accerchiamento del progresso a tutti i costi e della mercificazione dell'esistente, per recuperare le capacità di saper agire nel mondo.
“Malamente” esce in formato cartaceo: scelta dettata dalla volontà di riappropriarci di un mezzo di comunicazione stabile e che induce alla lettura piana e riflessiva. Riteniamo infatti che troppo spesso molti contenuti vengano oggi veicolati esclusivamente online e finiscano per perdersi dentro il frettoloso consumo quotidiano della rete. Nell'ottica della libera circolazione dei saperi, tutti gli arretrati sono disponibili gratuitamente in pdf sul sito della rivista. Benché consapevoli dei limiti e dei danni dei social network, abbiamo comunque profili facebook, mastodon e twitter con cui stiamo costruendo una rete di relazioni e contatti. Soprattutto, auspichiamo di trovare nuovi complici lungo la strada.
Nell'ultimo numero (#14, maggio 2019) trovate allegate sette cartoline “d'autore/autrice”, disegnate da Aladin, Marco Bailone, Emma Bignami, Blu, Samuele Canestrari, Prenzy e Zerocalcare. Si tratta di un'iniziativa di solidarietà – promossa in collaborazione con le riviste Nunatak e NurKuntra – in sostegno di alcuni anarchici e anarchiche recentemente arrestati tra Torino e Trento perché amano (parecchio!) la libertà e per difendere quella di tutti/e noi che siamo fuori ma comunque prigionieri di un presente autoritario e becero che deve finire.
Siamo sempre in cerca di proposte e collaborazioni. Contattateci e scrivete per Malamente!
Se volete leggere o scaricare gli arretrati, li trovate qui: https://malamente.info/numeri-usciti

Malamente. Rivista di lotta e critica del territorio
1 numero: 3 euro.
Distributori (da 3 copie): 2 euro.
Abbonamento (sostenitore), 4 numeri: 15 euro.
www.malamente.info
malamente@autistici.org
fb: www.facebook.com/malamente.red

la redazione di Malamente



Orientalismo/
Ripubblicato un librone degli anni '30

Qualcuno fra i nostri lettori ricorderà l'intenso e vivace dibattito sviluppatosi un paio d'anni fa su queste pagine (“A” 416 e 417, rispettivamente maggio e giugno 2017) intorno al tema, in verità poco frequentato, dell'orientalismo.
Quella interessante discussione tra studiosi, operanti peraltro in contesti ambientali (Inghilterra, Spagna, Italia, Egitto) assai diversificati, sia dal punto di vista culturale che accademico e politico, si concludeva con l'auspicio di proseguire il confronto in ambito internazionale e di approfondire con particolare attenzione ed impegno proprio quelle ricerche di settore dedicate agli anarchici, “visti ogni volta sotto qualche prisma particolarmente contraddittorio”, come appunto l'orientalismo. Con il termine orientalismo – tanto per precisare – si intende quella rappresentazione stereotipata delle culture e degli ambienti orientali fatta in genere da scrittori e artisti occidentali.
In tal senso questo nuovo libro di memorie (Romolo Garbati, Mon aventure dans l'Afrique civilisée, édition notes et dossier Paul-André Claudel, Alexandrie (Égypte), Centre d'Études Alexandrines 2018, pp. 330, € 20,00), terza uscita della Collection Littérature Alexandrine, scritto in francese e pubblicato ad Alessandria d'Egitto nel 1933, oggi riedito e arricchito di note, dossier e vari apparati utili alla lettura, costituisce una possibile fonte primaria e di verifica diretta sul tema.
Romolo Garbati (1873-1942) anarchico sardo, tipografo, impegnato fin da giovane nella militanza, costretto nel 1902 a lasciare l'Italia per sfuggire alle prigioni e alle persecuzioni, approda in Tunisia e in Algeria prima di stabilirsi al Cairo e ad Alessandria. È uno dei tanti dimenticati che composero la numerosa e multiforme diaspora libertaria nel XX secolo. Svolge un'intensa attività pubblicistica sulla stampa di movimento e intraprende poi la carriera giornalistica, diventando direttore de «Il Messaggero Egiziano», il principale quotidiano italiano nell'area del Vicino oriente, attenuando col tempo – così diranno almeno le carte di polizia – la sua originaria fede anarchica.
Il titolo del volume non inganni. Il riferimento a “l'Afrique civilisée” è volutamente ironico; perché all'epoca – e, si deve dire, ciò è stato per lungo tempo – quasi tutta la letteratura sull'argomento si imperniava su argomentazioni stucchevoli e stereotipate, richiamando il fascino dell'avventura in un continente selvaggio, soddisfacendo insomma quel classico “bisogno” di esotismo coloniale così in voga nelle società dell'occidente progredito. Al contrario l'autore ci propone il racconto autobiografico di un significativo e singolare viaggio, effettuato in epoca primonovecentesca, nelle grandi città nordafricane (Algeri, Tunisi, Il Cairo, Alessandria), dove sussistono, insieme ad una borghesia cosmopolita e occidentalizzata, formata in larga parte da rifugiati ed emigrati, luoghi di immensa tribolazione e miseria. Diario di un esule e “viaggio di un passeggero di terza classe” (secondo la definizione dello stesso autore) e “odissea senza ritorno”, lo scritto ci fornisce un efficace spaccato sociale di quel mondo caratterizzato da grandi separatezze e contraddizioni; e ci dà anche spunti per meglio comprendere gli orizzonti mentali che pervadono quelle comunità di sradicati e le loro rarefatte connessioni con l'ambiente umano circostante.
Dal racconto emerge una perfetta istantanea su quel milieu fatto di emarginati, avventurieri, sovversivi e rivoluzionari sognatori, ma ci appare anche “la migliore foto di gruppo” sulla stampa eurofona allora presente sull'altra sponda del Mediterraneo.
All'editing raffinato di questa pubblicazione si affianca una ricca appendice, curata da Paul-André Claudel, con bibliografia e una biografia: Ritratto di un giornalista e libero pensatore, Romolo Garbati negli archivi del Casellario politico centrale. Davvero pregevoli le foto a corredo.
Nel momento in cui usciva la prima edizione di questo volume – scrive il prefatore Daniel Lançon – un altro sardo, Antonio Gramsci, terminava i suoi Quaderni del Carcere, richiamando così i concetti di “subalternità” su cui poi poggeranno la storia sociale e della quotidianità, le storie di vita in auge qualche decennio più tardi. Da tale punto di vista il libro, “nouvelle micro-histoire de l'anarchisme”, si inserisce a pieno in questa tipologia di studi.

