rivista anarchica
anno 47 n. 416
maggio 2017


razzismo?

Un secolo fa, in Egitto

scritti di Costantino Paonessa, Giorgio Sacchetti e Laura Galián


Uno storico solleva la questione dell'orientalismo, cioè di una nemmeno tanto larvata forma di razzismo e di disprezzo delle popolazioni indigene all'inizio dello scorso secolo in Egitto, da parte di esuli anarchici italiani.
Segue il parere dello storico Giorgio Sacchetti, che segnala tra l'altro uno studio di una ricercatrice spagnola. Una pagina di storia che val la pena esaminare, ben considerando la cultura dell'epoca. E la nostra sensibilità oggi.


E se ad essere razzisti e orientalisti sono gli anarchici?

di Costantino Paonessa

Uno sguardo attento sull'esperienza degli anarchici italiani d'Egitto (1902-1914). Quelle affermazioni sorprendenti, indiscutibilmente insultanti le popolazioni indigene, sembrano far parte di un “normale” approccio sprezzante. Degli anarchici.

Pur correndo il rischio di sembrare anacronistico, vorrei citare, a mo' di introduzione, una frase particolarmente significativa della compagna attivista kurda Dilar Dirik, tratta dall'articolo Sfidare il privilegio: sulla solidarietà e l'autoriflessione1 (2016). Dice l'autrice: «In un mondo di stati nazione capitalisti e patriarcali, considerare se stessi come cittadini del mondo e opporsi alle idee di nazioni e stati è un atto di ribellione. Tuttavia, pensarsi come rivoluzionari internazionalisti non cancella condizioni inique e privilegi. È necessario andare oltre».
Decine di anarchici italiani, o presunti tali, vennero schedati dai Consolati italiani del Cairo e di Alessandria tra il 1900 e il 19142. Seguivano la rotta dell'emigrazione economica che dal 1860 fino agli anni '40 del Novecento riversò in Egitto migliaia di italiani e italiane. La loro composizione sociale era molto eterogenea, differente per condizioni economiche e sociali, come per tutta l'emigrazione italiana ed internazionale. Gli anarchici, spesso presunti tali, provenivano da tutte le parti d'Italia, soprattutto dalle regioni centrali. Svolgevano i lavori più disparati. Erano operai specializzati, tipografi, muratori, impiegati, falegnami, sarti, parrucchieri, braccianti, ma anche commercianti, medici e dediti alle arti. Si trattava di un'emigrazione transitoria: solo qualcuno si fermò molti anni ma assai pochi decisero di vivere in Egitto.
La maggior parte di loro viveva in condizioni normali (comunque superiori a quelle italiane); pochissimi riuscirono a fare un po' di fortuna. Tanti, come il celebre Ugo Icilio Parrini, commerciante di vini, votato completamente alla causa anarchica, vivevano di stenti, in condizioni misere. Tutto ciò in un regime in cui, al di là delle singole individualità, i lavoratori europei godevano di rapporti di lavoro privilegiati e salari migliori rispetto ai loro pari autoctoni. I lavoratori europei erano inoltre soggetti al regime giuridico delle Capitolazioni, un beneficio materiale per cui i membri di alcune comunità straniere/non musulmane venivano giudicati in materia civile, commerciale e penale dai giudici consolari che applicavano la propria legge nazionale.
L'inizio del XX secolo vede gli anarchici italiani, insieme a quelli di altre comunità, soprattutto greci, fortemente impegnati nei movimenti sociali e operai in Egitto. Vengono fondate corporazioni e leghe operaie di categoria e resistenza, organizzati scioperi e mobilitazioni dei lavoratori. Allo stesso tempo, grazie anche al lavoro di Luigi Galleani, venne aperta l'Università Libera di Alessandria (quella del Cairo ebbe vita brevissima) votata alla «più ampia libertà di espressione e di parola, l'esclusione assoluta di ogni concorso o patronato di qualsiasi autorità e l'ammissione di qualsiasi persona di qualunque sesso o qualunque religione, idea politica e appartenenza». Sorsero club, associazioni, circoli e ritrovi di ogni genere che, sebbene frequentati prevalentemente da europei, con il tempo non mancarono di attirare anche autoctoni. Venne creata persino una Società Internazionale di Soccorso d'urgenza ai malati, in seguito all'esplosione del colera. Nel 1909 si tenne, al Cairo, un congresso per la creazione di una Federazione internazionale fra Operai e Impiegati a cui parteciparono operai europei ed autoctoni; gli interventi si tennero in italiano, greco e arabo.
Tutto era votato al più sano internazionalismo, alla solidarietà tra compagni e lavoratori, alle lotte comuni da intraprendere contro il capitalismo. Soprattutto a partire dagli anni '10 del Novecento, la resistenza di classe portò a diverse forme di cooperazione tra operai europei ed egiziani. In diversi appelli gli anarchici italiani non mancavano di parlare a nome dei «lavoratori, affratellati, associati, solidali» d'Egitto.