Giorgio Sacchetti



Autoritarismo, metodi, libertà/
L'attualità della rivoluzione russa

Il libro curato da Antonio Senta (Gli anarchici e la rivoluzione russa (1917-1922), Mimesis, Sesto San Giovanni 2019, pp.168 € 14,00) raccoglie gli atti di un seminario promosso dall'Archivio Famiglia Berneri – Aurelio Chessa e dalla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia tenutosi l'1-2 dicembre 2017.
In ogni intervento emerge un'accurata documentazione, a riprova della competenza espositiva degli autori e di un dibattito più che mai attuale su un tema che, dopo anni di stasi, rinnova l'interesse storiografico grazie a documenti non più segretati dagli archivi sovietici. Fra le riflessioni, che l'eco del centenario del '17 ha suscitato, vi sono molti aspetti della critica che il movimento anarchico, pur nella sua complessità, elaborò già in prossimità di questi eventi, anticipando analisi e alternative. Ne è esempio la proposta autogestionaria (libera sperimentazione nel linguaggio di E. Goldman) nel suo profilo di compatibilità con il processo rivoluzionario: non la mera accettazione di un'aleatoria futura emancipazione subordinata a un autoritarismo “temporaneo”, ma la ricerca di una coerenza fra mezzi e fini su criteri di libertà.
È Alexander Shubin a delineare l'excursus delle diverse fasi della rivoluzione, intesa come “l'ariete che elimina gli ostacoli allo sviluppo sociale”, sottolineandone gli aspetti meno scontati o tralasciati dalla divulgazione.
Marcello Flores s'addentra nel diversificato coinvolgimento anarchico degli eventi fino all'insorgere dei contrasti alla svolta autoritaria. “Le critiche circostanziate e articolate (...) si accompagnarono a tentativi pratici di organizzazione sociale” che a distanza di anni suggeriscono “interpretazioni significative”: alle “speranze di emancipazione sociale” si sostituì “una serie di delusioni, di smentite, di disillusioni e di sconfitte”.
Giuseppe Aiello, con un'esposizione accattivante ma rigorosa, si concentra sui “forti connotati da democrazia diretta” che fecero di Kronstadt un teatro favorevole alla “realizzazione di una nuova società basata su rappresentanze di lavoratori”. Un'esperienza sulla quale incombe una “graduale repressione” fino alla mancata terza rivoluzione e al “definitivo passaggio al terrore rosso come strumento di attuazione del dominio”.
Mikhail Tsovma s'inoltra in “uno degli esperimenti sociali più significativi della rivoluzione russa”: la riforma agraria attuata dal movimento machnovista. La “brutale repressione dei bolscevichi” continuerà nella denigratoria propaganda di regime che soltanto negli ultimi tre decenni ha potuto essere dipanata a vantaggio di una conoscenza più completa.
All'unica voce femminile il compito di ricostruire gli ultimi anni di P. Kropotkin, quando torna in Russia dedicandosi all'impegno sociale e agli ultimi scritti. Selva Varengo racconta della grande accoglienza ricevuta dopo l'esilio e delle difficoltà affrontate in un contesto nel quale “i mezzi dittatoriali adottati dai bolscevichi” si svelano via via più cruenti. L'esposizione dell'autrice è ancor più coinvolgente nel passaggio sui funerali: il “lungo corteo di migliaia di persone, non autorizzato” passò dalla “prigione di Butyrka dove i detenuti scuotono le sbarre delle celle intonando canti anarchici”.
Pietro Adamo analizza l'evoluzione del pensiero di E. Goldman e A. Berkman rispetto agli eventi rivoluzionari: i tentativi di ricomporre un'idealità di supporto all'emancipazione sociale in un clima di incertezza ricostruito attraverso i reciproci scritti più noti e un fitto epistolario meno conosciuto. Emerge una “prospettiva interpretativa (...) differente: più decisa, aspra, convinta, Goldman, più dubbioso, possibilista, persino più conciliativo, Berkman”. Su quest'ultimo si sofferma Roberto Carocci descrivendo come da un “atteggiamento non pregiudiziale” segnato da “forti aspettative” giungerà dopo due anni a “un giudizio radicalmente opposto”, quando il pretesto della minaccia controrivoluzionaria non è più in grado di mascherare il vero volto del nuovo potere. Non a caso le analisi successive di Berkman si focalizzano sulla dicotomia rivoluzione sociale/rivoluzione politica e sull'assunto della coerenza fra mezzi e fini.
“L'irruzione delle donne nella rivoluzione russa andrà di pari passo con un radicale cambiamento politico, sociale, culturale (...) spinte da un identico ideale: sovvertire il potere costituito, anche a costo di mettere in gioco la propria vita”. Così Lorenzo Pezzica con i suoi ritratti di donne capaci “di resistere, di opporsi, di protestare, di ribellarsi, di pensare altrimenti, che è già un essere contro”. La deriva autoritaria farà di loro delle “emarginate, perseguitate, arrestate”, destinate a carceri, manicomi, gulag o “relegate all'oblio della storia, al silenzio assordante della memoria rimossa”.
L'approfondimento di Antonio Senta, supportato da una meticolosa ricerca sui periodici dell'epoca, è dedicato alle valutazioni, espresse dal movimento anarchico italiano, soffermandosi sul pensiero di Malatesta, Fabbri, Berneri, Galleani e Fedeli. Prese di posizione non uniformi, a volte contrastanti, che segnano il dibattito militante nella dolorosa evoluzione che vede gli anarchici tra “i più accesi fautori” per divenire “critici severi quando si delinea nella sua crudezza il monopolio del governo bolscevico”.
David Bernardini sposta lo sguardo su quella “rete di mutuo appoggio transnazionale che permise al movimento anarchico di sopravvivere”: a Berlino fra il '19 e il '26 la militanza s'intreccia in un “network solidale e orizzontale (...) in sostegno ai profughi russi”. R. Rocker diviene il fulcro di quella opposizione al bolscevismo individuata nell'Internazionale anarcosindacalista che si intreccia al supporto di esigenze esistenziali primarie.
“Scopo di questo breve saggio è presentare (...) libri e opuscoli pubblicati dal movimento anarchico di lingua italiana sulla Russia in generale e, in particolare, sulla rivoluzione d'ottobre e sul regime sovietico”, così Massimo Ortalli spiega il suo contributo aggiornandolo alle ultime novità editoriali che, nella continuità della ricerca, rendono giustizia a pensieri “rimossi, se non denigrati dalla storiografia ufficiale” ma anticipatori di un'analisi critica ora oggetto di studi meno elitari.