Tuttavia, rileggendo bene quanto scritto in quegli anni dagli anarchici italiani in Egitto, viene da chiedersi se, nei gruppi e nelle iniziative di quegli anni, siano davvero compresi anche gli egiziani e quale fosse realmente il rapporto tra anarchici e popolazione autoctona. In effetti, è facile notare che il discorso proposto era tutto concentrato sulla questione della classe. La teoria di fondo era che il superamento del capitalismo avrebbe di certo portato anche all'annullamento delle divisioni di razza. Ma quando si parlava della popolazione locale, il discorso si caratterizzava spesso per l'uso di espressioni e pregiudizi orientalisti e/o innegabilmente razzisti.
Ecco qualche esempio. Nel primo numero della rivista Lux, si legge: «Purtroppo in Egitto si pensa poco. Per quanti sforzi si facciano, s'incontrano difficoltà ad ogni passo per indurre la gente a pensare, a parlare, a discutere. Ragioni di clima forse impediscono ai cervelli qui educati di riflettere»3. Nel settimanale L'Unione, Il folle (pseudonimo dell'autore) scrive: «In Egitto, paese intellettualmente inferiore fra gli inferiori, ogni scimunito [europeo] fa la sua figura». Lo stesso tono rimarca la differenza di razza e cultura tra autoctoni ed europei.
Scrive Pietro Vasai su L'Operaio, lanciando l'appello per la costituzione dei soccorsi d'urgenza: «È questo personale4, rude ed ignorante, indifferente al male comune, non avente rapporti affini con noi europei, da intristire l'animo perché pensiamo come potremmo essere trattati, e quale fine potremmo fare nelle sue mani». Ancora più esemplare è il passo di un articolo che Liberto fa su L'Unione: «Un altro male si presenta: la concorrenza del lavoratore indigeno, il quale, abituato ad una vita di privazioni e per il suo stato di civiltà inferiore al nostro, non sente i bisogni che sentiamo noi. Questo elemento deve essere preso a cuore; si deve elevarlo, renderlo all'altezza delle nostre aspirazioni»5.
Nulla di strano nel riconoscere in queste rappresentazioni monolitiche dell'Egitto e della sua popolazione i discorsi comuni nel contesto dell'epoca che Edward Said ha definito in maniera eccellente come “orientalismo”. Da una parte la descrizione dell' “indigeno” e del lavoratore “arabo” come inattivo, apatico, indifferente, incivile, inferiore, rude, ignorante e via dicendo. Dall'altra la consapevolezza di essere separati, e diversi, dalla realtà circostante. Si legge (in francese)6 ne L'Unione: «L'Egitto, paese dalla civilizzazione secolare, e nel passato terra di civiltà-luce, sembra ora, mentre si evolvono e si perfezionano le civiltà occidentali, essersi fermato in questa grande marcia di popoli e di idee». Sono rappresentazioni ed elementi che spesso confluivano in quella necessità di «rigenerare l'Asia decaduta e inerte» tanto cara all'orientalismo romantico (e fatta propria anche da Marx). Il Domani scrive: «È mai possibile che in una città come questa, grande e abitata da elementi europei e civili, tante difficoltà debbano sorgere [...]?».
In generale, è evidente che la questione assume particolare rilevanza perché pone una serie di interrogativi sull'influenza che hanno le posizioni gerarchiche basate sulla razza in quelle lotte che si vogliono comuni o solidali. Sul lato storiografico, potrebbe essere una risposta a chi si interroga sul perché l'anarchismo non abbia attecchito in Egitto, così come accadde invece in altre parti del mondo.
A questo proposito, un esempio significativo si trova nel giornale L'Unione in cui qualche anarchico si schierava a difesa dell'istituto delle capitolazioni, uno dei simboli più odiati e appariscenti del colonialismo: «E si parla dell'abolizione delle capitolazioni! [...] Ma se le leggi di questo paese son fatte apposta per soffocare le aspirazioni di un popolo, che si vuol mantenere schiavo, queste leggi avrebbero il loro effetto anche sulla popolazione europea messa e considerata al pari di quella indigena. Per cui gli europei avrebbero tutto da perdere e nulla da guadagnare»7. In questo caso, la perdita del privilegio legato alla razza, spinge alcuni anarchici – residenti in un contesto coloniale – sulle stesse posizioni del più crudo colonialismo imperialista. Il riferimento alla natura “altra” dei colonizzati diventa il presupposto ideologico per giustificare quella stessa oppressione contro cui di fatto si lottava, si veniva repressi e si finiva in carcere.
Questo breve testo vuole essere un invito a portare al centro degli interessi del movimento anarchico (anche in chiave storica8) la questione assolutamente attuale dell'oppressione/delle oppressioni, della sfida ai privilegi (razza, genere, classe, ecc.), della decolonizzazione dell'anarchismo. I e le militanti hanno l'inevitabile compito di comprendere i sistemi di oppressione che si trovano di fronte e di cui spesso sono partecipi, rivedendo le conseguenze di tutto questo nelle lotte e dunque le loro posizioni.
«Ovunque esista il privilegio – scrive ancora Dilar Dirik – esiste la relativa responsabilità di sfidare il privilegio».

Costantino Paonessa
costantino.paonessa@gmail.com

Costantino Paonessa ci informa che un suo articolo approfondito sulla storia degli anarchici italiani d'Egitto uscirà a breve sulla rivista Studi Storici dell'Istituto Gramsci. Un suo precedente articolo Ma quali anarchici d'Egitto? è apparso in “A” 405 (marzo 2016).

  1. L'articolo è stato tradotto nel blog Hurriya https://hurriya.noblogs.org/post/2016/05/16/sfidare-il-privilegio-sulla-solidarieta-e-lautoriflessione-2/
  2. Bisogna sottolineare le notizie molto scarse a proposito della presenza di donne anarchiche. Solo per questo si userà il plurale maschile.
  3. La nostra opera, «Lux», Anno I, N. 1., 15 giugno 1903.
  4. Si riferisce agli “impiegati indigeni”.
  5. L'Unione!, «L'Unione», Anno 1, N. 2, 12 luglio 1913.
  6. La traduzione è mia.
  7. Un sequestro, «L'Unione», Anno 1, N. 4, 27 luglio 1913.
  8. Questo articolo vuol essere un invito all'invio altrui di contributi del genere al fine di costruire un sano dibattito sul tema in ambito storico (e non solo).


Una rivista anarchica pubblicata in Egitto in lingua italiana
all'inizio dello scorso secolo

Ma gli anarchici non erano un'isola felice...

di Giorgio Sacchetti

Le specifiche caratteristiche di gran parte degli anarchici italiani esuli in Egitto. La necessità di contestualizzare certe loro affermazioni “scorrette” alla luce della sensibilità dell'epoca e i ritardi della storiografia nel dar corso a un approccio transnazionale.

Gli esuli anarchici italiani in Egitto furono in gran parte appartenenti alla corrente individualista, considerati potenzialmente “bombaroli”, malvisti peraltro fin dai tempi di Errico Malatesta e Francesco Saverio Merlino. Ad Alessandria un gruppo di esuli internazionalisti – fra cui il mitico tipografo livornese Icilio Parrini – edita (fin dal 1877) le testate «Il Lavoratore» e «Il Proletario» inaugurando così una lunga tradizione locale di pubblicistica libertaria in lingua italiana che si dipanerà per tutto il primo Novecento. «Il Lavoratore», foglio pubblicato dai bakuninisti in esilio, vede la sua soppressione decretata dopo appena tre numeri dalle autorità egiziane e la contestuale chiusura della tipografia. Successivamente (negli anni Ottanta) funzionerà una stamperia clandestina ad uso dei socialisti anarchici, emanazione di un “Circolo europeo di studi sociali”. L'attività di diffusione di materiali di propaganda libertaria si intreccia con il tentativo di affiancare in armi l'insurrezione arabista del 1882 e con la deriva “illegalista” che, nel corso degli anni Novanta, prende piede nella comunità degli anarchici italiani d'Egitto.
L'interessante articolo dell'amico e collega Costantino Paonessa aggiunge ulteriori e inedite informazioni a quanto già si conosceva sull'argomento. Il pezzo inoltre richiama questioni di metodo assai sostanziose, che attengono proprio al comune mestiere di storico.
Una riguarda quegli stili divulgativi e di comunicazione improntati sulla dimensione emozionale eclatante del messaggio; l'altra la naturale propensione alla revisione insita sempre nell'attività del ricercatore. Ambedue tirano in ballo la cosiddetta “contemporaneità della storia”, ossia il fatto incontestabile che ogni prodotto storiografico sia sempre, in un modo o nell'altro, la risultante dell'azione creatrice di un soggetto conoscente (lo storico appunto) che ha stabilito un nesso forte tra il passato rievocato e il “suo” presente, quello cioè che lui sta vivendo.
Sulla prima questione: isolare un solo tema nella ricerca può essere utile, ma farlo senza un minimo di contestualizzazione, comporta molti rischi interpretativi e di fraintendimenti. Ed è proprio il caso di questo breve intervento di Paonessa dedicato ai “presunti anarchici” d'Egitto. Metodologicamente, senza però voler demonizzare niente e nessuno, ritengo che ci si debba sempre sincronizzare con le epoche che si raccontano ed essere il meno retrospettivi possibile. Altrimenti si fa la scoperta dell'acqua calda.
Il movimento anarchico, storicamente, non era di certo un'isola felice di utopia realizzata e i militanti erano spesso persone comuni che vivevano, anche in maniera inconsapevole se vogliamo, in contraddittoria consonanza con il resto della società.  Facile sennò cercare il pelo nell'uovo attraverso il prisma delle incoerenze e con la visuale etica e culturale acquisita nel frattempo.
Sulla seconda questione, cioè sulla possibile e necessaria revisione di certe narrazioni da epopea, ammesso che siano mai davvero esistite, con riferimento al peculiare tema delle comunità degli esiliati anarchici all'estero c'è casomai da rilevare un imperdonabile ritardo della storiografia nell'acquisire l'approccio transnazionale (“colpevoli” soprattutto quelli della mia generazione, cosmopoliti spesso solo a parole).
Un recente studio di Laura Galián sull'argomento, di cui qui sotto riporto le sintetiche conclusioni a pro dei lettori, ci può forse schiarire le idee.