Chiara Gazzola



Barbagia e cinema/
60 anni dopo “Banditi a Orgosolo”

Sessanta anni fa, nel 1959, il regista palermitano Vittorio De Seta (1923-2011), ancora giovane e già autore di interessanti documentari sulla difficile realtà dei contadini e dei pescatori siciliani, si reca in Sardegna, ad Orgosolo, per girare il suo primo lungometraggio, che avrà per soggetto i banditi che con le loro gesta hanno reso “famosa” l'interna e arcaica cittadina sarda. In due anni di vita vissuta tra la gente del luogo, che è fatta essenzialmente da pastori, De Seta dà seguito alla sua idea di film, che appunto vuole raccontare l'universo dei pastori sardi, ai quali spesso non resta altro modo, per sopravvivere, che diventare banditi.
Nel '61, infatti, a Venezia, al Festival del Cinema, viene proiettato il suo film Banditi a Orgosolo, che racconta la storia del pastore Michele Jossu, che creduto erroneamente colpevole di aver ucciso un carabiniere, scappa per sfuggire all'arresto, perdendo, nella sua disperata fuga, il suo gregge di pecore: quindi, in sostanza tutti i suoi averi, e il suo status di pastore; vedendosi così costretto – per habitus e animus fatalista e ligio ai ferrei e vetusti codici comportamentali della sua tradizione - a rubare il gregge ad un altro pastore e diventando così, per caso e per necessità, bandito.
Sul film di De Seta, che fece epoca e che contribuì a capire meglio la questione del banditismo in Sardegna e le sue cause, storiche-ancestrali - che risalivano a secoli di isolamento e sfruttamento della Barbagia e dell'area del Supramonte, dove risiede Orgosolo, e di condanna ad una vita di stenti e miseria dei suoi pastori - è stato appena pubblicato un bel volume di Antioco Floris che prende il titolo dal film, Banditi a Orgosolo (Rubbettino, Palermo 2019, pp. 264, € 18,00).
Il corposo studio di Floris indaga compiutamente le ragioni che hanno indotto De Seta ad interessarsi dei pastori barbaricini, in linea con la sua attività di cineasta di segno neorealista, attento a documentare e a leggere criticamente la società e la storia del suo tempo, in specie quella del meridione d'Italia; offre un'ampia disamina della critica cinematografica sul film, che ne seguì, con lodi che arrivarono anche da Martin Scorsese, i successi internazionali e ne segnalò il rivoluzionario modo di leggere il banditismo sardo come risposta ineluttabile alle offese costanti e feroci dello Stato, assente e predatore, nei riguardi del mondo antico e povero della Barbagia. Inoltre, il volume, raccoglie alcuni scritti, notevoli e illuminanti, di De Seta; i materiali di lavoro (appunti del regista, sceneggiatura), una selezione delle foto di scena e di fotogrammi del film e soprattutto presenta acute analisi sulla ricezione, nel tempo, del film in Sardegna e a Orgosolo, dove è considerato parte integrante e iconica della propria identità storico-culturale. L'operazione di Floris, di recupero della storia del film di De Seta, peraltro pensata dall'autore del libro assieme allo stesso regista già nel 2011, quando quest'ultimo era ancora in vita, ha, in più, un senso e un motivo importante, di stimolo a una riflessione sull'attualità della Sardegna, come sottolinea in un passaggio del suo saggio, lo stesso Floris:
“Il film è una metafora dei rapporti tra individui ed istituzioni. La sostanza del conflitto che contrappone Michele ai Carabinieri, non è molto diversa da quella che caratterizza il conflitto tra le istituzioni alte (Stato, Regione, Unione Europea) e la gente comune. L'inadeguatezza delle istituzioni nel dare risposte ai bisogni del territorio è ciò che costringe l'individuo a trovare da sé soluzioni in cui il problema della legalità (dello Stato) è del tutto secondario. La crisi economica riconduce a modelli che hanno molti elementi in comune con l'universo narrato da De Seta, certamente la società è cambiata ed è cresciuta, ma basta fare un'escursione sul Supramonte per averne conferma. Il territorio è sempre più abbandonato a se stesso, le pecore sono state sostituite dai bovini che, per il semplice fatto di esistere, danno diritto ad un contributo comunitario. Non è pertanto necessario curarli e così capita di vederli decrepiti o già cadaveri abbandonati ai lati delle strade come le pecore di Michele Jossu. A questo punto il film che è stato in grado di cogliere e rappresentare un carattere proprio della realtà orgolese, può valere ancora come lezione per interpretare il presente”.

Silvestro Livolsi