Giorgio Sacchetti
sacchetti.giorgio@gmail.com


Il Cairo (Egitto), 2016 - Viale Muhammad Mahmoud

Per uno studio decolonizzato dell'anarchismo

di Laura Galián

In merito all'assenza storiografica dell'anarchismo e dei movimenti libertari, nella sponda sud del Mediterraneo. Ma ora qualcosa sta cambiando.

Nel corso della nostra analisi abbiamo potuto comprovare come l'anarchismo, in quanto ideologia internazionalista, libertaria ed europea, fosse arrivato in gran parte del sud del Mediterraneo tra la fine del XIX e gli inizi del XX secolo, insieme ai lavoratori e agli esiliati politici che trovarono così su quelle coste uno spazio di accoglienza per poter continuare le loro attività sovversive.
Questa attività, che in Egitto e Tunisia era caratterizzata dalla presenza italiana (ma anche quella greca ebbe un ruolo importante nel caso dell'Egitto), si diffuse attraverso le pubblicazioni di periodici, opuscoli, la messa in scena di opere teatrali, l'attività sindacale e quella dei movimenti operai, soprattutto sulle coste mediterranee di Algeria, Tunisia ed Egitto. Senza dubbio, lo studio di questa prima ondata dell'anarchismo nel sud del Mediterraneo è stato condannato all'ostracismo.
Ciò è dovuto al fatto che nella narrazione nazionalista borghese è prevalsa l'attenzione per i movimenti di indipendenza nazionale, così come quella per la nascita dei partiti di sinistra nel mondo arabo, portando così la letteratura accademica a ignorare lo studio della ideologia libertaria nel sud del Mediterraneo.
La specifica storia dell'anarchismo, inteso come idea “universale”, ha considerato l'inesistenza di movimenti auto-denominati anarchici nella regione come un indicatore dell'assenza di ideologie libertarie nei paesi arabi sud mediterranei. Tuttavia, con la rinascita in quest'ultimo decennio dell'anarchismo su scala globale, compresi buona parte di quei contesti, in concreto Egitto e Tunisia, come nel caso dei movimenti Asian (Disobbedienza) e al-Haraka al-Ishtirakiyya al-Taharruriyya (Movimento Libertario Socialista), gli anarchismi del sud incominciano da un lato a dare risposte a questa visione eurocentrica dell'anarchismo, che sebbene pretenda di essere “universale”, ha funzionato spesso su chiavi spazio temporali molto concrete (europee, bianche e ottocentesche); e dall'altro, alle azioni solidali proposte dagli anarchismi del nord che in molte occasioni proiettano una visione orientalista e neocoloniale sugli anarchismi del sud.

Laura Galián

Originariamente apparso in Revista de estudios internacionales mediterràneos (n. 18/2015) con il titolo “Hacia un estudio decolonial del anarquismo. Perspectivas comparadas de Egipto y Tùnez”.